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Incontri di febbraio – Rita Remagnino

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Riconoscere un nuovo tassello della propria matrice identitaria in particolari destinati all’irrilevanza è un po’ come incontrare l’inaspettato che aspetti da sempre, lo stupefacente che però ha un non so che di famigliare. A me è successo con la regina Piedoca scolpita sul portale del priorato di Saint-Pourçain in Alvernia (oltre che in altre chiese medioevali francesi), dalla cui lunga veste spuntano i piedi palmati come zampe d’oca, o di cigno. Allo scultore piaceva scherzare? I frati avevano bevuto troppo, o sapevano più di quello che avrebbero dovuto sapere? Terra montuosa un tempo ricca di miniere di oro, argento e altri metalli preziosi, l’Alvernia prende il nome dai celti Arverni e vanta un passato storico e culturale di tutto rispetto. Innumerevoli volte le sue montagne hanno protetto le cerimonie dei druidi e ascoltato i loro canti per attirare i cigni (richiami?), che andavano poi a posarsi sui menhir e aspettavano con i sacerdoti il sorgere del sole, come racconta Eliano il Sofista nella sua opera monumentale Sulla natura degli animali. Questi incontri avvenivano per lo più nell’ambito di riti stagionali nati sulla base di un «passato stellare» risalente ad almeno 18mila anni fa, quando il cielo parve schiarirsi leggermente dopo il picco di massima estensione della glaciazione e i gruppi umani in uscita dagli antri sotterranei lungamente abitati al posto della Stella Polare trovarono ad attenderli soltanto oscurità. Misteriosamente, la Stella del Nord era sparita e nessuno sapeva dire dove fosse andata a finire. Fino a quel momento il «punto immobile» aveva rappresentato la vetta del mondo, l’immutabile sede della divinità suprema che interagiva con le creature terrestri, la guida degli itineranti. Adesso, però, quel punto non c’era più. Per fortuna brillavano nello spazio lasciato vacante alcune stelle circumpolari che giravano intorno al Polo Nord celeste (rimasto in prossimità della Via Lattea nel periodo 20.500-13.200 a.C.) e non venivano mai viste tramontare. Una circostanza ritenuta eccezionale, che fece guadagnare ai nuovi barlumi il titolo di «instancabili». Tra essi spiccava la Costellazione del Cigno, governata da Venere secondo la tradizione stellare classica, al cui interno si scorgeva una croce visibilissima, nonostante la luminosità della circostante Via Lattea. Nell’area più scintillante di questo tracciato stellare c’era Deneb, che virtualmente baciava l’orizzonte settentrionale nel punto più basso del suo transito, sul meridiano nord-sud, la linea immaginaria con cui gli astronomi vedevano tagliare in due il cielo. Sessantamila volte più luminosa del sole, ormai era lei la più bella del reame. Il «punto» di riferimento. Motivo per cui col passare del tempo i popoli dell’emisfero settentrionale (in quello meridionale il Cigno non era circumpolare, la sua visibilità era scarsa) la identificarono con la Croce del Nord. Più il buio glaciale arretrava, più quell’inconfutabile evidenza astronomica andava affermandosi come il simbolo della resurrezione spirituale e materiale. I costruttori megalitici la «pietrificarono» in molti siti sacri, perfettamente allineati con la costellazione in volo. Le popolazioni celtiche la consacrarono a Brigid, o Bride, figlia del dio solare Dagda e madrina di quasi tutti gli eroi che ebbero l’incarico di compiere imprese «magiche» altamente rischiose, ovvero che tentarono di entrare nelle oscure profondità dei Mondi Spirituali, uscendone talvolta indenni.

   

Resurrezione

Come molti sciamani del Neolitico la dea Brigid indossava mantelli fatti con le piume candide del cigno, un’usanza condivisa dai «colleghi» americani che si vestivano con mantelli di piume di cigno prima d’intraprendere i loro viaggi oltremondani. Le culture sciamaniche rievocavano così il passaggio vita-morte comprendente l’uscita e il rientro dell’anima da e nel «buco» formato da Deneb nel centro della Via Lattea, virtualmente considerato il nido dell’anima. Le mani della dea parlavano per lei: in una risplendeva il fuoco giallo della Luce (l’Uovo dell’eternità), nell’altra c’era la fiamma rossa (Deneb, il riscatto) senza la quale la stirpe umana non si sarebbe emancipata. Come tutte le Grandi Madri della preistoria anche la divinità nordica era allo stesso tempo buona e cattiva, amava profondamente i suoi figli ma all’occorrenza sapeva punirli in modo esemplare. Per questo la si vede talvolta raffigurata con un volto per metà splendido e per metà orribile; probabilmente un retaggio culturale risalente all’epoca in cui vigeva in Eurasia un sistema sociale di matriarcato agricolo e rurale che conferiva alla donna compiti trasversali come lenire le sofferenze, mettere ordine nel disordine, amministrare la giustizia secondo un piano imperscrutabile ma supremo, e dunque giusto. Emblema della fertilità e della rinascita, della famiglia e del focolare, Brigid veniva onorata dai popoli celtici durante la festa di Imbolc, o Festa della Luce, celebrata il 1° febbraio con un rito collettivo di purificazione. Se non ci fosse stata lei a volteggiare sopra le acque dei laghetti e delle fonti, portando ovunque l’annuncio della primavera imminente, la vita non si sarebbe risvegliata dopo il letargo invernale. Ma grazie al «tocco magico» del suo bastone sciamanico, già all’inizio di febbraio si poteva vedere la luce del sole aumentare lentamente. I bucaneve cominciavano ad apparire facendosi strada coraggiosamente attraverso la terra fredda e dura. Le pecore davano alla luce gli agnelli e il latte che inturgidiva le loro mammelle faceva ben sperare per la nuova stagione in arrivo.

 

Il richiamo

Nonostante la sovranità insita nel nome (Brigid significava «eccelsa», «altezza»), la candida dea di febbraio fu la prima divinità del nuovo corso post-glaciale a scendere dal piedistallo per intonare un lamento funebre dopo la morte del figlio Ruadan. L’allegoria potrebbe rappresentare l’ammissione storica di un sensibile accorciamento della vita media sul finire dell’Era Glaciale, un tema affrontato poeticamente anche nella saga del re sumero Gilgamesh, dove la morte viene indicata come «conseguenza del Diluvio» (Giovanni Pettinato, La saga di Gilgamesh, 1992). Non che prima di allora gli uomini non morissero, perché questo sarebbe stato impossibile, ma forse erano più longevi e resistenti delle generazioni nate in seguito. Allo scopo di radunare il consesso degli dèi, invitato a piangere insieme a lei quella morte prematura, Brigid inventò l’arte del fischio (il richiamo sciamanico per attirare i cigni?) attraverso cui chiamò a raccolta la famiglia divina, che prontamente planò su di lei confortandola con la parola.

Il passaggio merita una riflessione. Gli dèi non seguono il richiamo di questa Grande Madre della preistoria per mero formalismo, né per generosità. Semplicemente sono consapevoli che attraverso il sostegno collettivo fornito dalla vicinanza e dalla parola qualsiasi comunità (umana o divina) sostiene se stessa, dandosi la ragione per esistere che altrimenti non avrebbe.

Come ha sottolineato il filosofo Jürgen Habermas la comunicazione è incontro. L’incontro è dialogo [dal lat. dialŏgus, composto da dià, «attraverso» e logos, «discorso»]. Il dialogo è parola. Qualcosa che si sposta nello spazio, avvicina interlocutori distanti e distinti tra loro, arricchisce le parti prospettando posizioni differenziate. A sua volta la parola è racconto. Il racconto è tradizione. La tradizione è identità. Ha senso rinunciare a formidabili strumenti come questi per calarsi nella realtà piatta e uniforme del Mondo Unico? Vero è che alcune cose non si riescono a dire, perché non tutto il dicibile è contenuto nei pensieri, né nelle cose sensibili. Tuttavia l’impronunciabile può essere trasmesso dall’esperienza, spesso basata sull’esempio, una forma comunicativa non verbale incentrata sull’incontro. Alcuni traguardi non riguardano il cervello, essendo le loro tappe collocate nel mondo ignoto della subcoscienza, la sola capace di «non fare male al vento perché mostra di conoscere il dolore delle cose viventi», tanto per rispolverare una lode contenuta in un antico sutra indiano.

 

Illuminare il buio, spegnere la luce

Signora della Conoscenza, dea della poesia, della divinazione, dell'arte medica e della metallurgia, ispiratrice dei poeti e dei veggenti, Brigid non fu solo una figura poliedrica ma la testimone di un’importante sorellanza primordiale. Tra i nomi principali di questo sodalizio troviamo l’indiana Saraswati e l’egiziana Nut, che apriva la bocca ad ogni Prima Ora della notte per permettere alla barca solare di navigare nelle sue viscere, corrispondenti al Duat, il Regno dei Morti, legato direttamente sia alla Via Lattea che agli uccelli. Virtualmente l’«oscurità uniforme» presente nel corpo di Nut rappresentava il buio (della notte glaciale?) dove tutto ebbe inizio. Anche i Celti credevano che la luce nascesse dal buio, proprio come nello spazio nero si erano materializzati i pianeti e le stelle, nell’oscuro utero materno prendevano forma gli animali, nelle tenebre del sottosuolo i semi attecchivano, nel cunicolo faringeo passava il respiro che dava la vita scandendo il ritmo necessario alla rigenerazione dello spirito. Dal buio alla luce, dalla luce al buio. Il flusso perpetuo che lavava via ogni impurità, rigenerando i processi, garantiva il giusto equilibrio. Questa delicata alchimia veniva rievocata ogni anno dall’Europa celtica nel corso della festa di Imbolc, il «Tempo della Protezione», identificato nel calendario di Coligny con il nome di Anagantios. Similmente i Romani ebbero il loro momento purificatorio nei Lupercales, le cui fiaccolate rituali confluirono poi nella festività cristiana della Candelora, consacrata a un’altra divinità femminile, la Vergine Maria. Per un tempo indefinito nel mese lunare di gennaio-febbraio le famiglie europee rispettarono la tradizione di disporre nelle case dei cerchi formati da tredici candele, il numero annuale delle lunazioni, affidandosi spiritualmente al simbolo della Corona di Luce capace di purificare, proteggere e confortare le persone che si radunavano attorno al focolare domestico. Il suono degli strumenti musicali, del canto e della poesia associato alla proprietà altamente coagulante dell’elemento igneo affinava in ciascuno la capacità di richiamare dal buio gli esseri invisibili della Realtà Spirituale. La comunicazione linguistica faceva da collante e l’adesione tra gli esseri umani raggiungeva alti livelli all’interno della comunità.

   

Contro la paura: il linguaggio

Esce dal buio laringofaringeo anche la voce, e dunque la parola. “In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio”, esordisce così il vangelo secondo Giovanni, proseguendo sul cammino tracciato dalla candida dea di febbraio tra le montagne e gli altopiani dell’emisfero settentrionale. E’ un peccato che l’uomo contemporaneo abbia rinunciato a un tale patrimonio di cultura per vivere nell’inconsapevolezza del suo passato, e purtroppo anche del presente. Ormai incapace di percepire il farsi e disfarsi dell’invisibile involucro spirituale che lo avvolge egli ha reso se stesso un essere inadatto a coltivare l’arte della parola, incapace di scovare sotto il velo delle apparenze il segreto della profondità delle cose. Dopotutto siamo nel post-umanesimo, era prevedibile che le forme di umanesimo fino a qui conosciute cedessero sotto il peso delle forze disaggreganti messe in campo dal liberismo terminale, che addirittura ha messo sotto accusa la corporeità su scala globale. Un estremo mai toccato in precedenza. Obiettivamente abbiamo avuto tempi migliori. Non è il massimo vivere sotto il fuoco incrociato di forze maligne decise a sbaragliare la comunicazione linguistica per accelerare il processo di atomizzazione della società. Stanno facendo cose inconcepibili per dividere e disperdere le persone, indebolire e impaurire i popoli, impedire qualsiasi contatto interpersonale che implichi l’uso del linguaggio, spezzare la catena di trasmissione della cultura identitaria. Attenderemo la fine senza fare nulla, o troveremo la forza di rifiutare le deviazioni anti-umane incluse in un disegno malato basato sul controllo? In attesa di scoprire l’epilogo di questa brutta storia possiamo agire nel nostro piccolo non tanto per cambiare il mondo, atteso in tempi brevi al capolinea, quanto piuttosto per non consegnare noi stessi alla depressione e alla paura. Attraverso la trasmissione dell’esperienza piccoli gruppi di persone possono uscire in qualsiasi momento dall’«oscurità uniforme» e riprogettare una nuova vita attraverso il linguaggio, che è sempre un ottimo punto di partenza, come ha ampiamente argomentato la ricerca agambeniana.

 

Contro il confinamento: l’incontro

Mammiferi sociali per eccellenza gli esseri umani sono spugne intellettuali ed etiche, nel bene come nel male assorbono inconsciamente le influenze dell’ambiente circostante e hanno bisogno del contatto con i loro simili come dell’aria che respirano. Ne consegue che nonostante le proibizioni e i divieti ci sarà sempre nel mucchio qualcuno che non si rassegnerà all’imbozzolamento domestico, o alle misure di bio-tracciamento volte a privare la specie della sua pericolosa socialità. Le narrazioni ufficiali riguardano la maggioranza, mai la totalità. Non si spiega altrimenti per quale motivo in taluni villaggi anglosassoni si continuino a celebrare tra gennaio e febbraio riti a base di quarzi e cristalli lattiginosi che ricordano l’incessante fluire della Via Lattea. Anche in una regione Nord-Occidentale del Pacifico, sede della tribù dei Yakima, si tiene annualmente la rituale «danza del cigno». Giovani danzatrici agitano sapientemente i loro candidi scialli imitando i movimenti delle mamme-cigno nello svezzamento dei loro piccoli. Dal momento che i cigni non si incontrano nel Pacifico, sembra evidente che il rito non si rifaccia a un soggetto ornitologico reale ma riveli le tracce di remote civilizzazioni. Nella miscredente Europa continentale, troppo sfibrata per pensare e scarsa di memoria, il cosmogonico «mito del cigno» è sopravvissuto nella narrativa fantastica e in alcuni toponimi sparsi sulla carta geografica qua e là, a macchia di leopardo. Deve per esempio il suo nome al cigno bianco il lunghissimo fiume Elbe, che richiamando il disegno della Via Lattea attraversa per oltre mille chilometri l’Europa prima di sfociare nel Mare del Nord. Guarda caso in quei territori si indicano ancora con il termine elb le Fate e gli Elfi, sebbene le parole per dire «cigno» e «fata» siano più o meno le stesse anche in Islanda e in certe zone sperdute della penisola scandinava. Può darsi che il telaio da cui è uscito questo pregevole tessuto sapienziale sia nascosto nel quadrante posto tra Groenlandia, Islanda, Fær Øer e Scandinavia, dove i primi civilizzatori dell’Eurasia occultarono in mondi primordiali attualmente inabissati alcune conoscenze ancestrali. Ma vallo a trovare.

 

Contro la fine: un nuovo inizio

Faremo anche parte di generazioni alienate dalla natura e dalla vita naturale, istupidite dalla competizione sociale e dalla tecnologia, terrorizzate dai contagi e da virus fantasmatici divenuti simboli di morte, ma non subiremo a lungo il furto con scasso dei rapporti sensibili, dell’amicizia e dell’amore, della mimica dei volti, della chimica dei corpi, degli odori che attraggono o respingono. Non c’è vita senza incontro, e nessuno vuole recitare la parte del morto prima di morire. Come possono credere i nostri aguzzini che l’uomo si rassegnerà ad espiare un ergastolo incolpevole da consumarsi agli arresti domiciliari? Sono così stupidi da non considerare che la continua erosione della coesione sociale porterà al deterioramento della salute mentale degli individui? Oppure, sono così folli da pensare di poter sostituire gli uomini con i robot? Possiamo capire che per loro il dialogo sia irrilevante, non contando in questa forma di scambio né il potere né il danaro, solo il logos, ovvero la capacità di dialogare. Ma la cosa in fondo non ci riguarda. Mentre febbraio tinge i germogli di sole e gli alberi si fanno poesia riteniamoci dunque liberi di seguire le orme dei predecessori ponendoci sotto l’ala protettrice di Brigid, promotrice della necessità indifferibile dell’incontro. Nulla di male potrà capitarci se per qualche giorno dimentichiamo i rapporti da remoto e incontriamo gli amici che non vedevamo da tempo. Lontano dal bombardamento delle immagini sarà divertente ritagliare oasi di silenzio in cui radunare i messaggi universali provenienti dal mondo di sopra e poi trasmettere ad altri le nostre esperienze. Prima ancora di essere membro di una comunità e cittadino di uno Stato, l’uomo ha dimora in una lingua, o almeno così è stato prima che le rivoluzioni industriali snaturassero la vita umana cambiando il mondo. Non c’è, né ci sarà in futuro, un aiuto migliore della parola per affrontare il viaggio dall’umidità del buio al tepore della luce. Andata e ritorno. Non serve il biglietto, né il lasciapassare.


