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Svegliati sì, svegliati dal coma occidentale, Italia!

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Svastica

Il troppo benessere genera l'ozio e l'ozio, come si sa, è il padre di tutti i vizi. Quando c'è troppo "buon tempo" la pancia piena porta ai capricci, alle intemperanze, a pretese assurde che non stanno né in cielo né in terra, e a quelle sfide contro l'Identità e la Tradizione che sono tipiche dell'Occidente opulento e pervertito dalle moderne intossicazioni materialistiche e consumistiche.

Nascono così, e vengono abilmente fomentati da chi ci guadagna, i finti bisogni contemporanei, tra cui quello di dover sposare due persone omosessuali che per giunta hanno pure l'inconcepibile fregola di adottare figli, magari sfornati da qualche donna in cerca di soldi e notorietà. Siamo alla macelleria e al mercato della vita umana: piegare ciò che è naturale e tradizionale, normale nel senso più salutare del termine, ai capricci di personaggi che non sono altro che strumenti del mondialismo, dell'agenda occidentalista tutta anarchia, sovversione, distruzione di consolidati valori retaggio della Civiltà europea.

Badate bene: il mio non è un attacco all'omosessuale (anche se, francamente, ritengo che l'omosessualità sia una sorta di sofferenza, di disagio nato in famiglie sconquassate, e prive di solide figure genitoriali), ed è comunque il caso di distinguere tra l'omosessualità e la persona omosessuale visto che, tra l'altro, la prima è sovente solleticata dalla temperie culturale relativista, bensì un attacco a chi vuole usare e strumentalizzare gli omosessuali per i propri fini propagandistici; sì, un po' come quando la laicità in nome del pluralismo non viene promossa dalle minoranze ma da chi le sfrutta per i propri comodi elettorali.

L'omosessuale, in Italia e in Europa, è (come può vedere chiunque) libero di fare ciò che vuole, nessuno lo discrimina o lo costringe a fare cose che non vuole, e questo anche perché esistono delle influenti lobby che martellano l'opinione pubblica con i presunti bisogni di chi non è attratto da persone del sesso opposto e con la persecuzione (?) di cui esso sarebbe oggetto. Altra cosa è però l'assurda pretesa di voler parificare quelle che non sono altro che mode contemporanee a ciò che manda avanti il mondo dalla notte dei tempi, e quindi alla famiglia tradizionale, che è frutto dell'ordine naturale delle cose.

Non può esistere che un rapporto tra due omosessuali o due lesbiche venga messo sullo stesso piano di una coppia eterosessuale, sposata e con figli, che costituisce dunque la cellula base di ogni società forte e sana; anche solo da un punto di vista etimologico il matrimonio non è matrimonio se unisce due uomini o due donne. Diventa piuttosto mercimonio. Figuriamoci se si trattasse poi di affidare a costoro degli innocenti, dei bambini che hanno il diritto ad avere un padre e una madre, hanno il diritto ad avere quella normalità che tutti i bambini dovrebbero avere.

La mia condanna investe anche la manipolazione genetica e il resto delle porcherie da laboratorio che riducono la vita umana ad un capriccio, come se si fosse al supermercato o si trattasse di ordinare una portata al ristorante, e il frutto dell'amore tra due persone eterosessuali (dal concepimento alla nascita) ad un giocattolo che può essere comprato da tizi che, mentre cianciano di loro strampalati "diritti civili", calpestano i veri diritti del bambino, e prima ancora della vita umana che si sta formando nel grembo di una donna e che da esso vede la luce.

Dobbiamo capire, amici, che queste assurdità non sono naturalezza, normalità, ordine (e dunque virtù e benessere) ma aberrazioni moderniste nate da una società relativista e malata che è la stessa che poi si fa mettere sotto dalle invasioni immigrate, dal terrorismo islamista, dalla colonizzazione americana del nostro Continente; va tutto di pari passo con il decadimento e la vecchiezza dell'Europa, un'Europa che invece di investire sulla famiglia, sul lavoro, sulla sicurezza, sulla sovranità delle sue nazioni preferisce assimilare allogeni, assecondare capricci delle minoranze e inventare nuovi bisogni di cui non se ne sentiva alcuna necessità. E chi ci guadagna in tutto questo? Veramente gli omosessuali, la cui mente viene farcita di castronerie propagandistiche? Ovviamente no, ci guadagnano i fedeli servitori del sistema, e chi questo sistema lo capeggia, ossia gli stessi che vogliono un mondo unipolare a guida americana. Capitalismo e imperialismo occidentale, insomma, ciò che non solo bombe e occupazioni militari ma pure gay pride e aride americanate consumistiche impiega per tenere sotto scacco le sorti dei popoli della Terra.