La filosofia decadente dell’Ulisse dantesco e i suoi ammonimenti all’uomo moderno – Jari Padoan

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I temi più caratteristici e famosi del XXVI canto dell'Inferno dantesco, e i significati che la figura magistrale del suo Ulisse reca con sé, sono in realtà anche i più fraintesi, o almeno quelli la cui comprensione è spesso alquanto approssimata. Notoriamente, questi concetti centrali del canto sono: l'evidente peccato di frode commesso da Ulisse che giustifica la sua presenza nell’ottava bolgia dell’ottavo cerchio (ma è appunto il caso di approfondire per quale frode, in particolare, l'eroe greco si sia assicurato la dannazione eterna); l'altrettanto evidente atto di "superbia" dell'attraversamento delle Colonne d'Ercole; e, in diretta e stretta relazione con tutto ciò, la celeberrima e proverbiale «orazion picciola», questo breve proclama, se non un vero e proprio "manifesto" improvvisato da Ulisse per persuadere i fedeli compagni a lanciarsi oltre il limite estremo del mondo conosciuto, nell'ultima avventura che non avrà il successo sperato. Questi punti, come si vedrà, si rivelano latori di precise questioni etico-filosofiche particolarmente care al Dante poeta e uomo, questioni che si deve tentare di decifrare e approfondire per poter comprendere appieno questo indimenticabile episodio del poema.

È molto importante delineare su quali basi e quali ispirazioni l’Alighieri abbia modellato questa sua personale re-invenzione fantastica non solo della figura di Ulisse, ma anche del contesto al quale questo personaggio archetipico dell’immaginario occidentale è da sempre inestricabilmente legato: il suo viaggio, o meglio la sua navigazione, verso l’ignoto. Consideriamo intanto che è regola costante nell’opera del Dante poeta, e in particolare nello scrittore della Divina Commedia, quella di elaborare le proprie invenzioni poetiche sulla base di una o più auctoritates della tradizione letteraria (nonché, ovviamente, filosofica o religiosa), per poi riservarsi un largo margine di libertà nell’integrare e ricomporre i vari elementi e le varie fonti, in un procedimento del tutto normale e naturale per ogni grande Autore. Notoriamente il codice poetico dantesco va infatti ricercato nei grandi poeti latini come Virgilio, Orazio, Stazio (del quale Dante, oltre a mantenere come opere di riferimento l’Achilleide e la Tebaide, farà un importante personaggio nel Purgatorio) e Ovidio, le cui Metamorfosi rappresentano una inesauribile enciclopedia di mitologia classica e in particolare greca, sulla quale verranno modellate proprio le immagini mitologiche rievocate nella Commedia. Vari studiosi che si sono occupati del XXVI canto (ad esempio il dantista inglese Edward Moore, autore di importanti studi risalenti a inizio Novecento) hanno quindi individuato con un buon margine di probabilità in questi e in altri fondamentali autori le fonti alle quali Dante può avere attinto per la sua personale ricostruzione del personaggio di Ulisse. Ma, risalendo alle lontane origini della questione, è noto che il topos del viaggio del Laerziade attraverso l’Oceano fino ai più remoti confini del mondo è presente già nell’Odissea omerica, e si tratta anzi di un elemento-chiave nella struttura e nella trama del poema: fin dall’apertura del primo libro si sa che l’eroe è ospite da ben sette anni presso Calipso, nella leggendaria isola di Ogigia, ubicata, a quanto si desume, nel mare aperto aldilà dello stretto di Gibilterra e definita come l’«ombelico» o il centro del mare.[I] Ma il fascino della figura di Ulisse, che per la tradizione classica è per antonomasia quella del viaggiatore ai confini del mondo –oltre che del guerriero sagace, astuto e potenzialmente fraudolento, come vedremo tra poco– si radicherà ben oltre la cultura dell’Ellade antica.

Il tema dei viaggi dell’eroe aldilà delle Colonne d’Ercole prima, dopo o invece del ritorno ad Itaca, che in questo modo riconferma il suo essere il grande simbolo dell’esplorazione dell’ignoto, viene infatti ripreso (o meglio, spesso perlopiù accennato, senza in realtà trovare una autentica codificazione attraverso un’opera definita) da numerosi fonti nella letteratura latina, e anzi da alcuni tra i suoi massimi esponenti. Proprio a cominciare dal succitato Ovidio, che rievoca in più punti delle sue opere l’aneddoto di Ulisse che non torna più all’isola natia ma riprende imperterrito le sue peregrinazioni marine, dimostrando ben poco riguardo nei confronti della straziata Penelope.[II] Segue Orazio che, in una sua epistola all'amico Massimo Lollio, non lesina di lodare Ulisse come esemplare figura eroica votata ad esplorare l’inconsueto, ricordando: «Quid virtus et sapientia possit utile proposuit nobis exemplar Ulixen, qui domitor Troiae multorum providus urbes, et mores hominum inspexit latumque per aequor». Oltre al passo oraziano, in cui si nota l’espressione «virtus et sapientia» che non può che ricordare direttamente il «virtute e canoscenza» del canto dantesco, vanno ricordati due passi di Lucio Anneo Seneca. Nell’Epistola LXXXXVIII ad Lucilium, il filosofo accenna a un possibile viaggio di Ulisse «extra notus nobis orbem», mentre nel De constantia sapientis l'eroe viene annoverato tra gli uomini che, in linea con la visione dello stoicismo romano, sopportano con pazienza e fierezza le avversità del Fato ineluttabile. Si ha inoltre un passo nel De finibus di Cicerone molto importante in questo senso, in cui il viaggiare di Ulisse è esaltato e interpretato come manifestazione di una ardente bramosia di scoprire, per la quale egli preferisce le avventure e i pericoli dell’errare per terre e mari anziché «Regnare et Ithacae vivere otiose cum parentibus, cum uxore, cum filio» (e anche in questo caso pare di leggere un evidente e diretto modello per i versi del XXVI canto).

Si potrebbero aggiungere molti altri riferimenti al tema, ad esempio da parte di Plinio il Vecchio, del geografo Giulio Solino e in opere poetiche come le Elegie di Properzio o le Fabulae di Iginio. Nella tarda antichità il tema è accennato nei Saturnalia di Macrobio e nell’opera di Cratete di Mallo, fino a sconfinare nella cultura medievale e in particolare in certe famose compilazioni di poesia epica, nella fattispecie la cosiddetta materia troiana, ripresa in opere come il tardo Historia Destructionis Troiae di Guido delle Colonne, risalente allo stesso XIII secolo che vede la nascita di Dante.

L’altra grande questione che interessa il XXVI canto, si è detto, è quella dell’Ulisse astuto e infido per antonomasia. Nel canone omerico, tra gli eroi tradizionali achei Ulisse è il simbolo della versatilità della mente umana, e dell’ingegno spesso votato all’astuzia fraudolenta; tale immagine è tipica soprattutto dell’Iliade, senza dimenticare celeberrimi episodi dell’Odissea (ma il poema del ritorno riporta comunque l’immagine di un Ulisse più sensibile e umano proprio perché provato dagli anni e dalle esperienze, e il cui principale obiettivo è l’agognato ritorno alla Terra dei Padri). Una figura quindi molto ambigua, in questo modo idealmente contrapposta a quella di Aiace Telamonio, che rappresenta invece l’eroe integerrimo, a sua volta ancora diverso da Achille, personaggio estremamente instabile e problematico (la sua ben nota caratteristica, oltre al massimo valore guerriero, è quella di essere propenso alla μηνιν, l’ira funesta). Uno degli epiteti di Ulisse più ricorrenti nell’epica omerica è quello di «πολιμετις Οδυσσεύς», «Odisseo dai molti accorgimenti» (per esempio in Iliade, III, 200) e il tratto principale attraverso cui il suo ingegno si esprime è quello dell’arte oratoria, della locutio: Ulisse è il guerriero che riesce a volgere le cose a proprio vantaggio con l’arte della parola e della persuasione. In seguito, nell’Eneide, Virgilio traccia un ritratto alquanto negativo dell’eroe itacese, se viene ricordato con la definizione di «scelerumque inventor» (II, 164), in riferimento non solo al celeberrimo inganno del Cavallo di legno, ma all’altrettanto poco encomiabile gesto di sottrarre la statua di Pallade dal tempio sulla rocca di Ilio, sempre con la partecipazione dell’alleato Diomede, in modo da inficiare la protezione divina sulla città. Oppure, in occasione dello scontro tra l’esercito dei Teucri e dei Rutuli in terra latina (IX, 602), il re Turno irride Enea e i suoi uomini affermando che i Rutuli si faranno valere ben più dei contingenti greci a Troia, celebri per il loro Ulisse «ciarliero e mentitore» («non hic Atridae, nec fandi fictor Ulixes»). Anche grazie al massimo poeta epico di Roma e i suoi «alti versi», quindi, la fama di essere stato (tra l’altro) un avversario poco onesto e un infido affabulatore è assicurata al re di Itaca, che non casualmente verrà ritratto da Dante, per la legge del contrappasso, dannato all’interno di una lingua di fuoco.

Avvicinandoci appunto al personaggio che il Poeta colloca in quel di Malebolge, è evidente che non si tratta certo dell’Ulisse stoico, o comunque riflessivo e paziente, che avrebbe voluto Seneca; l’Alighieri lo modella su tratti evidentemente più ispirati a quelli riportati da Cicerone e da Orazio, che restituiscono la proverbiale curiositas di Ulisse, denotandolo come colui che vaga per i mari perlopiù allo scopo di un personale inspicere mores hominum, indagare le usanze degli uomini e dei popoli. È proprio in questo contesto che Dante ascrive l’attraversamento dello Stretto di Gibilterra, che l’eroe compie in quello che si rivelerebbe il suo definitivo atto di superbia, o meglio, di tracotanza e di mancato rispetto della norma. Nella simbologia mitologica, le Colonne d’Ercole rappresentano notoriamente il preciso limite di azione e di esperienza dal quale, per l’uomo, è ancora possibile il ritorno. Lo stesso Eracle/Ercole, appunto, si è recato per ben due volte, nel corso delle dodici fatiche, nell’estremo occidente dell’Oceano per raggiungere l’Orto delle Esperidi da cui cogliere la mela d’oro e nell’isola Eritea per domare i buoi di Gerione: al ritorno da quest’impresa, le due montagne (il Monte Abila e il Monte Calpe) che l’eroe sposta con la propria forza sovrumana, e pone rispettivamente sulla costa mauritana e su quella iberica, si rivelano così non solo l’ultimo confine del mondo familiare alle culture del Mediterraneo antico, non solo tra noto e ignoto, ma anche tra noto e ciò che non è stato dato conoscere. Essendo Eracle una manifestazione divina (è un semidio figlio di Zeus e della mortale Alcmena), questo limite ultimo indica anche quello tra fas e nefas, «acciò che l’uom più oltre non si metta» (Inferno, XXVI, 109). L’Ulisse di Dante compirebbe così un tipico atto di υβρίϛ, che per la tradizione e la visione del mondo ellenica è forse l’unica grande colpa, manifestabile in varie forme di violenza e scorrettezza (orgoglio, omicidio, incesto, negligenza verso il Divino …), ma sempre riconducibile ad una problematica ben precisa: lo sconsiderato superamento dei limiti imposti all’essere umano dalla natura, e quindi dalla divinità. Fin dalla captatio benevolentiae che Virgilio rivolge alla fiamma bicornuta («…ma l’un di voi dica dove, per lui, perduto a morir gissi», v.84) si comprende infatti che quello di Ulisse è stato un viaggio destinato alla sconfitta e alla fine (e la scelta da parte del Maestro di chiedere all’eroe greco di raccontare la sua ultima avventura avviene, nella finzione poetica, in modo che Dante stesso possa trarre insegnamento,[III] per i motivi che vedremo). Ma come si lega, quindi, questo atto di “dismisura” intellettuale e pratica al peccato di frode che l’Itacese sta scontando nell’Inferno dantesco? Sono indipendenti, ovvero Ulisse è sì un ben noto fraudolento ed è anche un superbo e un empio verso le leggi divine, oppure vi è una vera e propria connessione?

A questo proposito, si giunge a un punto focale: Dante fa pronunciare al suo Ulisse, nell’orazion picciola, lo stesso identico principio espresso in apertura della Metafisica aristotelica. Se, dal punto di vista poetico-letterario, il modello dell’orazione di Ulisse è probabilmente da ricercare nel discorso che Enea rivolge ai compagni (Aen. I, 202), esortandoli appunto con «O socii…», il contenuto delle parole dell’eroe acheo è una citazione quasi letterale dell’incipit del testo di Aristotele (riportata da Dante anche in apertura del suo Convivio): «Πάντες ᾶνθρωποι τοῡ είδέναι ὀρέϒονται φύσει» («tutti gli uomini per natura tendono al sapere»).[IV] È stato affermato da studiosi come Mario Fubini (1900-1977), e più recentemente Massimo Cacciari, che la chiave per comprendere questa figura dell’Ulisse dell'Inferno, tanto drammatica quanto complessa ed enigmatica, sia non solo considerare questo dato di fatto ma anche in che modo intendere questo “aristotelismo dell’Ulisse dantesco”; si ricordi infatti che Dante non aveva una autentica conoscenza di Omero (se non indiretta, attraverso la moltitudine di riferimenti e citazioni dei grandi autori latini), ma vantava invece un profondo studio dell’opera dello Stagirita.

Per Dante, uomo e intellettuale del basso Medioevo, Aristotele è infatti il paradigma filosofico per definizione,[V] è il «maestro di color che sanno» (Inf., IV, 144) che siede fra la filosofica famiglia nel castello degli Spiriti Magni. Il poeta, naturalmente, non è certo alieno dalle dottrine del platonismo, anzi: l’influenza del pensiero di Platone, nella cultura del Medioevo occidentale, è pressoché ovunque per quanto esso sia filtrato attraverso le studiatissime opere di autori cristiani come Agostino, Boezio, Origene, lo pseudo-Dionigi Aeropagita... Senza contare che accanto alla Patristica e alla stessa Bibbia (il testo che fornisce il bagaglio ideologico di tutto il Medioevo,[VI] secondo Jacques Le Goff) rimane imprescindibile e onnipresente l'importanza dei classici latini di cui sopra, per quanto reinterpretati in chiave cristiana (come lo stesso Virgilio, e si ricordino a questo proposito i riferimenti platonico-pitagorici del VI canto dell’Eneide). Una tradizione ben familiare a Dante il quale, forse, potrebbe avere letto anche il commento al Timeo scritto in latino da Calcidio, testo fondamentale in quanto unica fonte medioevale pressoché completa e diretta sulle dottrine platoniche (ipotesi a cui darebbe adito il riferimento, nel II libro del Convivio dantesco, alle Intelligenze Celesti di cui si argomenta nel Timeo).

Secondo il primo tomo della Metafisica, la particolarità e la caratteristica intrinseca dell’essere umano è quella di venire affascinato dal trauma, dalla meraviglia dell’Essere che lo colpisce nel profondo, e lo spinge a muoversi verso di essa, nel tentativo di conoscere il suddetto. Per il dizionario Rocci, θαυμα è «meraviglia», «prodigio», «miracolo» (ma «anche in senso spaventoso e negativo», accezione che è rimasta nell'uso comune del concetto di trauma; proprio nell’Odissea, appunto, Polifemo «era un mostro orrendo», «θαυμα ετετυχτο πελωριον»). Quindi, è la filosofia stessa a nascere dalla meraviglia (Metafisica, A, 982 b 10) conducendo l’uomo nello stato contrario a quello del suddetto θαυμα, in questo modo superandolo e raggiungendo la condizione che Aristotele definisce ἄμεινον (983 a 18), parola che, come la forma latina amoenus che denota la stessa radice, indica lo splendore del Bene che, in quanto tale, si fa comprendere e amare.[VII] L’intelletto umano, dice il Filosofo, ha per presupposto il sensibile: sempre proseguendo nel primo libro, infatti, si legge che «il percepire è cosa comune a tutti». Subito dopo, però, che «le più rigorose tra le scienze sono quelle che hanno per oggetto le cose prime», ovvero le cosiddette scienze teoretiche: matematica, fisica e metafisica (e quest’ultima ha il suo corrispettivo naturale nel Cielo delle Stelle Fisse, sostiene Dante nel Convivio sulla scia di Aristotele). E le cose prime non sono altro che le cause e i principi dell'Essere in quanto Essere, la cui indagine è la Metafisica, la vera sapienza.[VIII]

È la grande prospettiva filosofico-teologica ripresa dalla cultura del pieno Medioevo, che si riflette tanto nelle monumentali architetture delle cattedrali[IX] quanto in opere come la Summa Theologiae di Tommaso e naturalmente la stessa Commedia: il compimento mistico è la meta da perseguire in alto, alla quale si può giungere soltanto attraverso una complessa struttura che poggia su precise, solide e imprescindibili fondamenta. Seguendo il concetto aristotelico, riadattato per quanto possibile alla temperie religiosa e fideistica cristiana, la teologia è quindi il compimento della metafisica, ma la filosofia, compresa ovviamente tutta la tradizione filosofica precedente e successiva all’avvento del Cristianesimo, non può che rivelarsi, al massimo, una ancilla theologiae (un principio teorizzato fin dal pensiero di Agostino per poi radicalizzarsi secoli dopo nella tradizione scolastica, in particolare grazie a Bonaventura da Bagnoregio e Tommaso d’Aquino). Una disciplina subalterna, quindi, anzi propedeutica e letteralmente al servizio dell’autentica conoscenza della verità religiosa che spetta alla teologia, la domina scientiae: il raggiungimento della conoscenza dell’Ente Sommo di cui già parlava, appunto, proprio il XII libro della Metafisica aristotelica. Ora, teoricamente, se l’uomo non riesce a raggiungere questa realizzazione nella Conoscenza divina, rimane incompleto e quindi infelice; ma, dice Dante (nel solco di Aristotele e del suo interprete Tommaso), l’intelletto umano, per quanto limitato per sua stessa natura, se applicato in modo equo a ciò a cui può giungere realizza sé stesso in un progressivo susseguirsi di nuovi arrivi e di nuove partenze: la conoscenza umana è un viaggio in itinere. Ogni volta che si acquisisce un nuovo sapere, a quel punto l’uomo che vuole sapere è soddisfatto, ed è, fino alla prossima conoscenza, compiuto.

È all’interno del Convivio, o Convito, che si trova la magistrale argomentazione di Dante su questo tema centrale. Il poeta scrive i primi (e unici) quattro libri del trattato tra il 1304 e il 1307, in un periodo nel quale è ormai da anni in esilio per le terre dell’Italia settentrionale (essendo ideologicamente guelfo bianco, è bandito nel 1301 dalla Firenze in mano ai “neri”); in questo periodo è molto probabilmente a Lucca ospite dei Malaspina e a Treviso presso Gherardo da Camino.[X] L’importanza del Convivio è capitale anche “soltanto” considerando il suo essere praticamente il primo trattato filosofico nell’Europa medievale scritto in fiorentino dopo secoli di latino e greco (un caso al quale sono paragonabili soltanto le opere in volgare catalano di Raimondo Lullo e il Trésor di Brunetto Latini, celebre «maestro» dello stesso Dante ricordato in Inf. XV). Qui Dante sostiene come, considerato che la Teologia sia naturalmente la Domina Scientiae, le altre scienze (o Arti Liberali suddivise nel Trivio e del Quadrivio, canone di origine classica rielaborato nel Medioevo attraverso l’opera di Marziano Capella e di Boezio), nella loro subordinazione gerarchica alla suddetta sono comunque in loro stesse perfette e compiute perché realizzano pienamente il proprio essere, ciò che in termini aristotelici è la loro ηνηργεια. E per quanto riguarda l’intelletto umano, la sua propria ηνηργεια, se applicata correttamente, è proprio quella di conoscere: ogni persona è (o meglio, dovrebbe essere...) ontologicamente portata a realizzarsi attraverso l’intelletto e la conoscenza. Per l’uomo, quindi, vivere «è ragione usare» (Convivio IV, 7).

Ora, l’Ulisse del XXVI canto si comporta (apparentemente) proprio nel modo di cui si argomenta nella Metafisica: colpito, anzi ossessionato dai prodigi dell’Essere, cerca di raggiungere con i suoi mezzi, che sono umani ed empirici, ciò che per lui è il più lontano possibile, almeno dal punto di vista fisico e geografico. Perché, quindi, Dante lo “condanna”? Significativo è anche il dato che la sua orazione venga strutturata, strategicamente, in tre terzine (versi 112-120), e la si può quindi intendere come una terzina-sillogismo di palese impostazione aristotelica:

  1. Tutti gli uomini, per loro stessa natura («semenza»), dovrebbero seguire virtù e conoscenza;
  2. Voi, compagni di Ulisse, siete uomini;
  3. ergo, è il momento di andare oltre le Colonne d’Ercole!

Predicando ciò, e agendo di conseguenza, Ulisse non applica quindi correttamente il proprio intelletto umano, in linea con i più alti principi filosofici della tradizione del Medioevo occidentale, invitando peraltro i compagni a fare altrettanto?

La risposta è negativa. Esaminando i fattori più evidenti, è palese che la ricerca di Ulisse non sia quella di una persona che segue un percorso in itinere, una indagine paziente e progressiva: al contrario, il suo è un «ardore», un furor inarrestabile, quasi, si direbbe oggi, una attività compulsiva. Inoltre, la sua furiosa spedizione esplorativa tra i mari e le terre conosciute («L’un lito e l’altro vidi infin la Spagna, fin nel Morrocco, e l’isola d’i Sardi, e l’altre che quel mare intorno bagna», vv.103-105) è una ricerca, come accennato, che si limita alla sfera del sensibile e dell’empirico, e ciò emerge esplicitamente dall’orazione («…a questa tanto picciola vigilia d’i nostri sensi ch'è del rimanente, non vogliate negar l’esperienza…»): l’Ulisse di Dante limita il mondo, quel mondo che tanto brama conoscere, alla sola sfera materiale dei sensi, ignorando la via del Trascendente che, lascia intendere il Poeta, è la sola che possa dare significato all’esistenza umana.

Si ha quindi una decisiva e abissale differenza tra l’Ulisse omerico (ma in particolare, ovviamente, quello della stessa Odissea) e quello dell’Inferno: se il primo è un eroe del mondo tradizionale che ha un’esperienza del Divino pressoché normale e quotidiana (viene costantemente consigliato da Atena, è perseguitato dall’ira di Poseidone –e il suo equipaggio da quella di Iperione–, conosce l'importanza della prassi del rito e del sacrificio, giunge persino a unirsi con una ninfa), il secondo, quello di Dante, pratica un personale “aristotelismo” puramente fisico, e quindi una filosofia atea. È notevole, infatti, la totale assenza di riferimenti metafisici o religiosi nel lungo monologo-racconto, almeno fino all’arrivo della nave al largo della montagna del Purgatorio, che già appare ad Ulisse «bruna per la distanza», avvolta nelle nebbie e nella lontananza dell’Inconoscibile al comune sentire umano. Estremamente rilevante è anche il fatto che l’Ulisse dantesco, così ardito e risoluto a superare ogni limite, non ponga in discussione i suoi limiti di essere umano e perciò soggetto, per sua stessa essenza, alla finitudine e al transeunte. Il Conosci te stesso, e niente di troppo comandato dal Tempio di Delfi (o l’agostiniano In interiore homine habitat veritas, più familiare al tempo di Dante) è del tutto trascurabile e trascurato da parte dell’eroe: il sé stesso di Ulisse è una curiositas implacabile che ignora o forse sopravvaluta la propria natura umana, seguendo il suo unico imperativo di indagare e comprendere sensibilmente e razionalmente. Ancora una volta a scapito, quindi, di un primo legame tra l’uomo e il Trascendente che inizia appunto dall’indagine della propria interiorità: anche qui un riferimento di Dante, e una negligenza da parte del suo Ulisse, agli insegnamenti di Platone e Aristotele.

Al «folle volo» di Ulisse, lanciato senza compromessi alla scoperta di ciò che è fisicamente esperibile e infine volto ad affrontare l’ignoto assoluto, manca perciò il fine ultimo, quello metafisico, in totale opposizione al viaggio che, nella Commedia, sta invece compiendo Dante. Se entrambi i loro percorsi sono diretti verso il Purgatorio (cosa che peraltro Ulisse ignora), quella di Dante è una strada molto particolare dalla schiavitù del peccato alla libertà, che il poeta intraprende gratia dei (a differenza dell’iniziativa personale di Ulisse) e sotto una precisa e particolare guida (quella di Virgilio, poi di Beatrice e Bernardo), contrariamente all’eroe greco che segue solo la sua curiositas e, al limite, la parziale e insufficiente guida dell’intelletto umano che si limita alla sfera del sensibile e del puramente razionale. E questo è sapientemente simboleggiato dallo stesso ambiente naturale in cui prosegue il «folle» viaggio: la stessa espressione «di retro al Sol» (v. 117) è molto eloquente e altrettanto inquietante, poiché per tradizione l’astro diurno è l’orientamento dell’uomo, la guida «che mena dritto altrui per ogni calle» (Inf., I, 18). Il Sole è allegoria di luce divina e intellettuale, fondamento della conoscibilità delle cose (si pensi, naturalmente, al mito della caverna di Platone, o all’incipit del Vangelo di Giovanni «et lux in tenebris lucet», la luce che è anche il Λόϒος), e Ulisse e i suoi seguono la via del Sole declinante, immagine che già nell’antica cultura egizia era in uso per indicare metaforicamente il trapasso. L’eroe e i compagni si inoltrano nell’«alto mare aperto», ed ecco l’immagine archetipica dell’Oceano come simbolo del grande ignoto: quello che ripropone Dante è un concetto fondamentale della visione sapienziale classica, indicando come oltre il πέρας rappresentato dalle Colonne d’Ercole ci si inoltri nell’απέιρων, il mare senza limiti dove, per definizione, ci si perde, e l’infinito rappresenta in questo caso anche il non-ente che, conseguentemente, non può essere conosciuto: la contraddizione insita nell’impresa è perciò evidente, e la lezione (trascurata) dell’oracolo di Delfi incombe sempre più minacciosa. Ancora, Ulisse racconta della vista delle stelle del cielo australe e fa riferimento al lume della Luna (vv.127-132): come osservato da Daniele Mattalia,[XI] dopo il superamento del limite non si accenna più alla luce solare, e l’atmosfera in cui si svolge la navigazione diviene notturna, il che si può intendere tanto come un’allusione simbolica al tema del viaggio, ossia il mistero, quanto all’idea che la luce-guida solare (Dio) venga inadeguatamente sostituita dalla più debole luce lunare e stellare (la ratio umana, guida valida ma non del tutto sufficiente).[XII]

Non è tutto: vi è un altro aspetto fondamentale per comprendere la portata negativa e pericolosa della filosofia “fraudolenta” propugnata da Ulisse diretto verso l’Oceano ignoto. L’Ulisse dell’Inferno racconta che, sempre ricollegandosi a quanto si narra nel XV libro delle Metamorfosi e dimostrandosi ancora una volta in antitesi all’eroe dell’Odissea, lasciata Circe riprende il mare non certo per tornare ad Itaca ma per «divenir del mondo esperto». In questo modo, sovrappone l’importanza della sua ricerca alla «dolcezza di figlio», «la pièta del vecchio padre» e «’l debito amore» per Penelope, trascurando quella che a Roma è la pietas, ovvero la comprensione, il rispetto e l’obbligazione verso i parenti, nonché verso gli amici, i sodali e il prossimo, e che formava con la fides e la virtus la base dell’etica tradizionale romana: l’opposizione della figura di Ulisse è perciò evidente anche rispetto a quella di Enea, per definizione pius verso la stirpe e la patria (quella originaria, Troia, e quella futura in Italia) in quanto votato, per mandato divino, alla missione civilizzatrice che lo conduce nel Lazio. Ecco quindi come il comportamento di Ulisse si ponga negativamente anche alla luce dell’altro grande tema aristotelico caro a Dante, quello appunto dell’etica (da ἔϑος, cfr. latino suesco, sodalis, soleo, ovvero abitudine, consuetudine, “costume” nel senso più alto: quello che mantiene unito un ordine e una tradizione). Dante, nel secondo trattato del Convivio, ricorda che senza amore è impossibile la pratica della filosofia e quindi la ricerca della verità, riprendendo precisamente le dottrine dell’Etica Nicomachea di Aristotele (che aveva conosciuto nella traduzione latina del medico fiorentino Taddeo Alderotti), opera che a sua volta tramandava gli insegnamenti del suo maestro, in particolare del Fedro e del Simposio. Dante ribadisce in questo modo il primato dell’etica per raggiungere virtute e canoscenza, facendo agire il suo Ulisse in modo specularmente inverso: atto finale di incosciente e sistematica autodistruzione è la stessa «orazion picciola», la frode terminale e totale di Ulisse, la retorica più diabolica con la quale convince i compagni a seguirlo nel folle volo verso ciò che non può essere sensibilmente conosciuto.

I messaggi del XXVI canto dell’Inferno, che Dante ha trasmesso attraverso questa figura immensa nella sua contraddittoria tragicità, non possono quindi che rivelarsi ancora una volta quanto mai attuali, drammaticamente attuali: per l’uomo è possibile una realizzazione attraverso il sapere restando nei limiti consentiti, mantenendo il legame con l’etica, mantenendo il legame con la propria interiorità, senza contraddittori tentativi di vie traverse o equivoche verso il Trascendente. Un Trascendente che, come insegnano le grandi tradizioni, può essere compreso e raggiunto, ma non attraverso certe degenerazioni e devianze culturali, scientistiche e “morali” adottate negli ultimi secoli dalla più arrogante mentalità moderna, la quale è giunta addirittura a negarlo.

Ritrovandosi, in questo modo, «di retro al Sol», e ormai molto lontano oltre le Colonne d’Ercole.   NOTE

[I] Per quanto il fatto che Ulisse «sfrutti il vento di Borea» per riprendere la navigazione da Ogigia lasci intendere invece un’ubicazione geografica ben più “nordica” per l’enigmatica isola. Autori come Plutarco (nel De facie quæ in orbæ Lunaæ apparet) la collocano infatti a cinque giorni di navigazione dalla Britannia; a latitudini altrettanto settentrionali, per quanto approssimate nella deformazione del racconto mitico, veniva situata per tradizione anche la lontana e caliginosa terra dei Cimmeri dove Ulisse si reca su indicazione di Circe per accedere all’Ade, allo scopo di ottenere responsi divinatori dalle ombre dei defunti e in particolare di Tiresia (Odissea, libro XI). All’interno del poema, entrambi gli episodi accennati sono inseriti nel percorso compiuto dall’eroe per tornare ad Itaca e ristabilire l’ordine nella Casa dei Padri, e naturalmente vanno considerate le possibili letture esoteriche dei rispettivi viaggi, che indicano una simbologia iniziatica: le collocazioni iperboree dei due luoghi, il dettaglio che la semidea ospite di Ulisse porti il nome di «Colei che nasconde» e la discesa agli Inferi da cui l’eroe riemerge e continua il viaggio (tema poi ripreso, non certo casualmente, proprio da Virgilio e da Dante) non lasciano dubbi a riguardo. Sull’argomento, si veda ad esempio René Guénon, Simboli della Scienza Sacra, Adelphi, Milano 1975; Gianfranco Drioli, Iperborea. Ricerca senza fine della Patria perduta, Ritter, Milano 2014; Vito Foschi, L’isola di Ogigia, in Lex Aurea. Libera rivista di formazione esoterica n.52, aprile 2014, p.4 (consultabile presso il sito web www.fuocosacro.com).

[II] Cfr. Ovidio, Ars Amandi, III 355; Amores, III 4; Metamorphoseon Libri XV, XIV 437-438.

[III] Giorgio Padoan, Ulisse «fandi fictor» e le vie della sapienza, in Giorgio Padoan, Il pio Enea e l’empio Ulisse. Tradizione classica e intendimento medievale in Dante, Longo Editore, Ravenna 1977, p.191.

[IV] Aristotele, Metafisica, Bompiani, Milano 2002, Libro A, 1, p.5, traduzione di Giovanni Reale.

[V] La questione è storicamente complessa, in quanto le opere filosofiche e fisiche di Aristotele vengono riscoperte dall’Occidente latino a partire dal XII secolo (in precedenza si conosceva interamente soltanto la Logica), grazie all’opera dei filosofi e commentatori ebraici e soprattutto islamici come Averroè e Avicenna. Le dottrine aristoteliche avranno comunque seri problemi ad essere accettate e interpretate dalla tradizione teologica cattolica (ed islamica, entrambe le quali non potevano che disconoscere concetti, per esempio, come l’eternità e la necessità del mondo, o la tesi dell’unità dell’Intelletto), problemi in parte “risolti” dai grandi maestri della Scolastica come Alberto Magno e Tommaso d’Aquino, peraltro a sua volta influenzato dalle dottrine platoniche esposte dal persiano Avicenna, dopo una iniziale e intransigente opposizione da parte di autori come Alessandro di Hales e Roberto Grossatesta.

[VI] Jacques Le Goff, Prefazione, in Henri-Charles Puech, a cura di, Storia delle religioni, vol.10, Il cristianesimo medievale, Laterza, Bari 1977, p.24.

[VII] Emanuele Severino, Prefazione, in Aristotele, Metafisica, libro I, RCS Libri s.p.a., Milano 2009, p. V. [VIII]Cfr. Aristotele, Metafisica, libro IV, Bompiani, Milano 2000, a cura di Giovanni Reale. [IX] Cfr. Titus Burckhardt, L’arte sacra in Oriente e in Occidente, Rusconi, Milano 1976.

[X] Daniele Mattalia, Cronologia, in Dante Alighieri, La Divina Commedia. Inferno, Rizzoli, Milano 1960, p.54. La prima decade del Trecento, trascorsa da Dante in peregrinazioni presso varie città italiane (nonché, pare, anche a Parigi) nelle quali lui stesso non si è minimamente premurato di lasciare tracce del suo passaggio, rimane a tutt’oggi una parte molto oscura e ben poco ricostruibile della biografia del poeta.

[XI] Cfr. Dante Alighieri, La Divina Commedia. Inferno, cit.

[XII] Anche nella tradizione dell’Alchimia occidentale il principio della ragione e della sapienza umana trovi una sua simbolizzazione (tra le varie altre) nell’immagine della Luna, cioè l’astro passivo e mutevole che brilla della luce riflessa del Sole (il quale è invece la stella invece “completa” e virile, in quanto simbolo del regale e del Divino per definizione). A proposito, cfr. Julius Evola, La Tradizione Ermetica, Edizioni Mediterranee, Roma 1971 (III edizione).

Le pinze di Pasqua – Claudio Antonelli (Montreal)

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Nel rione di Montréal dove risiedo gli ebrei sono la maggioranza. Ho modo di osservarli, durante Passover, la Pasqua ebraica, mentre a nuclei familiari interi camminano vestiti a festa; le donne abbigliate in una maniera démodée ma quanto aggraziata, che fu di moda forse nella Vienna d’anteguerra, o a Budapest o a Odessa tanti anni fa. Si recano in visita ai parenti, agli amici, oppure escono dalla Sinagoga. Il carattere rituale della loro visita è sottolineato dalla maniera in cui, ogni volta, uno di loro reca un oggetto di culto, un libro di preghiere, uno scialle ricamato o qualche altra cosa dal significato inafferrabile per i miei occhi profani. Gli ebrei commemorano un esodo avvenuto quasi tremila anni fa. Ma essi sono così presenti sulla scena culturale, politica, e dei mass media – specialmente in Nord America – che i loro lontani, mitici avvenimenti riecheggiano continuamente sull’intero pianeta.  