A questo proposito, peraltro, come non avvertire un certo prurito a mani e piedi quando ci si trova nei pressi del povero pappagallo di turno che ti viene a dire: "L'Italia è indietro, è il fanalino di coda dei diritti (?), non è al passo coi tempi, deve imparare dai Paesi civili"? Ne abbiamo visti parecchi di pappagalli variopinti, ieri, burattini nelle mani del sistema e della dittatura del pensiero unico all'americana che sfilano come automi per reclamare cose che non hanno né capo né coda, spacciando l'Italia per terzo mondo e in sostanza dunque vendendo il proprio orgoglio patrio al forestiero perché così vuole la globalizzazione dell'idiozia targata Obama, o comunque Stati Uniti. L'Italia, da faro di civiltà per l'Europa e il mondo intero, secondo lorsignori dovrebbe inginocchiarsi davanti ad entità come quella americana (notoriamente non una cima in materia di cultura, storia, patrimonio artistico) per leccarne i piedi implorando che le introietti nel cranio le sovversive idee anti-tradizionali e antinazionali che tanto eccitano la pletora di utili idioti bardati di cenci arcobalenati e armati di patetici slogan frutto della confusione tra Libertà e liberalismo/libertarismo/liberismo. "In tutta l'Europa occidentale gli omosessuali si sposano e possono adottare figli": e 'sto grandissimo paio di orobici maroni? Scusate il francesismo. Io, Italiano, figlio di Roma e dell'impareggiabile cultura italico-romana dovrei ridurmi a scimmiottare quel che fanno in altri Paesi?

La Libertà, care teste vuote, non è fare ciò che si vuole ma fare il bene della propria Comunità etnica e nazionale, della maggioranza, al di fuori di cui l'individuo si nullifica e diventa nient'altro che uno strumento di anarchia nelle mani di chi vuole gettare i nostri Paesi nel caos più totale, per poi giungere e sottomettere tutti al pensiero unico, al mondialismo, al dispotismo "illuminato" che ruota tutto attorno ad una sola, nefanda, divinità infernale (proprio nel senso del basso ventre): il dio denaro.

Davanti a queste parole, chissà quanti lib-dem mi taccerebbero di becero provincialismo. Il vero provincialismo, invece, io lo ravviso nell'atteggiamento autolesionistico di quegli Italiani che si vergognano di essere tali per copiare ogni singola deiezione sfornata dall'estero, come se tutto quello che provenisse dall'Atlantico fosse buona cosa e non piuttosto un modo per colonizzare le nostre menti e le nostre coscienze che sono già sotto occupazione dal 1945.

Svegliati Italia, sì: svegliati dall'incubo occidentalista e riprendi in mano il tuo destino, per onorare il glorioso passato che la Storia ti ha donato. In linea con una Natura sovrana che non conosce i perversi giochini del politicamente corretto, e che solo nella Ragione (e non nell'isteria) trova il valido alleato per mettere ordine nel mondo sconvolto dai miti dell'uguaglianza e dal distruttore imperialismo relativista.

Ave Italia!


Julius Evola – Antimodernità, Tradizione, Scienza dell’Io… a Roma, a Palermo, a Napoli 26 – 27 Febbraio

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Per i nostri amici eretici si preannuncia un fine Febbraio 2016 molto particolare. Nel fine settimana tra il 26 e il 27 contemporaneamente a Roma, a Palermo e Napoli si presenterà lo speciale di Vie della Tradizione n. 168 - 169 su Evola, contenente gli atti del convegno di Napoli del 21 giugno 2014, nel quarantesimo anniversario della scomparsa, organizzato dal sito web EreticaMente.net e dall'Ass. culturale IlCervoBianco, col patrocinio della Fondazione Evola, delle Edizioni All’Insegna del Veltro, di Fenix Rivista.