Ma a chi parlerò io del nostro passato?  

Penso a mia madre e al rito domestico che per tutta la sua vita ha sottolineato, ad ogni Pasqua, l’eterno legame con la martoriata Istria: la preparazione della modesta “pinza”, il nostro rustico panettone pasquale, simbolo di un mondo antico per sempre frantumato dalla guerra e dall’esodo. 

Si era fatta vecchia e stanca mia madre. Non voleva neanche più leggere il “Notiziario pisinoto”, che tiene uniti tutti i pisinoti dell’esodo. L’ultima volta aveva declinato di dargli anche un solo sguardo. Si era schermita, dispiaciuta di deludere la mia ansia di sapere chi fosse quel pisinoto di cui era annunciata la morte, o quell’altro, autore di un articolo di rimembranze, e a chi fossero appartenuti i volti in certe vecchie fotografie che il Notiziario pubblicava come testimonianza del nostro lontano, imprescindibile passato. 

“Claudio, mi fa così male guardare indietro, pensare a tutto quello che è successo alla nostra Istria, e a tutti noi, finiti così lontani gli uni dagli altri.”  

Non avevo insistito, perché la capivo. Del resto, a me stesso per tanti anni era mancata la forza di approfondire il passato così doloroso che ci avvolgeva con le sue spire, e che suscitava in me mille domande. A quel passato io pensavo continuamente, ma avevo sempre preferito rinviare al domani certe precise domande che premevano dentro di me, facendomi male. Domande su periodi, persone, episodi, momenti…  

Pisino e i suoi giorni solari e i suoi giorni bui erano sempre presenti in casa nostra. I miei ne parlavano ogni giorno. Pisino e l’Istria tornavano sempre, spontaneamente, come tornano le cose interiorizzate divenute parte ormai dell’anima. Come torna a dei genitori vecchi la vivida memoria del figlio, morto bambino.

[caption id="attachment_53339" align="alignright" width="300"] pinza istriana[/caption]

Io ero il testimone muto di una storia che era riecheggiata un numero infinito di volte in me, e che per un eccesso di sensibilità, e per un senso forse poco comune di lealtà e di fedeltà, era diventata il mio passato. Io ero finito al centro di quella storia, di quella sconfitta, di quell’esodo. Vi ero finito senza alcun autocompiacimento morboso, senza “sensibleries” estetico-letterarie, ma per un dovere innato di fedeltà e di lealtà, simile forse a quello che sanno avere i soldati, figli di soldati, nei confronti della bandiera e dei confini della patria. E dico questo consapevole che sto toccando un tasto che, in Italia, teatro della messinscena, delle belle uniformi e dei toni roboanti, si presta purtroppo alla retorica.  

Con la nascita di mio figlio, avuto in età già matura, mi ero sentito più forte ed avevo cominciato ad approfondire certi aspetti di quel passato che mi aveva sempre posseduto, e che io avevo sempre temuto come cosa con cui bisognava cercare di tenere una minima distanza, per non finire come mio padre, sopraffatto per il resto della vita dal trauma di quei giorni. 

A mio padre avrei voluto chiedere tante cose. Sulla sua vita di economo al convitto Fabio Filzi, su suo padre, orefice, e sui momenti più drammatici della nostra fuga dall’Istria. Sui giorni bui, quando si era tenuto nascosto per non essere preso ed eliminato dai titini. E sui suoi amici infoibati e sulla nostra gente dispersa. Ma mi dicevo: sarà per un’altra volta. Non mi sentivo abbastanza forte per chiarire, in queste memorie di disperazione, i dubbi, e trovare una risposta alle interrogazioni che più premevano in me. 

Mai mi sono sentito abbastanza forte, e mio padre è morto lontano dalla sua Pisino. È morto in un luogo in fondo assurdo: Baie d’Urfé, Québec, Canada. Località bella, sì, ma assurda, com’è assurda una vita trascorsa senza avere più radici, in un paese di cui non si conosce la lingua, tenendo dentro di sé uno spasmodico amore per un luogo perduto per sempre, le cui tenere tinte delle memorie d’infanzia sono commiste ai colori violenti del sangue e della morte. 

“Questa è l’ultima volta che preparo le pinze… Le voglio fare anche quest’anno. Ci vuole tanto lavoro… Ma senza pinze non mi sembrerebbe Pasqua.”  

Io sapevo già che anche questa volta mia madre le avrebbe fatte. Sapevo che le avrebbe preparate fino alla morte, la morte fisica, perché una certa morte era già avvenuta tanti anni prima, con la perdita del bene più caro per la nostra razza di frontiera: il suolo natale. 

Quell’anno mia madre non fece le pinze. E morì nel gennaio successivo. 

Ma chi conosce le nostre pinze? Le nostre povere pinze, senza glamour, che non saranno mai celebrate né da Hollywood né da Cinecittà. Non le conosce neppure mia moglie, nata in Asia, in un villaggio agli antipodi della nostra Pisino. Non le conoscono i miei parenti acquisiti. Non le conoscono né i miei colleghi né i miei conoscenti. Non le conoscono i miei amici. Non le conoscerà mai mio figlio. 

Vedendo quei nuclei di ebrei, da cui emana il profumo delle tradizioni e lo spirito gioioso della festa in cui i bambini sono dei re, io penso all’illusione del globalismo e della mondializzazione… 

Chi, per le vicende della vita, si è spinto oltre i confini di quell’identità che era sancita da riti secolari, feste, ricorrenze, dialetto, piatti tipici, abitudini, si è accorto, con il passare degli anni, di aver perso un tesoro. La sua identità originaria si è rarefatta, trovando posto in una nuova identità, forse più ampia, ma tormentata, più incerta ed incolore. Ed è in fondo ciò che avviene alle cucine “internazionali”, blando riflesso dei sapori delle cucine locali, saporose, senza incertezze, sicure… 

Lo sradicamento è una partenza senza più ritorno. Claudio Antonelli

Il Medioevo e l’Eterno Femminino (I) – Stefano Manza

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Se l’antichità classica è il Paradiso, e la modernità è l’Inferno, allora il Medioevo è un Purgatorio rovesciato. Indubbiamente, una visione fatalistica ed eroica della storia non può che condurre a questa conclusione: eppure, essendo che il male, in larga misura, è solo nella mente dell’uomo, ne viene che la vita è un Inferno solo se si sceglie di renderla tale. E dire, come molti estimatori dell’illuminismo, che il Medioevo sia stato proprio il momento di tale scelta infausta è, “se ben si guarda con la mente sana”, un errore madornale. Noi possiamo scegliere di guardare al Medioevo come all’apogeo di una cultura forestiera, intollerante, oscurantista, spiritualmente e moralmente sifilitica (il cristianesimo); o possiamo scegliere, piuttosto, di intravedere cosa sopravvisse, in quel tempo, a tale cultura. Perché ciò che scampò alla distruzione è ancora presente in noi, e anela, come allora, a esplicitarsi.

Voglio essere chiaro: se vediamo il Medioevo dalla prospettiva dei conquistatori, in esso il femminile (e anche la donna) è pressoché irrilevante. Ma se osserviamo la stessa epoca a partire da quei valori sempiterni che i conquistatori non sono riusciti a estirpare, la donna medievale ci apparirà, al contrario, come lo scrigno di essi. Nelle “streghe” medievali resiste lo spirito e la voce appassionata delle Sibille, delle Pitonesse, e delle eroine pagane; di Ipazia e di Tomiri, di Budicca e di Thusnelda, e di mille altre. Non è facile estirpare una pianta che ha radici più profonde di quanto l’occhio non dia a vedere. Specie l’occhio del fideista, che è incrostato.

Un esempio di quanto dico sono la poesia trobadorica e i poemi del ciclo arturiano. In entrambi i casi, si tratta di fenomeni di immensa portata generatisi tutti in area celtica; presso quei Celti che più e meglio di tutti gli altri popoli europei hanno mantenuto intatta e vivida la simbologia dell’Eterno Femminino. E, parallelamente, nelle ricche corti di Champagne sorse in quel tempo la dottrina amorosa di Andrea Cappellano, che tributa alla donna gli stessi onori dovuti al signore feudale.

Nella mitologia gentile, è sempre il maschio a essere mutilato dal contatto col divino femmineo. Attis viene castrato, Anchise diventa zoppo, Atteone viene smembrato, Tiresia viene accecato. Si tratta di una sofferenza che è naturale sbocco del contatto (lecito o meno) con la sacralità femminile. Parimenti, stando a Jean Markale, la pensavano i trovatori: Dio viene smembrato e ucciso per praticare il fin’amor nei confronti della Domina/umanità; così fornendo al poeta provenzale il modello sacrale, mitico e quasi cosmico del suo senso di smembramento davanti a un qualcosa della donna di cui la donna è solo l’involucro. Tutto questo converge poi anche con l’esplosione della devozione mariana in Europa.  Per gli gnostici e i loro epigoni medievali, il Cristo è figlio di Sofia, la Sapienza che ha emanato tutta la Trinità; essa è perciò la vera essenza di Maria. Maria è dunque il Paraclito, per gli gnostici. E finanche tra i ranghi della fede “ortodossa” c’è Paolo che chiama “madre di tutti noi” la Gerusalemme Celeste, mostrandosi anch’egli inconsciamente bramoso di ritrovare un principio femminino nell’arida patrilinearità del cristianesimo. E, c’è da osservare, il concilio che riconobbe Maria come “madre di Dio”, theotokos, fu istituito proprio a Efeso, ove giungevano devoti da tutto l’ecumene elleno-romano per venerare la Grande Madre mediterranea, Artemide…

Segue…   Stefano Manza

Il Medioevo e l’Eterno Femminino (II) – Stefano Manza

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Il De amore di Andrea Cappellano è un testo di straordinaria importanza per comprendere il senso di questa trattazione. Si tratta, come detto, del culmine di un lungo processo di sublimazione del rapporto re-feudatario e feudatario-servitore. L’apporto pluricentenario del feudalesimo aveva disseminato la Francia di contadi, contee e ducati, che spesso godevano di grande (o totale) indipendenza dal potere centrale dei capetingi parigini. Realtà pressochè indipendenti, come Champagne e Aquitania, per menzionarne qualcuna, furono i centri nevralgici di questa rivoluzione, che portò all’instaurarsi di una vera e propria religione d’amore, in cui la dama si erge a deità onnipossente, capace addirittura di praticare uno spregiudicato gioco da “gatto col topo” nei confronti di un amante particolarmente assoggettabile.

Nella Francia del XII secolo, tutto era vissuto con una dedizione quasi fanatica alle questioni amorose; esistevano addirittura delle corti d’amore, come a Poitiers, alla corte di Eleonora d’Aquitania, o a Troyes, sotto Eleonora duchessa di Champagne. Raynouard, nel 1817, è stato il primo filologo romanzo a dimostrare l’esistenza di tale pratica. Anche grazie alla sua indagine ci rimangono ben 21 giudizi emessi da questi curiosissimi tribunali amorosi; è peraltro possibile che le corti ospitassero gare di poeti su argomenti amorosi, come potrebbe suggerire la gran fama, in quei tempi, della tenson e del partimen (o jeu-parti), forme letterarie perfette per inscenare un contrasto amoroso tra amati litigiosi e avvocati delle parti. Alcuni soggetti dei jeux-parties riguardano questioni di una certa sottigliezza simbolica e filosofica; ce ne rimane uno che suona così: “Chi fa miglior uso del tempo, un uomo che incalza una donna dabbene con speranza di piacere, o un uomo che ama una sciocca con la quale si intrattiene in piacere?”. La questione è meno oziosa di quanto possa sembrare, visto che è altamente possibile, secondo Jean Markale, che questa domanda celi un tema cataro (la “sciocca” è la Chiesa di Roma, o il suo seguace).

Ad ogni modo, tutto ciò rimanda inevitabilmente a un passato ancestrale, in cui erano le regine ad amministrare le ordalie e le pene, quando la giustizia perteneva all’autorità femminile (non per nulla femminili sono tutte le deità greche della giustizia, da Astrea fino a Temi, da Dike alle Erinni).

[caption id="attachment_53477" align="alignright" width="220"] Eleonora d’Aquitania[/caption]

La giustizia (ma la giustizia d’amore, certamente) è anche il tema chiave di molti dei precetti amorosi elencati da Cappellano. Alcuni di questi mi hanno stupito per la disinvoltura nell’assegnare alla donna un ruolo guida nel rapporto, e per l’indulgenza clamorosa che intimano al maschio anche quando la dama è palesemente nel torto. Uno di questi, l’undicesimo, suona: “quando ti doni ai piaceri d’amore, non permettere al tuo desiderio di eccedere sopra quello dell’amata”, e così suona un altro:“ nel dare o nel ricevere i piaceri d’amore, mantieni una certa modestia.” Nulla insomma deve essere soverchiante nel rapporto, ma perfettamente paritario. In realtà, come detto, lo sbilancio del rapporto pendeva sempre e comunque a favore della donna. L’ottavo precetto è invece di portata sociale: “non cercare l’amore di una donna che ti vergogneresti a sposare”; il che implica l’esortazione a cercare una donna di pari o superiore rango rispetto all’amante, cosa che rende la dama del “gioco delle parti” proprio una domina a tutti gli effetti.

Stefano Manza

Tutti pazzi per la Madre! – Pietro Carra

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Giuliano imperatore e la sinistra parabola della Sinistra

 

La sinistra è completamente impazzita: tutto qui. È necessario supportare una simile affermazione? Forse. Ma mentre si cerca di richiamare alla mente esempi, elementi, eventi, si viene travolti e si tace. La sinistra è impazzita completamente, e basta: d’altronde chi legge qui lo sa da sé. Come è avvenuto, e che significa questo fatto? quale la sua portata?

Il mondo cristiano giaceva sotto le diaboliche superstizioni pagane della Chiesa di Roma, e il libero giudizio, tramite la lettura individuale del testo sacro, l’ha affrancato; la società civile gemeva sotto i capricci tirannici di un monarca avido e vizioso, e lo spirito illuminista mostrandogli l’esempio delle antiche repubbliche l’ha redento; il proletariato portava le catene ribaditegli da un borghese capitalista, e la critica sociale armata di dottrine economicistiche gli ha insegnato i suoi diritti; la gioventù era psichicamente storpiata nella più verde età da un padre padrone, e il sottile scienziato dissezionatore della psiche, rimestando nelle profondità dell’inconscio, l’ha purgato dai miasmi della repressione e dell’alienazione. È un cammino discendente, dal cielo alla terra, inarrestabile, che ha portato a diroccare via via le oppressive strutture portanti del mondo umano, dal sommo sacerdote, al re, al padrone, al padre; e ora vediamo con il cancel culture avvenire questo persino con le effigi. Parrebbe rimanere, ultimo degli oppressori, il Maschio tout court come ostacolo finale alla nuova età dell’oro. Dalla Riforma all’LGBTismo, un’unica gittata, seppur a tappe di “rivoluzioni”.

Pensiamo perciò come cambia la natura delle cause che regolano, nelle dottrine umane, la vita del mondo. Partiti da volontà divine, influssi celesti, passando per tendenze politico-conomiche, arrivando a istinto di sopravvivenza e libido, con Freud, congiunto a materialismo puro: qui siamo in fondo.

Non chiameremo noi Logos questo Libero Giudizio che è a un passo dall’aver completato il suo cammino verso una vera ed effettiva equiparazione orizzontale degli umani, e addirittura come molti auspicano, degli esseri viventi nella loro totalità? Il problema è che giunti a questo punto ci si guarda intorno, e ci si trova davanti a una vera e propria follia generalizzata, altro che età dell’oro: follia totale appaltata precisamente alla forza propulsiva che chiamiamo “sinistra”. Il Logos per un singolare inganno prospettico pensava di salire un monte e invece scendeva in un antro. Perché?

Non so se convince il lettore questa descrizione sommaria del cammino della civiltà occidentale considerata dai suoi inizi alla fase attuale terminale, arco temporale che copre circa mille anni: io non ho fatto che applicare precisamente, trasponendola sub specie temporis, la vicenda di Attis e Cibele che l’Imperatore Giuliano narra sub specie aeternitatis in quello che è un vero e proprio capolavoro di metafisica della Rivoluzione, l’Inno alla Madre degli Dei. Attis, per Giuliano, è il Logos, “l’essenza dell’Intelletto generatore e demiurgico, la quale genera tutte le cose fino al limite estremo della materia”. Egli, “manifestatosi nella sua bellezza, venne amato dalla Madre degli dèi. Questa, dopo avergli concesso tutto, gli pose pure sul capo il pileo stellato”, copricapo che gli ricorda la sua origine celeste. “Ma lui, avanzando, andò fino al limite estremo: e il mito disse che poi discese nella caverna e si unì alla ninfa, alludendo all’umidità della materia…”. Ma viene perciò scoperto e punito, la strapotente Madre-amante fa sì che egli si auto-eviri. “E la mutilazione cos’è? Un freno alla spinta senza limite. Infatti la generazione fu trattenuta, dalla Provvidenza demiurgica, entro forme definite; e ciò non avvenne senza la cosiddetta demenza di Attis, che, avendo superato la giusta misura e avendola trasgredita, a causa di ciò s’indebolì e non ebbe più potere su di sé”.

Quanto tempo intercorre tra il carme 63 di Catullo, in cui il poeta stigmatizza il culto delirante di Cibele, e la definitiva consacrazione di tale culto a religione di stato, ad opera di Claudio? Non molto. I romani del tempo di Cincinnato o Furio Camillo certo non avrebbero saputo che farsene di roba simile, come Cromwell di un gay pride. Una civiltà deve essere ‘cotta a puntino’ per sentirne il richiamo di sirena. Già in Lucrezio, se ci pensate troviamo ‘libido’ e ‘materia’ sotto forma di ‘Venere’ e ‘atomi’; la sinistra dell’epoca, in veste epicurea, cominciava a sentire il lontano rimbombare dei timpani e lo squillare dei flauti della Madre; e infatti non desta alcuno stupore che il poeta ufficiale dell’ateismo, dedichi poi i più commossi e trepidanti esametri a Venere e a Mater Matuta.

 

Ma Giuliano è fondamentale perché vive in un epoca in cui Attis è già stato perdonato, dopo aver riconsegnato la ‘sacra messe’ dei suoi attributi alla Terra; il Logos generatore ormai ha deposto le armi, ritorna umile volgendo lo sguardo nostalgico ai giri celesti. L’Occidente attuale, trovandosi ora alla nascita del suo (agghiacciante) iper-Impero, non è ancora in questa fase; è nel pieno del furor prometeico, anche se appunto sono ormai palesi (non a tutti) i segni della vicenda di Attis. I contrassegni del culto di Cibele, fioriti d’un colpo dalla ‘liberazione’ degli anni ’60, sono ancora gli stessi: “musica selvaggia, danze sfrenate, tatuaggi, assunzione di piante allucinogene” (Mircea Eliade, parlando però dei misteri ellenistici), processioni di omosessuali, culto della Natura. Ma sopra ogni cosa la demenza, demenza che oggi imperversa tetra, oscura, proterva, nelle forze di quell’antica Sinistra che un tempo agitava bandiere di libertà e oggi appare inquietante grigio esercito di automi al servizio di forze ordinatrici sconosciute, forze che preparano il loro mondo dell’immanenza orizzontale. Il grande paradosso è che forse queste altro non sono che necessarie forze di distruzione fatalmente volte a realizzare ancora il destino di Attis, tutt’affatto diverso da quello che era nei loro voti. Infatti, “…subito dopo la mutilazione, dunque, la tromba suona l’appello per Attis e per tutti noi che un tempo volammo giù dal cielo e cademmo sulla terra. Dopo questo segnale, quando il re Attis mediante la mutilazione arresta la spinta illimitata, gli dèi ci comandano di troncare la spinta illimitata che è in noi stessi e di imitare coloro i quali ci guidano, risalendo a ciò che è definito e uniforme, e se possibile, all’Uno stesso.”

   

I testi ritrovati – Fabio Calabrese

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Non è mia intenzione imitare John R. R. Tolkien. Il fatto di presentarvi su “Ereticamente” un articolo sui testi ritrovati dopo quello sui testi perduti, potrebbe sembrare un voler ricalcare le due antologie tolkieniane Racconti perduti e Racconti ritrovati.

Vi assicuro che non è così. Nel mio caso si tratta effettivamente di testi che ho perduto e testi che ho ritrovato.

Nel caso di Tolkien, entrambe le antologie sono state invece assemblate ad opera del figlio Christopher con versioni scartate di quella storia della Terra di Mezzo che aveva già trovato la sua versione definitiva nel volume Il Silmarillion. All’atto pratico, Christopher Tolkien è andato a frugare nel cestino della carta straccia del padre e presentato, con poche varianti, le storie già note ai lettori, un tipo di operazione che, a meno di un interesse maniacale, può essere giustificato soltanto da una speculazione editoriale a tutti i costi sul nome di Tolkien e sulla fama del Signore degli anelli.

Che poi Tolkien vada considerato un “maestro della Tradizione”, come molti sembrano pensare, è una cosa almeno dubbia alla luce delle molte contraddizioni che si riscontrano nella sua figura di uomo e di autore, e che ho messo in rilievo in un articolo di qualche anno fa, sempre sulle pagine di “Ereticamente”, intitolato appunto Tolkien, un maestro della Tradizione?

In generale, come avete visto nella serie di articoli Narrativa fantastica, una rilettura politica, io sostengo la tesi che l’attuale, sfacciata preminenza quasi assoluta di cui gode oggi la narrativa anglosassone nel campo del fantastico e della fantascienza a livello mondiale, non è affatto dovuta a una maggiore propensione degli autori anglosassoni in questi campi, ma unicamente all’egemonia politica a livello planetario di una potenza di lingua inglese, gli Stati Uniti d’America.

Per mostrarvi che ALTRI fantastici avevano potenzialità non dissimili, ho esaminato il fantastico germanico, poi quello italiano e quello francofono, e mi appresto a fare altrettanto con quello iberico e latino-americano (ma al riguardo vi ho già fatto l’esempio del grandissimo Jorge Luis Borges), nonché, più avanti, quello slavo-russo. Soprattutto la Russia che oggi con il pretesto della guerra in Ucraina, si vorrebbe cancellare dalla cultura europea.

Materialmente, a parte i testi di cui vi ho parlato, andati perduti nella formattazione che ho subito nel dicembre 2018, per caso mi è capitato di salvare alcune cose su una penna USB che mi è capitato di ritrovare ultimamente. Si tratta, ve lo dico subito, di ben poca cosa al confronto del materiale andato perduto.

Comincio da qualcosa che non è mio, un brano che avevo conservato come appunto per commentare. Voi ricorderete certamente che ho citato più volte un estratto di un’intervista che il filosofo Massimo Cacciari ha rilasciato al giornalista Maurizio Blondet, e che questi ha riportato nel suo libro Gli Adelphi della dissoluzione. Qui il filosofo evidenziava un concetto importante: l’etica antica, l’ethos precristiano era altra cosa dalla morale come la concepiscono i moderni, non implicava scelte individuali, si nasceva appartenenti a un ethos come si nasceva membri di una polis che era città, stato, Chiesa con le sue divinità.

Ethos che coincideva in definitiva con l’ethnos e implicava precisi comportamenti.

“Il cristianesimo”, diceva Cacciari, “È stato dirompente rispetto a ogni ethos, getta l’uomo nella libertà come un naufrago in un mare in tempesta”. (Qui a questo punto mi permettevo di notare che in realtà di libertà non ne ha portata nessuna, perché essa è stata immediatamente confiscata da coloro che pretendono di essere depositari e interpreti della parola di Dio), e tutta la storia di due millenni di cristianesimo è la storia di una vana ricorsa nel tentativo di colmare la frattura che esso stesso ha provocato.

Si sarebbe tentati di considerare Cacciari un maestro della Tradizione, ma ancor meno di Tolkien, non lo è, anzi da un certo punto di vista non stupisce che abbia scelto di schierarsi politicamente a sinistra. Per comprenderlo, basta leggere l’intervista nella sua integralità. Essa esordisce con una frase sibillina: “Il papa deve smettere di fare il kathekon” (all’epoca di questa intervista, il papa era Giovanni Paolo II).

Cosa significa? Il termine in greco significa “colui (o ciò) che trattiene”, nella concezione cristiana, ciò che impedisce al male di scatenarsi nell’apocalisse finale, che tuttavia, secondo la narrazione evangelica, è una premessa necessaria per il secondo avvento di Cristo. Secondo Cacciari, prima essa avviene, e con essa il rinnovamento dei tempi, meglio è. Siamo, lo si capisce, in una prospettiva nettamente millenaristica.

A uno sguardo superficiale, ciò potrebbe persino sembrare simile ad alcuni concetti tradizionali: l’estremo consumarsi del Kali Yuga e l’inizio di un nuovo ciclo, ma si tratta di una somiglianza ingannevole, infatti, ciò che ci attenderebbe con la parusia, il secondo avvento, non sarebbe il ritorno del Satya, ma la fine del mondo e de tempi. C’è di mezzo la dicotomia mai superata e non superabile fra tempo ciclico della Tradizione, e tempo lineare ebraico-cristiano.

Se per “fare il kathekon” intendiamo la difesa di quel poco di forme tradizionali che, in un modo o nell’altro, è rimasto nel mondo moderno, è chiaro che oggi la Chiesa di Bergoglio, un papa che Cacciari dovrebbe trovare di suo gusto, ha smesso appunto di farlo, e si è pienamente adeguata a tutte le nefandezze della modernità e ai disegni del NWO.

Ma su di un punto il filosofo sbaglia certamente, quando immagina gli odierni cristiani, per la stragrande maggioranza dei quali il cristianesimo stesso è tuttalpiù un vago buonismo, serrarsi nella difesa a oltranza della loro cosiddetta fede.

L’altro frammento recuperato, è una riflessione su alcuni termini mutuati dall’inglese (anche se tradotti, e testimoniano ancora una differenza di lingua ma non di mentalità) che purtroppo sono entrati stabilmente nel linguaggio specie dei nostri giovani: “vincente”, “perdente”, “sfigato”.

State attenti, “vincente” non significa vincitore, che, per abilità o fortuna, ha vinto una competizione o superato qualche prova nella vita, così come “perdente” non è sinonimo di sconfitto. L’uno e l’altro significano predestinato alla vittoria o alla sconfitta.

C’è di mezzo appunto la dottrina calvinista della predestinazione. Secondo l’idea di Calvino, ciascuno sarebbe predestinato da sempre alla beatitudine o alla dannazione eterna, e non può farci niente, tranne cercare in sé i segni del favore o del disfavore divino tramite il successo nella vita.

Con questo escamotage, Calvino è riuscito a capovolgere gli assunti di qualsiasi morale tradizionale: la menzogna, il furto, la sopraffazione, saranno giustificati e benedetti se servono a garantire “il successo”, una mentalità che ha aperto la porta agli aspetti più pirateschi del capitalismo moderno, una morale da squali.

Il panorama religioso degli Stati Uniti è apparentemente molto frammentato in una miriade quasi infinita di Chiese, sette e religioni, ma ciò non deve ingannare, la mentalità di fondo è calvinista.

Quello che vale a livello di singoli vale anche, e a maggior ragione, a livello di collettività. Gli Stati Uniti si percepiscono come una nazione (prescindiamo dal fatto che non sono neppure una nazione, ma un’accozzaglia ibrida) “vincente”, in diritto e in dovere di imporre la sua legge al mondo intero, è la persuasione che essi esprimono nel concetto di “destino manifesto”. Costoro sono sempre convinti di essere dalla parte giusta, “i buoni” in quanto vincitori.

Lo sterminio di milioni di americani nativi, quattro milioni di morti civili in Europa in seguito ai bombardamenti terroristici della seconda guerra mondiale, due olocausti nucleari sul Giappone già arreso, il Vietnam inondato di napalm per essere poi sconfitti dal pigmeo indocinese, trascurabili inezie. Questo concetto di “destino manifesto” è molto simile a quello ebraico di “popolo eletto”, e non è un caso.

Tutto ciò stride totalmente con la tradizione europea, che non solo ammette il valore sfortunato, ma riconosce che a volte può brillare di una luce più fulgida della vittoria. I trecento spartani di Leonida alle Termopili, Kossovo Polje dove la migliore gioventù serba si fece massacrare per sbarrare la strada agli Ottomani, Pozzuolo del Friuli nella prima guerra mondiale, dove dopo il disastro di Caporetto, il Genova cavalleria si immolò fino all’ultimo uomo per permettere all’esercito italiano di ripararsi oltre la linea del Piave, la Folgore a El Alamein, la Tridentina a Nikolaewka, la Charlemagne schierata a difesa di Berlino.

“Mancò la fortuna, non il valore”, questo concetto sarebbe per gli yankee del tutto incomprensibile.

È normale che i reduci di un esercito sconfitto non siano accolti dalla popolazione con lo stesso entusiasmo dei vincitori, ma, ad esempio, i reduci del Vietnam sono stati trattati dalla popolazione americana con autentica, feroce ostilità, colpevoli, facendosi battere dal piccolo Vietnam, di aver distrutto in mito dell’invincibilità americana, ma qualcosa di ancor più clamoroso è avvenuto con l’attentato alle Twin Towers dell’11 settembre 2001. In quella circostanza, in seguito alle esplosioni, scoppiarono diversi incendi nella struttura delle due torri. Diverse persone che si trovavano ai piani alti, si gettarono nel vuoto, preferendo una morte rapida a un’atroce agonia tra le fiamme.

In quell’occasione fu scattata una foto, divenuta poi emblematica della tragedia, di un uomo che precipitava: the falling man.

La foto non è molto chiara, e the falling man non si è potuto mai identificare con certezza, d’altra parte sappiamo che in quel tragico giorno non è stato certo il solo a comportarsi in tal modo.

Ciò non toglie che varie famiglie di vittime delle Twin Towers sospettate di essere the falling man sono state sottoposte dai vicini a feroci atti di ostilità e mobbing, costringendole a cambiare città e a nascondersi dietro identità fasulle.

Capite cosa significa? Un superuomo yankee può ben accettare di morire carbonizzato tra le fiamme, ma non può abbreviare l’agonia suicidandosi. Questa gente con il complesso di Superman è incapace di accettare la normale fragilità umana, o il fatto che il destino (non sempre manifesto) può riservare brutte sorprese anche ai migliori, e che allora si è davvero messi alla prova, non è capace di accettare il fatto che valore e fortuna possono non essere necessariamente congiunti.

Prima o poi, è inevitabile, la fortuna volterà le spalle anche all’impero americano, e allora costoro saranno costretti a dimostrare quale sia il loro vero valore, ma vi posso anticipare già adesso con relativa sicurezza che il giorno che costoro non si trovassero protetti dal guscio di una superiorità tecnologica schiacciante, noi non assisteremmo a nessuna ripetizione delle Termopili, non vi sarebbe alcuna Kossovo Polje, né Pozzuolo del Friuli, né alcuna El Alamein o Nikolaewka.

 

La critica e la letteratura araba – Marco Calzoli

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Il testo assume il suo significato nel momento in cui viene recepito dal destinatario, come se ci fosse una sorta di patto di cooperazione tra testo e destinatario. Il lettore, in questo senso, non è qualcuno che recepisce passivamente il testo ma coopera attivamente alla costruzione del senso.

L’autore di un testo, nel momento in cui scrive un testo, lo scrive in funzione del destinatario, e quindi Eco ipotizza che ci sia un “lettore modello” del testo di un dato autore.

“Lettore modello” vuol dire che questi abbia determinate conoscenze, presupposizioni, che possa esprimere determinati sentimenti rispetto al testo che l’autore sta scrivendo. È un lettore ideale del testo di partenza. Si basa su quelle che sono le conoscenze non solo implicite ma anche esplicite del lettore del testo di un dato autore.

Il problema della traduzione per il traduttore è ipotizzare un lettore modello che non è detto che debba per forza coincidere con il lettore modello del testo di partenza. L’autore plasma il messaggio non solo in termini di contenuto ma anche sulla base di ipotesi su conoscenze, convinzioni e aspettative dei destinatari.

L’autore attiva la conoscenza pregressa del lettore (frames o scripts). I frames sono delle conoscenze condivise o relative a determinate situazioni che nel momento in cui si narra qualcosa, l’autore immagina che vengano attivate nel lettore. Es: se un romanziere sta scrivendo un giallo, presuppone che il suo lettore abbia conoscenza di cosa siano gli indizi, che sappia cosa si svolge su una scena del crimine, e così via.

Che cosa succede in traduzione? Anche il traduttore deve ipotizzare il suo lettore modello. Questo lettore modello deve essere concordato con chi commissiona la traduzione; è questi che deve, dunque, comunicare al traduttore chi è il destinatario finale della produzione. Generalmente questo tipo di informazioni vengono date dal committente all’inizio del lavoro (o comunque il lettore se le procura). A questo scopo è importante il translation brief. Esso è un documento che il traduttore può redigere o comunque corrisponde a tutta una serie di informazioni che il traduttore deve ottenere dal committente prima di cominciare il lavoro.  Il translation brief è un documento che contiene informazioni su chi commissiona il testo, qual è la funzione, chi è il destinatario, time of reception (tempo in cui è prevista la ricezione di questo testo da parte dei destinatari), posto e scopo. Il translation brief deve essere definito sia per il testo di partenza che per il testo di arrivo. Altre informazioni riguardano: il destinatario, lo strumento, il contenuto del testo, le principali presupposizioni nel testo, se ci sono convenzioni, illustrazioni, lessico e il grado di letteralità del testo. Lo stesso deve essere definito con il committente per quanto riguarda il testo di arrivo.

Nel translation brief è dunque fondamentale definire il destinatario del testo. È nel translation brief che il traduttore negozia il lettore modello della traduzione. Le possibilità per il traduttore sono varie. Nel momento in cui si ha un elemento culturale, si può decidere di:

 
  • aggiungere una nota esplicativa
  • ricorrere a un procedimento chiamato globalizzazione, ovvero sostituzione di un elemento problematico con uno noto al lettore (ad esempio, cibo italiano non conosciuto nella lingua di arrivo, si può utilizzare un iperonimo)
  • omissione
  • localizzazione, ovvero sostituire un riferimento culturale del testo di partenza con uno equivalente nella lingua di arrivo (ad esempio, sport nazionale italiano è il calcio, tradurre il concetto di sport nazionale negli Stati Uniti significherebbe riferirsi al football americano).
 

Un testo può essere studiato in vari modi proprio grazie al fatto che il lettore determina ogni volta il significato dello stesso. quindi nel corso della storia le grandi opere della letteratura sono state lette secondo gli “occhiali” dell’epoca, cioè secondo quanto si aspettavano i lettori di quel torno storico.

La critica romantica cercava all'interno del testo ‘’lo spirito di un'epoca’’, ma in esso non c’è solo quello che è l’effettivo contemporaneo di quell’epoca ma anche ciò che è ancora subalterno, cioè che non si è manifestato completamente. Si tratta del tentativo di comprendere con la critica di un’opera (non solo letteraria) lo spirito di una nazione o dei suoi componenti.

Questa Idea di arte come espressione della sensibilità di determinato luogo o momento e di un determinato popolo portava i critici della prima METODOLOGIA STORICO ROMANTICA a mostrare attenzione per il contesto storico-culturale entro cui l’opera d’arte sorge. ‘’L’arte è fatto sociale, un risultato della coltura e della vita nazionale’’ (De Sanctis).

Questo critico aveva già chiaro il principio che l’arte non nasce solo nella mente degli artisti ma è espressione di tutta una vita sociale, che comprende altresì chi non tratta esplicitamente di arte.

La critica romantica guardava maggiormente ai contenuti e non alla forma in quanto tale critica era interessata a possibili valenze morali del contenuto artistico e a cosa ci diceva su storia e vita di un determinato popolo.

Per De Sanctis è possibile trarre tutto ciò già da uno scritto di un singolo scrittore o intellettuale: attraverso l’analisi di una singola opera si può dipingere un momento storico e i sentimenti degli uomini al tempo, in quel momento storico. Nel saggio intitolato L’uomo del Guicciardini (1869), De Sanctis connetteva ogni singolo intellettuale (e uno degli scritti di ciascuno) a un intero periodo storico. Con Guicciardini emerge sia la grandezza italiana (grandi idee e scritture raffinate) ma anche la debolezza: il suo essere sotto il dominio straniero. Guicciardini esprime perfettamente il suo tempo, nel quale domina l’individualismo ma non solo in lui bensì nello spirito di tutta l’Italia del periodo. Questo individualismo non è presentato in maniera negativa bensì diventa sapienza, è regola di vita badare al proprio particolare, ‘’salvarci la pelle’’, stare con il più forte.

La critica storico romantica domina quasi fino al 1880, ma nel frattempo c’erano anche di altri tipi. Per esempio, la critica positivista tendeva a vedere nella letteratura un riflesso delle leggi scientifiche. Essa è una scuola ancora viva per via della attuale ricerca delle fonti in ciò che chiamiamo ‘’filologia’’. Tuttavia la critica positivista non esiste più relativamente alla parte dell’esagerazione che portava a leggere l'opera come riflesso della condizione fisiologica dell’autore: infatti, estremizzando, si pensava che l’opera d’arte d’arte fosse collegata a determinati elementi fisiologici del letterato. Vi era l’idea che si potesse arrivare a comprendere un testo come si arriva a comprendere un testo scientifico. Il testo veniva interpretato secondo la fisiologia dello scrittore, secondo considerazioni scientifiche ad esempio la salute mentale o sfociando in estremi (ad esempio, il tema della sofferenza di Leopardi sarebbe derivato dalla sua gobba).

Contro questa critica si ebbe il contributo di Croce (1908): il ruolo della critica è intervenire quando l’opera presenta delle impalcature di origine allegorica, filosofica, morale e non è pura intuizione lirica. Per Croce quindi la vera arte non necessita della critica. La vera arte, infatti, è ‘’intuizione lirica del sentimento‘’.

Se vogliamo connetterci all’idea che animava la critica romantica, spesso le letterature orientali sembrano esprimere lo spirito di un particolare popolo.

Se per esempio consideriamo la letteratura araba, ancora ai giorni nostri vengono trattati temi su cui discutevano i sapienti nel Medioevo arabo o ancor prima Maometto nel Corano (VII d.C.).

La letteratura araba-musulmana è giunta fino a noi attraverso documenti scritti, gran parte dei quali sono ancora allo stato di manoscritti. Si è sviluppata, infatti una grande relazione fra trasmissione orale e scritta, infatti spesso testi tramandati mediante la scrittura dovevano essere integrati da dei commenti che rimanevano in forma orale. Questo spiega le molte varianti delle versioni manoscritte dello stesso testo.

Nella letteratura araba gli studiosi usano distinguere due grandi ambiti: la Khassa era l'elite che produceva letteratura dotta e la ‘amma era il popolo che produceva una letteratura popolare ma non lontana da quella dotta.

Non bisogna confondere la nascita dell'Islam con la nascita del popolo arabo. Il popolo arabo parte dall'attuale penisola arabica, gli arabi svolgono un'attività di carovanieri e l'elemento beduino è fondamentale anche se sono comunque importanti anche quelle città, dove si sviluppano dei fenomeni letterari, tramandati oralmente. La produzione letteraria dell'epoca preislamica è prettamente orale. Anche il Corano è un insieme di detti e di esperienze che vengono tramandate oralmente e solo dopo fissate per iscritto.

Il periodo della jahiliyya, ovvero “epoca dell'ignoranza”, va dal 500 fino al 622. Viene definita epoca dell'ignoranza per l'assenza dell'Islam, del Profeta Maometto, che giungeranno per porre ordine. È considerata, tuttavia, LA CULLA DELLA LINGUA ARABA PIÙ PURA, una riserva di poesia, di grammatica, di lessicologia.

L'epoca preislamica è soprattutto poesia e la poesia classica, antica, è detta qasiyda (s enfatica), termine polisemico che varia a seconda del contesto. Il significato principale è quello di “mirare a”, “aspirare a qualcosa”. È un termine arabo che si usa ancora nell'arabo letterario e anche in quello parlato.

L'idea è che la poesia è una struttura che si pone di dire qualcosa, si pone un obiettivo. Plurale qas'id. È un termine, un lemma della letteratura araba estremamente importante, ancora oggi si parla in generale di qasiyda per definire le poesie, ode o poema (non come genere letterario).

Il termine poesia deriva da un'altra radice, sha'ra, “sentire” nel senso soprattutto di sentimento ma anche di percezione, c'è l'idea che chi fa poesia è in grado di prevedere il futuro, come un profeta. Il poeta è colui che sente là dove gli altri non sentono, non è una persona come gli altri.

Ma la qasiyda è anche un genere letterario. Le caratteristiche formali, la struttura della qasiyda quale genere letterario, è molto rigida, ha dei canoni intoccabili che non sono mai state messi in discussione fino ai poeti moderni di inizio ‘900 e in alcuni ambienti ancora si scrivono qasiyda in senso classico. Ora gli arabi scrivono soprattutto in prosa ma anche poesia in versi sciolti. La qasiyda, al contrario, è una poesia monorima.

Con l'avvento del Corano fino alla formazione dell'impero si inaugura una nuova epoca in cui la letteratura viene sottoposta ad una pressione del nuovo ordine sacro, quindi c'è una frattura, c'è chi accetta solo la poesia che parla di Allah, che parla di Islam.

ETÀ DELL'ORO: è il periodo che va dal 622 al 661, la prima epoca Umayyade, segnata dalle conquiste militari e dall'affermazione dell'Islam oltre i confini dell'Arabia Saudita. Si parla di califfi “Ben Guidati”, questi vengono miticizzati, quindi storia si confonde con mito. È il periodo dell'Islam nascente, un po' latente ma con alcune produzioni poetiche.

PERIODO UMAYYADE successivo: va dal 661 fino al 750, abbiamo una grande diffusione del ghazal (nato dalla qasiyda poi evoluto come genere a parte), cioè della poesia d'amore, questo perché si passa alla letteratura delle corti califfali, che si relaziona alle necessità di corte, si deve conformare alle richieste dell'autorità califfale, si parla, quindi di poesia di corte o di amore. Viene messo per iscritto il Corano, che per alcuni è il primo esempio di prosa.

EPOCA ABBASIDE: 750 – 1258, è il periodo medievale del mondo musulmano. Dopo la presa di Baghdad da parte degli abbasidi la dinastia Umayyade continua in Andalusia, quindi abbiamo a questo punto una separazione della storia letteraria d'Oriente e quella di Occidente

Il Canone antico della letteratura araba comprende età dell'oro, epoca umayyade e epoca abbaside. Il picco della produzione letteraria si ha proprio con gli abbasidi.

Possiamo dividere il periodo abbaside in 4 fasi:  
  • 750 – 847: il centro della vita letteraria è l'Iraq, in quanto Baghdad diventa capitale del mondo arabo. Forti sono i rapporti con il mondo beduino, infatti molti letterati raccoglievano dai beduini il materiale indispensabile per la loro cultura. Molti si trasferivano con loro nel deserto, per raccogliere il loro patrimonio soprattutto lessicale. I califfi vengono descritti come affamati di sapere, appassionati di letterature. La maggior parte dei poeti ha per mecenati, protettori gli stessi califfi oppure alcuni visir. La produzione poetica conosce degli sconvolgimenti in quanto vengono messe in discussione i modelli tradizionali anche morali, di comportamento. Ecco che abbiamo la Khamriyyat, la poesia bacchica anche in Oriente, là dove il consumare vino era vietato. I poeti, quindi, erano dotati di una grande libertà di lunga superiore rispetto a quella dei normali cittadini. Si iniziano, infatti, ad animare dei dibattiti fra varie tendenze di intellettuali che sostengono di dover modificare la qasiyda ai tempi moderni e l'idea di poesia in generale, mentre ci sono i neoclassici che sostengono che il modello di qasiyda non debba essere toccato. È in questo periodo che si parta di Bayt al-Hikma, la casa della saggezza, un'istituzione importante perché è lì che vengono tradotti i testi greci in arabo. Si sviluppa sempre di più, inoltre, un ceto di giuristi-teologi. La figura degli intellettuali, quindi, si lega all'amministrazione di corte. I KATIB sono coloro che si occupano della scrittura in generale, può essere poesia ma anche quella al servizio del potere. È proprio fra i segretari della cancelleria, spesso di origine persiana, che fiorisce la prosa letteraria, l' ‘adab, che diventerà l'espressione della Khassa. Vi sono, infatti, molti testi provenienti dall'India che giungono agli arabi grazie alla traduzione da parte dei persiani, quindi la lingua e la tradizione persiana diventano un elemento fondamentale in questo periodo. Il termine adab deriva da bad, che vuol dire anche educazione, quindi la prosa deve intrattenere ma ha anche un obiettivo pedagogico, didattico. I letterati stessi vengono chiamati udaba' e i più importanti sono il riferimento assoluto per la prosa araba classica. Gli udaba' devono trasmettere delle conoscenze, sono intellettuali poligrafi, si occupano di più argomenti.
 
  • 847 – 945: secondo periodo, in questo Baghdad rimane centro culturale ma trova come avversaria Samarra', così come gli abbasidi trovano come nemici i Buyidi, sciiti dell'altopiano iranico. Alcuni poeti, qui, rispondono alla ribellione precedente e si riappropriano della tradizione. Nascono comunque nuovi generi come le “nature morte” e vengono rinnovati alcuni generi come la satira o la trenodia. C'è una particolare attenzione per la retorica che cambia lo stile dei poeti (Kitab al-Badi': libro della retorica). C'è una rifondazione anche del concetto di adab. Vengono scritte delle opere storiche (storia delle conquiste arabe ma anche contemporanea) e geografiche. Molti sono inoltre i racconti di viaggio in cui vengono, ad esempio, descritte le meraviglie dell'india, e così via. Vengono, inoltre, raccolte le parole del profeta Muhammad in una raccolta chiamata HADITH. Si parla molto di scienze, c'è uno sviluppo importante di arti, filosofia e scienze. Spesso, in questo secondo periodo, discipline oggi separate vengono intrecciate e i letterati sono polivalenti.
 
  • 945 – 1055: in questo periodo la componente Buyide prende il controllo oppure affianca il califfato. È il periodo in cui emerge anche il califfato fatimide e l'ismailismo prende piede, andando a catturare l'attenzione di vari letterati. Si può parlare di un secolo sciita. In questo periodo alcuni poeti celebrano l'amicizia, altri denunciano le vicissitudini del tempo e alcuni compongono poemi didattici. La poesia, quindi, non conosce un gran cambiamento ma non certo a causa della mancanza di talenti. Nel campo della prosa emergono nuovi generi: ad Aleppo nasce un genere che non farà scuola, ovvero il kutub al-diyarat, il libro dei conventi, celebrato dai bacchici e la MAQAMA, che conferma lo sviluppo che conoscono la prosa e il saj' (prosa rimata) e la diffusione delle scienze iniziata nel periodo precedente. La prosa rimata e ritmata si propone come modello di scrittura e di stile.
 
  • 1055 – 1258: quarto e ultimo periodo, è un periodo segnato da sconvolgimenti a causa soprattutto delle crociate. Vengono fondate le madrase e viene trasformato l'insegnamento delle scienze religiose, introdotte da Nizam al-Mulk, visir selgiuchide, infatti entrano in scena i Selgiuchidi. La casta di giuristi viene controllata dal potere centrale e si diffonde un interesse per i mistici più che per i grandi letterati. La letteratura in lingua araba perde ispirazione e viene sostituita dalla letteratura persiana e turca. Verrà mantenuta la tradizione precedente grazie a delle opere che sintetizzano e hanno il ruolo di conservare ciò che è stato importante delle epoche passate e dello splendore abbaside. Questo darà origine a dei nuovi generi più tardi.  Nella prosa c'è un cambiamento in quanto viene spostato l'accento sulla componente introspettiva e autobiografica. In alcune raccolte che trattano temi anche di scienze religiose sono presenti dei racconti di vita di coloro che le hanno scritte. La poesia sembra essere in crisi, sono pochi quelli che vivono di poesia. Alcuni segretari e letterati cominciano a parlare di un superamento della Khassa e di un trionfo della letteratura popolare che andrà, effettivamente, aumentando, insieme anche all'aumento del pubblico della letteratura.
 

Dal 1258 fino al 1516 il mondo musulmano viene posto sotto il controllo di diversi poteri più o meno forti, come quello dei Mongoli o i Selgiuchidi, che sono disinteressati alla letteratura araba. Questa sopravvive grazie ai Mamelucchi in Egitto e Siria. Da notare è anche che con l'entrata dei Mongoli nel mondo musulmano del Vicino Oriente, vengono persi molti documenti, in quanto i Mongoli distruggono e saccheggiano biblioteche e madrase. Da questo momento la trasmissione scritta diverrà l'unico modo di tramandare la cultura dotta. Le enciclopedie e le opere monumentali diventano fondamentali. La poesia si popolarizza fino a che i poeti cominceranno a fare piccoli mestieri per il sostentamento, cade il sistema di mecenatismo. Il linguaggio poetico, essendo popolarizzato, si semplifica, come il rigore sintattico. La poesia dotta sopravvive ma perde l'ispirazione, andando ad esagerare nella retorica e nelle allegorie.

Diamo uno sguardo anche in Occidente. 756 – 1031: Abd Al-Rahman fonda la dinastia Umayyade di Cordova. Successivamente la dinastia degli Almoravidi controllerà la zona nel 1092, poi sarà la volta degli Almohadi fino al 1492 con la caduta dell'ultimo regno, quello di Granada con la Reconquista cristiana. Per quanto riguarda la letteratura di questa zona abbiamo una prima parte che riguarda esclusivamente l'Andalusia, poi, dal 1092 riguarda anche il nord Africa.  Qui le scienze teologiche vengono unite alle scienze generali.  È grazie al regno arabo che la cultura andalusa ancora oggi conserva stretti legami con l'Oriente. Il viaggio in Oriente diviene una pratica fondamentale per la formazione personale. La poesia andalusa acquisisce un'identità specifica solo nel XI secolo, prima era legata ai canoni orientali, e solo nel XIII secolo viene istituita la prima madrasa. Il MUWASHSHAH è il genere andaluso per eccellenza, un misto di poesia araba e romanza. Gli andalusi tendono a distinguersi dagli altri musulmani d'Oriente e anche dai maghribini.

Per quanto riguarda la poesia si rinnovano i temi: viene esaltata la natura, il paesaggio andaluso attraverso dei dettagli immaginari che fanno nascere delle topiche nuove. Il lusso e lo splendore delle corti andaluse e gli splendidi giardini non hanno nulla da invidiare, effettivamente, agli abbasidi. Con gli Almoravidi, però, si impone la paura del futuro minaccioso, incerto e tutto cambia, prende una nota negativa, soprattutto per la progressiva perdita di territori all'indomani della Reconquista. Anche qui personaggi politici corrispondono a poeti importanti. Altresì in Andalusia la prosa ha successo, soprattutto per quanto riguarda l'enciclopedia, oggi memoria di quello che è stata la cultura andalusa. Pure qui abbiamo alcuni autori che inseriscono delle introspezioni, esperienze personali all'interno di prosa che parla di vasti argomenti: emerge la soggettività.

La letteratura araba nasce prima dell’Islam e del suo Corano e si chiama JAHILIYYA, che ha come genere fondamentale la QASIYDA. Questa produzione preislamica riguarda le regioni della penisola arabica. È una regione molto frequentata per ragioni commerciali, anche l'area siro-irachena, che era abitata da due grandi dinastie: Ghassanidi (SIRIA) e Lakhmidi (IRAQ). Sono entrambi arabi cristiani.

I primi poeti dell'epoca preislamica vengono influenzati dall'ambiente in cui vivono, tipicamente nomade, desertico, l'elemento beduino è importante. Anche le due corti dei Ghassanidi e Lakhmidi hanno dei cantori che producono per il loro leader.

La poesia è il genere preminente, successivamente prenderà piede anche la prosa. Era estremamente importante per la tribù, infatti i clan avevano vari poeti, di cui uno era accreditato. Oralità/canto: l'idea di memoria è ancora oggi fondamentale nella civiltà araba. L’ambiente di questa produzione era il deserto o i centri urbani dentro le corti. I valori/temi erano quelli del clan, c'è la testimonianza della vita dei nomadi, espressione della società tribale dell’epoca. Per esempio vengono documentati scontri fra clan, tribù. Viene cantata anche la caccia, il godimento (es. vino), poesia erotica, l'eros è un elemento fondamentale.

Il poeta è colui che sente, ha delle doti straordinarie. La figura del poeta preislamico, infatti, si confonde con quella dell'indovino. Si credeva, ad esempio, che egli doveva la sua ispirazione a dei geni che vivono nell'intermondo (‘Abqar). Il poeta è un personaggio ispirato, che ha rapporti con il mondo soprannaturale. Con l'avvento dell'Islam i poeti verranno visti di mal occhio, come coloro che vogliono deviare dalla kalimat Allah, dalla parola di dio, il poeta viene visto come un deviato, una persona maliziosa. L'Islam infatti, alla sua nascita, si pone come obiettivo anche quello di distinguere la parola dei poeti da quella di Muhammad, quindi il messaggio coranico, pertanto l'islam nascente condanna poeti e poesia. Nonostante ciò, alcuni di coloro che circondavano Muhammad stesso erano dei poeti (es. Hassan Ibn Thabit è il primo poeta dell'Islam e il suo elogio funebre si trova nella Sira nabawiyya).

La poesia preislamica può essere anche esistenziale: riflessioni di tipo cosmico e sull'esistenza dell'uomo. La struttura è molto rigida, ogni componente ha ruolo e spazio ben precisi.

Le poesie vengono raccolte e messe per iscritto tra VIII e X secolo, con l'avvento degli Umayyadi. Si sente la necessità di trascrivere, si approfitta dell'introduzione della carta, ricevuta dal contatto con l'Asia più orientale. Questa accelera il processo di fissazione scritta e il patrimonio della Jahiliyya viene messo a raccolta da dei compilatori umayyadi. Si parla, però, in questo caso del ritocco ideologico che modifica o cancella riferimenti al paganesimo o pratiche considerate immorali.

Questo fa nascere delle dispute attive ancora oggi da parte dei critici moderni: Taha Hussayn scrive un saggio provocatorio sulla veridicità della poesia preislamica che è stata trascritta. Egli crede che ci siano state delle manipolazioni: ci sono state delle variazioni dei contenuti perché lo spazio temporale è troppo vasto; la parola è quella di Dio, la legge allude a quella dell'Islam, quindi potrebbero esserci state delle modifiche nei contenuti perché considerati immorali, quindi si cambiano per renderli più accettabili, per farli rientrare nella morale islamica.

Esiste, poi, un'ammirazione per i poeti antichi che proviene da una vera e propria selezione di poeti, influenzata anche, però, dalla popolarità o meno di un autore.

Mu'allaqat, dal verbo arabo “appendere”, nucleo fondante, canone preislamico così come è stato selezionato dai compilatori, sulla base di motivi estetici. Sette sono le poesie “dorate” che furono appese alla Ka'ba in occasione del pellegrinaggio alla Mecca e vengono prese come modello. Mu'awiyya fa scrivere un'antologia su scelta del compilatore Hammad al-Rawiya. Quindi Mu'allaqat costituiscono la selezione di queste poesie. Anche qui vi fu un ritocco da parte di Hammad, come avviene in molte di queste raccolte.

La recensione e la registrazione del corpus poetico preislamico verrà portata a termine da epoche successive, da qui abbiamo le Mufaddaliyat, antologia delle migliori poesie selezionate da al-Mufaddal (126 odi, 500 – 650 d.C.). Il Kitab al-Aghani è un’altra raccolta, “libro dei canti”, antologia enciclopedica di poemi e testi di canti, composta dal letterato Abū l-Faraj al-Iṣfahānī.

In queste raccolte ha un posto preminente la qasiyda. È caratterizzata da una struttura monorima, costruita su un solo metro (bahr). Ogni verso (BAYT) comprende due emistichi (MISRA E SHATR) uguali, di cui il primo è il SADR, e il secondo è l' ‘AJUZ.  C'è sempre la stessa sequenza di sillabe lunghe e brevi. La metrica è quantitativa, c'è un'alternanza fra vocali lunghe e vocali brevi. La metrica e le sue regole vengono schematizzate secondo regole precise dal filologo Khalil Ibn Ahmad (VIII), a cui si deve la nascita della ‘Ilm al-‘aruut: scienza della metrica. Il codice stabilito da al-Khalil resterà di riferimento fino al XX secolo. Anche il muwashshah, che si vuole staccare dalla rima unica e dalle regole della metrica, non uscirà completamente dal questo sistema.

Vengono create delle scienze ausiliarie (grammatica, lessicografia e retorica) a partire dal modello coranico, quindi, esso stabilisce le norme linguistiche ed estetiche della letteratura. Queste scienze si sino sviluppate insieme alle scienze religiose per comprendere meglio la parola di Dio.

L'insieme di regole che emergono dal Corano non possono essere modificate, devono reggere gli usi umani della lingua araba. Per quanto riguarda la retorica, essa è chiamata balagha e anch'essa pretende di far comprendere meglio i testi sacri; inoltre comprende anche la poesia preislamica.

Alcune parole chiave:  
  • WAZN, ritmo, metrica, fissa le basi della melodia. Ci sono diverse tipologie di metri (16 tipologie).
 
  • QAFIYA, rima, conferisce al verso e al poema unità e una coerenza psichica, temporale e musicale. La poesia viene cantata, infatti, quindi non si canta per scopo ludico ma ci sono degli obiettivi anche psicologici, infatti la rima dà un tono, un umore preciso alla poesia, scandisce una modalità espressiva specifica. Le regole che reggono la rima sono raccolte nell' ‘ilm al-qawafi.
 
  • SAJ': prosa rimata, assonanza da cui trae origine il ritmo, anche il Corano è caratterizzato spesso da questa.
 
  • RAJAZ: base della prosodia, forse derivante dall'andatura del cammello.
 

Gli shatr sono a volte rimanti tra loro con un'unica rima alla fine di ogni verso. La poesia ha come riferimento la tenda, la tradizione beduina, l'elemento spaziale della tenda è fondamentale dal punto di vista etimologico ma anche per l'immaginario creativo. Spesso il primo beyt ha una rima interna ad esso. La lunghezza della poesia può variare da 10 a più di 100 versi. Ogni verso esprime un'immagine specifica, quindi non esiste un'immagine che continua nel verso successivo, ogni verso è a sé stante. Nell'Arabia preislamica il poeta non produceva all’improvviso un poema intero ma lo elaborava un passo dietro l'altro, quindi il poema poteva essere modificato o migliorato in qualunque momento. Il poeta aveva un recitante e un trasmettitore (rawi e ruwat) i quali erano poeti a loro volta, quindi la poesia si andava a modificare in base alla memoria del recitante o il suo gusto estetico.

Dopo un lungo periodo di trasmissione orale e poi mista, il corpus di versi e poemi ha conosciuto una messa per iscritto che attraversa tre tappe: l'elaborazione dei poeti e la prima diffusione – la raccolta da parte dei grandi trasmettitori – la registrazione scritta.

Possiamo vedere la qasida come una poesia tripartita:  
  • NASSIB: preludio amoroso, è un lamento introduttivo del poeta che si prepara alla partenza e si ferma sui resti dell'accampamento della persona amata, lamentando la sua assenza e celebrando l'amore per la persona amata; non deve essere una donna, ma anche un caro morto in uno scontro, ecc.
 
  • RAHIL o Wasf: descrizione del viaggio intrapreso dal poeta, la descrizione delle difficoltà nel deserto, scene di caccia, descrizione di oasi
 
  • GHARAD: obiettivo, fine, proposito, è il tema effettivo del poema.
 

Il Corano è il testo sacro dell’Islam tramandato a Maometto dall’arcangelo Gabriele per ordine di Dio. È unico, è la Rivelazione di Dio e nega la poesia, c'è un conflitto fra parola poetica e quella del corano: viene consacrata la nuova pratica religiosa, quando si scrive bisogna elogiare il Profeta e l'Islam. Quindi si passa dalla virtus pagana a quella della religio, la poesia deve diventare testimonianza della nuova esperienza religiosa, deve sublimare la missione profetica. La poesia allora viene depurata dai contenuti pagani e fa propri i valori della nuova fede. Il poeta diverrà in seguito il cantore della nuova comunità, dovrà celebrare la gloria dell'Islam e poi anche del califfo e dell'impero.

Il Corano non è solo un testo sacro ma ha anche un valore letterario molto importante per quanto riguarda la narrativa. Ha degli aspetti legati alla musicalità, è spesso una prosa rimata (saj') ed è ricco di figure retoriche, metafore.

Struttura del Corano: 114 sure (capitoli) suddivise in:  
  • Sure lunghe: attestano la comune discendenza abramitica e la continuità con le fedi monoteistiche (ebraismo e cristianesimo) pur negando la natura divina di Cristo, considerato soltanto un profeta
 
  • Sure brevi: ingiunzioni, preghiere.
 

La prosa ritmica del Corano attraverso la lettura e il canto ha lo scopo di attrarre il lettore, così da fargli avere un'esperienza più profonda della fede.

Nel Corano ci sono aspetti di natura poetica: essi introducono una visione per la quale la poesia riveste una grande importanza nella pratica religiosa, nella recitazione di una preghiera. Si tratta non della poesia dei poeti preislamici, tacciati di essere amorali, ma della poesia religiosa. Il testo sacro del Corano stesso permette un appagamento estetico per il lettore consapevole, armonia ed eloquenza (bayan).

Gli aspetti estetici del Corano sono costituiti non solo dalla prosa ritmata, ma anche da:  
  • Tajwid – cantillazione (il Corano va declamato secondo regole precise)
 
  • Ghunna – nasalizzazione, rendere nasali (m e n) alcuni fonemi come caratteristica musicale.
 

Il testo sacro deve dimostrare la bellezza della scrittura. La musicalità può portare ad un esperienza mistica, raggiungimento di uno stato estatico. Lisan ‘arabi mubin: la lingua del Corano e della Sunna (altra fonte religiosa dell’Islam) è perfetta, può dire ogni cosa, è la base del lessico a cui fare riferimento, “lingua araba corretta”

Per ‘I'JAZ si intende la inimitabilità del Corano, unicità della sua essenza, è inimitabile e insuperabile, ogni altro testo è imperfetto. Questo ha delle ricadute su piano della traduzione del Corano e di testi arabi in generale. Essendo inimitabile non si può trasporre in un'altra lingua secondo i tradizionalisti.

    Bibliografia
  • R. Allen, La letteratura araba, Bologna 2006;
  • D. Amaldi, Storia della letteratura araba classica, Bologna 2004;
  • B. Di Sabato, E. Di Martino, Testi in viaggio. Incontri fra lingue e culture, attraversamento di generi e di senso, traduzione, Torino 2011;
  • F. Gabrieli, La letteratura araba, Firenze-Milano 1967.
   

L’urina come “acqua della vita” nella mitologia e nell’alchimia – Emanuele Franz

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Pindaro quando dice che “l’acqua è la migliore delle cose” (Olimpiche, III, 42) non intende l’acqua come migliore di altri liquidi, che anzi l’accezione più ampia di acqua comprende, bensì migliore di tutte le cose. In che senso comprende altri liquidi?
Aristotele (nel Meteor. 382b) dice: “queste le forme dell’acqua: vino, urina, siero, etc.”.

È acclarato da diversi studi, fra cui l’encomiabile Le origini del pensiero Europeo (Adelphi 1998) di Richard Broxton Onians che per il greco di epoca arcaica il liquido, l’umido in generale, era associato alla forza vitale: più se ne possedeva e più si era forti e longevi. L’identificazione di questo liquido con una sostanza naturale è oggetto di riflessione da secoli: chi lo ha inteso nel vino, nell’ambrosia, nel ciceone, in qualche olio o decotto tale da dare, con l’immersione o la deglutizione, la longevità e il contatto col divino. Di esso sfugge una demarcazione precisa ma rimane chiaro che l’umore interno del corpo è sempre associato a forze superiori. Il sudore, ad esempio, era segno di forza e perderlo significava indebolirsi. Le lacrime, come lo starnuto, erano espressioni divine e la saliva trasmetteva le virtù dell’Anima, non a caso Cassandra, nel mito, riceve il dono della profezia bevendo la saliva del Dio Apollo. I liquidi del corpo sono sempre, inequivocabilmente, mediatori di un livello sovra-individuale. Ma che dire allora dell’urina?
Urina in greco è οὖρον (Uron) e nel mito ha proprietà generative basti pensare che dall’urina di Ermes nascono Zeus e Poseidone. Il gigante Orione nacque dall’urina di Zeus, Poseidone ed Ermete tant’è che il nome stesso di Orione deriva da Urion (urina) che commutò poi la prima lettera in O (Ovidio, Fasti, lib. V, cap. IV”)

“Aristomaco dice che un certo Irieo, a Tebe, pregò di avere un figlio. Giove, Mercurio e Nettuno andarono presso di lui, come ospiti, e gli ordinarono di sacrificare una vittima perché il figlio nascesse. Tolta la pelle al bue, gli dei vi orinarono sopra e, per ordine di Mercurio, della terra vi fu rovesciata; da questo nacque il sopraddetto, che chiamarono Orione… tira le stelle. Simile origine riporta Esiodo”
Fr. 246 [148 (b) M-W] Scolio agli Aratea di Germanico (citato in Esiodo, Tutte le opere e i frammenti con la prima traduzione degli scolii; a cura di Cesare Cassanmagnago, Bompiani 2009)

Robert Graves nei Miti Greci (Longanesi 1963) fa giustamente notare che Urione è «colui che produce l’acqua» e infatti la costellazione di Orione porta le piogge sia quando si leva in cielo sia quando tramonta. Il legame fra urina, acqua e generazione è vieppiù rafforzato in più fonti.

L’urina simboleggia la nascita di un figlio anche in fonti assire (A.L. Oppenheim, The Interpretation of Dreams in the Ancient Near East, Philadelphia 1956, p. 265)

È singolare che in zoologia i maschi delle giraffe, per conoscere la fertilità della femmina nell’accoppiamento, bevono l’urina della femmina. ¹
Parallelamente a questo la giraffa nella simbologia totemica è considerata spirito guida e simbolo di saggezza.

Ma il mito greco non finisce di sorprenderci nella vicenda di Zeus e Danae, quest’ultima fu fecondata da Zeus che si era mutato in pioggia d’oro, elemento inequivocabile che indica l’urina, anche questa volta associata a poteri generativi e vitali.

“Dicono che fu Giove, il quale, trasmutatosi in pioggia d’oro caduta sul seno di Danae, per tal modo poté averla sua, da essa era nato Perseo”
Apollodoro, Biblioteca IV, (Sonzogno 1826)

Il legame urina-acqua è attestato anche a livello etimologico.
Marco Terenzio Varrone vuole evidenziare che il termine urina, anticamente, fosse associato generalmente alle acque, infatti scrive che:
“Si tenevano, in cucina, le urnae (brocche) con l’acqua. Da ciò deriva il fatto che anche oggi si chiama urnarium il luogo davanti al bagno dove si solevano mettere le urnae con l’acqua. Il termine urnae trae origine dal fatto che nell’attinger acqua urinant (s’immergono) come fa il palombaro. Urinare vuol dire immergersi”
Marco Terenzio Varrone, De lingua latina, V, 27 (Utet 1974)

In epoca romana l’urina veniva raccolta dai vespasiani e venduta per la concia delle pelli, ed aveva addirittura una tassa. Catullo ne declama le proprietà sbiancanti per i denti. L’urina è acqua benefica in numerose tradizioni.
Nella tradizione Vedica ha proprietà curative. Il testo indiano Bahagavad Gita, in alcuni passi (3-10) relativi alla vacca santa, la “grande madre” accenna all’utilizzazione, tra l’altro, della sua urina fini purificatori e terapeutici.
Allo stesso modo negli inni del RgVeda I.43.4; II.35.7 e VII.35.6, Siva è definito jalasa-bhesaja ovvero colui la quale urina è medicina.

Il concetto è ripreso poi anche nell’AtharvaVeda; II.27.6, dove Rudra (Siva) è evocato come:
“Oh Rudra, il cui farmaco è l’urina”.
In altri passi dei Veda Samhita l’urina è accostata al Soma tanto da far supporre ad alcuni studiosi che in essa potesse identificarsi la leggendaria amrita, la bevanda dell’immortalità, l’acqua della vita eterna.
Evidentemente ciò che viene prodotto da ciò che è Sacro è sacro a sua volta.

Le proprietà curative dell’urina sono attestate in Erodoto in cui si narra che Re egiziano Ferone rimase cieco per dieci anni finché, l’undicesimo, un oracolo gli predisse che:
“Avrebbe rivisto la luce se si fosse lavato gli occhi con l’urina di una donna che avesse avuto rapporti soltanto con il proprio marito e che non avesse conosciuto altri uomini.”
Erodoto, Storie, Libro Secondo, l’Egitto, 111 (Newton editori 2007)

Dopo aver provato senza efficacia diverse lavature con diverse donne (compresa sua moglie) senza avere successo finalmente trovò la donna giusta e prese infine per moglie quella “il cui lavacro d’urina gli aveva ridato la vista”
Erodoto, Storie, Libro Secondo, l’Egitto, 111 (Newton editori 2007)

In questo caso, come in altri, la virtù della donna si trasmette attraverso il suo liquido.

Diodoro Siculo nella sua Biblioteca Storica (Capitolo VII) evidenzia lo stesso episodio citato da Erodoto dicendo che l’oracolo avvertì Ferone di “lavarsi la faccia con orina di donna”, quindi cospargendosi interamente il volto di urina.

Sempre Erodoto nelle Storie (IV, 187) declama la salute del popolo dei Libi e cita il fatto che i bambini che soffrivano di spasmi “li guariscono aspergendoli con urina di capro” evidentemente persuasi della fora vitale dell’animale e che questa si trametta nell’urina.

Strabone nel III libro della Geografia riferisce dell’usanza dei popoli Iberici di raccogliere l’urina nelle cisterne e di lavarsi con essa il corpo e i denti.

Nella mitologia delle tribù australiane l’urina è legata all’acqua sacra. Riferisce Mircea Eliade nella sua Enciclopedia delle religioni (Vol 15, pag.34, Jaca Book 1993) che nei miti aborigeni:
“Alcuni personaggi mitici creavano riserve di cibo e acqua precedentemente inesistenti. Ad esempio, nella Terra di Arnhem orientale le sorelle Djanggawul avevano urinato per fornire acqua alla popolazione umana del luogo. Alcune di queste acque erano così sacre che l’accesso a esse era riservato” (Mircea Eliade, Enciclopedia delle religioni, Vol. 15, pag. 34)

“Quando si spostavano, questi esseri mitici lasciavano alcuni segni della loro presenza: un corso d’acqua scavato dal loro cammino, un affioramento roccioso formato dalle armi o da altri oggetti dimenticati, un deposito di ocra rossa scaturito dal sangue versato, una depressione lasciata dal segno delle natiche dove si erano seduti, un avvallamento nel terreno dove si erano coricati, pozze d’acqua dove avevano urinato” (Mircea Eliade, Enciclopedia delle religioni, Vol. 15, pag. 106)

La madre di tutti gli esseri umani, chiamata nella mitologia australiana gagag, urina per dissetare gli esseri viventi.
“Alcune donne gunwinggu narrarono che:
-La chiamiamo tutti gagag, «madre della madre». Noi viviamo sulla terra, lei sotto, nella terra e nelle acque. Ha urinato acqua per darci da bere, altrimenti saremmo morti di sete-”
(Mircea Eliade, Enciclopedia delle religioni, Vol. 15, pag.254)

Julius Evola nel suo celebre La Tradizione Ermetica traccia una acuta disamina dell’uso di erbe magiche nel seno delle tradizioni concernenti le «bevande sacre» o «d’immortalità», quali il Soma vedico, l’Haoma iranico, l’idromele eddico e lo stesso vino adducendo che se talora si è parlato di un valore simbolico di un’Acqua spirituale dall’altra la ritualità antica ha conosciuto l’uso di sostanze tali da predisporre uno stato psico- fisico costituente una condizione favorevole al contatto spirituale.

“Lo stesso si dica per ciò che viene designato in certi testi alchimici con urina vinis, equivalente a -Urina di ubbriaco-. «Urina» viene spiegato mediante la radice Ur, che in caldaico designa il fuoco (urere =ardere). «Urina d’ubbriaco» allude allo stato di esaltazione, di ebrezza o entusiasmo -mania – cui si lega una delle manifestazioni di un tale fuoco: mentre altri aggiungono che l’urina deve esser di «bambino» e di «impubere», alludendo alla condizione di semplicità e di purezza”.
Julius Evola, La Tradizione Ermetica, pag. 140 (Edizioni Mediterranee 2006)

Sulla urina nel campo specifico dell’alchimia tornerà Carl Gustav Jung nella sua opera Psicologia e alchimia con il concetto di acqua permanens. L’Acqua permanens fu per gli alchimisti un’acqua capace di conferire proprietà sorprendenti.
Essa faceva parte della Grande Opera per il raggiungimento della Pietra filosofale, la Lapis filosoforum.
L’alchimista inglese George Ripley scrive che dalla pietra dei filosofi sgorga l’acqua permanens, poiché la materia prima è l’acqua. Il vaso ermetico, l’Atanor, è il contenitore dell’acqua della vita, come la madre tiene in grembo nella placenta il nascituro. Athanasius Kircher, parlando della quinta essenza, la definisce come: “Aurum potabile, aqua permanens, vinum ardens, elixir vitae, solutio coeli”. Ebbene quest’acqua sovente è identificata con l’urina per le ragioni citate cui parla Evola.

Mircea Eliade in L’alchimia asiatica parla dell’associazione dell’urina con l’Elixir della lunga vita.
“Alchimisti che praticavano l’arte segreta della fabbricazione dell’oro e conoscevano l’Elixír di lunga vita. Cosi, ad esempio, un testo del siddha Carpati cita dei processi alchemici; Karnari è in grado di ottenere l’Elixir di lunga vita a partire dall’urina”
Mircea Eliade, L’alchimia asiatica (Boringhieri 2001, pag. 87)

Per l’alchimista la Pietra filosofale è al tempo stesso la più nobile e la più vile delle sostanze, sotto gli occhi di tutti e gettata via. Sarà proprio l’urina?

Gli alchimisti, fra cui Paracelso, definiscono la Pietra filosofale come “oro potabile”, stanno parlando dell’urina? Molto probabilmente sì.

Abbiamo visto in diverse tradizioni, culture e popoli come l’urina abbia assunto valenze simboliche e religiose tali da essere associata alla vita, alla generazione e alla prosperità. La modernità ha relegato questo liquido nel campo dei “rifiuti” del corpo, quand’esso, invece, è un dono.

Emanuele Franz
11.02.2024

Note: ¹ https://www.scienzenotizie.it/2023/02/14/una-strana-abitudine-sessuale-delle-giraffe-ha-sorpreso-gli-esperti-3666014

L'articolo L’urina come “acqua della vita” nella mitologia e nell’alchimia – Emanuele Franz proviene da EreticaMente.

HPL poeta politico: una guida tascabile – 8^ parte – Francesco G. Manetti

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8^ parte – Inizia un nuovo decennio e appare il fantasma di Ezra Pound: 1920 – 1922

Con il terzo decennio del XX secolo le poesie di Lovecraft diventano ancora più “rarefatte” nel numero; pochi versi, dunque, e fra questi troviamo rari esemplari di quelli che noi abbiamo definito “politici”. Da notare che si sono placati del tutto, nella vena poetica lovecraftiana, i “venti di guerra”, che tanto l’avevano scossa negli anni precedenti. Secondo S. T. Joshi (il maggior biografo di HPL) nel 1920 i componimenti furono soltanto 21, ai quali se ne possono aggiungere tre o quattro di datazione incerta; nel 1921 se ne contano appena otto, e giusto sette nel 1922. Il Sognatore di Providence aveva ormai intrapreso la strada del narratore in prosa, che gli avrebbe donato – seppur anni dopo la sua morte – l’immortalità.

Dattiloscritto originale di “On Religion”

52. On Religion (Sulla religione), 1920

Componimento in 32 versi che riflette (come altri scritti e saggi del letterato) le posizioni di HPL contro le religioni costituite. Lovecraft aveva sicuramente la mente aperta verso il soprannaturale, verso il mistero, verso l’inesplicabile (altrimenti non si spiegherebbero gli innumerevoli accenni, nei suoi componimenti, all’antichità pagana – oppure i numerosi poemetti, inviati ad amici e conoscenti, in occasione delle festività cristiane, come il Natale), ma non accettava i riti imposti dai sacerdoti e dalle chiese, né le parole fossilizzate sugli antichi testi sacri del monoteismo. In molti casi si è parlato di “ateismo lovecraftiano”, in merito a queste posizioni del poeta; in altre sedi leggiamo addirittura che Lovecraft sarebbe il “fondatore del cosmicismo”, per cui il Cosmo sarebbe del tutto indifferente nei confronti dell cose umane. Forse sarebbe più corretto parlare di “agnosticismo” o di sospensione del giudizio.

(…) thou whose mind in kindly myth retires

Spurning the beck’ning flame of Reason’s fires,

Dream while thou mayest, with the heart of youth,

Nor seek the curst, revealing glare of Truth:

From boundless space thy searching eyes remove,

And of gay poppies weave thy God of Love!

(… tu che culli la mente nelle comode dolcezze del mito

Respingendo la fulgida fiamma del fuoco acceso dalla Ragione,

Continua pure a sognare finché puoi, con l’afflato della giovinezza,

Senza mai cercare quello scomodo, dannato, rivelatore scintillio della Verità:

Distogli il tuo sguardo indagatore dagli spazi infiniti

E con allegri papaveri soporiferi intreccia il feticcio del (o: saluta il) tuo Dio dell’Amore!)

53. Plaster-all (titolo intraducibile: suona come Stucco pastorale o Pastorale ingessata), 1922

Parodia in versi liberi del componimento Pastoral (Pastorale) del poeta modernista Hart Crane, che HPL aveva conosciuto e sotto certi aspetti apprezzato. In questa satira dei versi d’avanguardia spiccano due riferimenti “politici” al popolo giudaico: il preteso “ebraismo” dell’amico quasi omonimo Loveman – un “ebraismo” che HPL non riesce però proprio a scorgere, in quel suo compagno di penna che, “come tutti gli ebrei”, avrebbe dentro di sé “innato e istintivo” un animo ribelle. Interessante anche vedere citati tra gli altri (non come esempi poetici positivi, perché Lovecraft non apprezzava la letteratura sperimentale sua contemporanea), T. S. Eliot, James Joyce ed Ezra Pound. Era infatti, quel 1922, l’anno mirabile del modernismo, l’anno 1 PSU (post scriptum Ulysses), come lo definì Pound sulla “Little Review” (pubblicazione fondata da Margaret Anderson che Lovecraft qui distorce in “Spittle Review”, “Rivista dello sputo” o “Rivista della saliva”); era l’anno del romanzo Ulisse di Joyce (che apparve inizialmente a puntate proprio sulla “Little Review”, suscitando scandalo e denunce per pornografia) e dell’opera La terra desolata di Eliot. Lovecraft rimane all’esterno di questo gran ribollire letterario in America e in Europa. Inizia a costruire un suo universo narrativo, nuovo e rivoluzionario (un’operazione mitopoietica), un mondo che sarà destinato, dopo di lui, a durare per sempre, ma nella poesia preferisce non prendere “quel” treno – il treno di Joyce, Eliot e Pound – e sceglie di restare “intrappolato” nel suo sogno classico (per quanto attiene al linguaggio, tanto che, in quello stesso anno scrisse To Zara, una poesia in cui imitava alla perfezione lo stile di Edgar Allan Poe).

La spassosa quarta parte di Plaster-All ci fa capire come per HPL tutte quelle avanguardie in campo letterario (e pure musicale e pittorico) fossero poco più che il nulla e che quel gruppo di autori fosse esageratamente autoreferenziale:

The wind wails

Around the corner of Euclid and 115th St.,

The trees shiver

Like brass, or cymbals of some such metal,

It rains and then it ceases,

But I, seated on my Aztec carpets,

And playing Debussy

On the wheezy Victrola,

(What Rhythms! What Rhythms!)

Conjure for myself

An entire world,

Made of myself, by myself, for myself!

Knowing myself

To be myself.

(Il vento geme

Dietro l’angolo tra Via Euclid e la 115° strada,

Gli alberi risuonano

Come ottoni, o cembali di un metallo simile,

Piove e poi smette,

Ma io, seduto sui miei tappeti a motivi aztechi,

A suonare Debussy

Su uno sfiatato giradischi Victrola,

(Che ritmi! Che ritmi!)

Evoco per me stesso

Un mondo intero,

Fatto di me stesso, da me stesso, per me stesso!

Riconoscendo da me stesso

Di essere me stesso.)

Manoscritto originale di “Waste Paper”

54. Waste Paper (Carta sprecata o Carta straccia), 1922

Paragonabile a Plaster-all, l’altra poesia che HPL aveva scritto – forzando la sua natura di poeta classicheggiante – con la tecnica del verso libero moderno novecentesco. Il sottotitolo è oltremodo… significativo: A Poem of Profound Insignificance (Un poema di profonda insignificanza). Stavolta il bersaglio della satira è l’autore di The Waste Land (La Terra Desolata), il poema che T. S. Eliot aveva dedicato a Ezra Pound (definendolo “il miglior fabbro”) e che fu pubblicato sulla “Little Review”. Come già sappiamo Lovecraft non apprezzava la poesia modernista e d’avanguardia in generale; alla fine del 1922, in uno scritto su Lord Dunsany, HPL dichiarò:

Ora sappiamo quanto la vita sia un ammasso futile, senza scopo e sconnesso di miraggi e ipocrisie; e dal contraccolpo generato da questa presa di coscienza è scaturita la letteratura bizzarra, insapore, provocatoria e caotica di quella terribile nuova generazione di scrittori che tanto sconvolge i nostri anziani: la generazione estetica di T. S. Eliot, D. H. Lawrence, James Joyce, Ben Hecht, Aldous Huxley, James Branch Cabell e compagnia bella. Questi scrittori, sapendo che la vita non ha una sostanza reale, o delirano, o scherzano, oppure si uniscono al caos cosmico sfruttando una franca e consapevole inintelligibilità e confusione di valori. Per loro è volgare rifarsi a un modello storico letterario: oggi, secondo loro, solo le serve, i bigotti e gli stanchi uomini d’affari leggono cose che abbiano un chiaro significato e che comunichino un qualche valore.

E nel 1923, sul periodico “The Conservative”, scrisse nell’editoriale Rudis indigestaque moles che La Terra Desolata era un poema sconnesso e incoerente (…) un’accozzaglia del tutto insensata di frasi, allusioni dotte, citazioni, gergo di strada e altri materiali di risulta.

Come scrive S. T. Joshi in An H. P. Lovecraft Encyclopedia, anche il poema di HPL, come quello di Eliot, è composto di citazioni, allusioni auto-referenziali, giochi di parole.

Nell’esempio qua sotto, HPL inizia con la parodia della chiosa finale del poema di Eliot (con la parola shantih, ovvero “pace duratura”, si chiudeva ognuna delle Upanishad):

Shantih, shantih, shantih”…“Shanty House”

Was the name of a novel by I forget whom

Published serially in the “All-Story Weekly”

Before it was a weekly. Advt.

Disillusion is wonderful, I’ve been told,

And I take quinine to stop a cold

But it makes my ears… always…

Always ringing in my ears…

It is the ghost of the Jew I murdered that Christmas day

Because he played “Three O’Clock in the Morning” in the flat above me…

(“Shantih, shantih, shantih”… “Shanty House”

Era il titolo di un romanzo non ricordo scritto da chi

Pubblicato a puntanìte su “All.Story Weekly”

Prima che diventasse un settimanale. Pubb.

La disillusione è cosa meravigliosa, mi è stato detto,

E prendo il chinino per fermare il raffreddore

Ma mi fa sempre…

Fischiare le orecchie…

E’ il fantasma dell’Ebreo che uccisi quel Natale

Perché suonava “Three O’Clock in the Morning” nell’appartamento al piano di sopra…)

Da notare – come ben piega T. S. Joshi – che l’autore di Shanty House (serializzato nel 1909-1910) era William Loren Curtiss e che Three O’Clock in the Morning – composta da Dorothy Terriss e Julian Robledo – era stata una canzone di grande successo del 1921.

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Riferimenti al mondo passato nostalgicamente rimpianto, all’Europa antica, alla mitologia greco-latina, e così via, si trovano in altri componimenti del triennio: The Greatest Law, dedicato all’amico Galpin e ad altri colleghi delle pubblicazioni amatoriali; Nathicana, una poesia di genere fantastico scritta a più mani; Tryout’s Lament for the Vanished Spider, dedicato a Charles W. Smith (c’è un colto riferimento alla Sura XXIX del Corano, nella quale si racconta di un ragno che, con la sua ragnatela, coprì l’ingresso della grotta dove si era nascosto il Profeta Maometto in fuga, ingannando così gli inseguitori che passarono oltre); On Reading Lord Dunsany’s Book of Wonder, dove HPL riflette sui mondi fantastici ma classicheggianti immaginati dal suo maestro ideale; The Voice, sul mito di Pan; On a Grecian Colonnade in a Park, dove il passato riemerge evocato da un monumento di imitazione classica; On Receiving a Portraiture of Mrs. Berkeley, y’ Poetess, dolce ricordo di una foto di Winifred Virginia Jackson ricevuta per Natale (la Jackson aveva collaborato con HPL alla stesura di alcuni racconti e si vociferò che, in quel periodo, ci fosse del tenero fra i due); To a Youth, altri versi dedicati a Galpin; The Pathetic History of Sir Wilful Wildrake, una satira dove si fa riferimento alla “razza britannica” che sarebbe stata infoltita da Re Carlo II, gran frequentatore di ragazze facili e gran collezionista di amanti; Medusa A Portrait, dove la nobildonna Ida Cochran Haughton Viscontessa di Woodby (presidentessa nel 1921 della UAPA, un’associazione della stampa amatoriale alla quale HPL attivamente partecipava) viene paragonata al mostro mitologico, perché aveva pubblicamente offeso e diffamato Lovecraft (secondo Joshi questo poema è la satira più cattiva mai scritta dall’autore); Simplicity A Poem, nel quale HPL ritorna con la mente a un passato più semplice in tutto – nei rapporti umani e nelle arti.

L'articolo HPL poeta politico: una guida tascabile – 8^ parte – Francesco G. Manetti proviene da EreticaMente.