Si inizierà a Roma, venerdì 26, alle ore 20.30 presso la Libreria Aseq, con gli interventi di Gianfranco De Turris e Luca Valentini.

Si continuerà a Palermo, sabato 27, alle ore 09,30, presso la sala della Fondazione Giuseppe e Marzio Tricoli, in via Terrasanta n.82, con gli interventi della dott.ssa Anna Cannizzo (direttrice di Vie della Tradizione), del Prof. Tommaso Romano (Presidente della Fondazione Thule Cultura), Roberto Incardona (Presidente Istituto siciliano di Studi Tradizionali), coordinati da Eugenio Barraco (EreticaMente.net).

Si concluderà a Napoli, sempre sabato 27, alle ore 18,00, presso il Centro Studi E Ricerche G.r.e.n. Via A. Mazzocchi 44 (adiacenze Piazza Carlo Terzo), con gli interventi di Stefano Arcella e Daniele Laganà.

Per info, scrivere a info@ereticamente.net

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Considerazioni eterodosse su Cavalcare la Tigre – Mario Michele Merlino

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C’è una pagina, poche righe, in Cavalcare la tigre che mi ha sempre intrigato. Un oscillare tra l’adesione e il disagio – quel sì o quel no – che inquieta turba rinnova si rinnova. Anche oggi che le letture di Julius Evola, i suoi libri, mi sono ormai estranei, muti nello scaffale a lui dedicato, avendo privilegiato altro e da anni. E, se ha la forza di aprirsi varchi nella memoria, qualcosa vorrà pur dire. Nelle misteriose profondità del mare, ‘in gurgite vasto’, per dirla con Virgilio, quanto s’è dato perduto un’onda più audace riporta a riva qualcosa di ciò che nel tempo venne sottratto. Oppure quando Nietzsche scrive – ed è lo Zarathustra a parlare - come solo, quando da tutti sarà abbandonato, egli tornerà fra i suoi per guardarli con altri occhi e amarli con altro amore… Una pagina, più esattamente la penultima (la 327), della edizione a cura di Vanni Scheiwiller, mille cinquecento copie, anno 1961, con la sovra copertina gialla e in un formato tipografico originale. Esistere è essere sottratti all’Essere, imponendo la domanda se il caso o la necessità di questo accadimento ne sono la causa. Combattere è un destino, vivere una consegna, morire un dono… La Geworfenheit, quel essere gettati ‘dentro il mondo e dentro il tempo’, di cui parla Martin Heidegger, in cui ‘il viaggio nelle ore di notte non lascia scorgere quasi nulla del paesaggio che si attraversa’. E, appunto, nella morte la misura di quanto è dato essere e non altrimenti. Rifiuto, al contrario, lapidario, in nome del come ‘vivere qui, ora, in questo mondo, ha un senso per essere sempre l’effetto di una scelta e di una volontà’ e, con ardita ipotesi, vivere in un mondo ostile e contro la propria natura per misurare le proprie forze.

La rivolta egli angeli, potremmo fare il confronto, libro dello scrittore francese Anatole France, anno 1914, ove al centro della narrazione vi sia di come si chieda a Lucifero – prototipo d’ogni insulto a Dio – di porsi a capo di un sovvertimento di quell’(dis)ordine costituito e mantenutosi per secoli. Ordine fragile, privo della giustizia, se consente la presenza del Male, della miseria e della sofferenza di cui sono afflitti gli uomini e di cui angeli più sensibili si sono fatti carico e condivisione rinunciando alle loro caratteristiche celesti. Essere uomini fra gli uomini, conoscere il dolore, tremare di fronte alla morte. Una rivolta dell’umano per l’umano. Chiedergli, dunque, e offrirgli lo scettro, guida e comando e altare massimo e trono, dopo la cacciata di quel ‘primitivo’ dio che, vecchio e ritiratosi ormai in ostinato silenzio, ha dimostrato di non saper ben governare. E Lucifero esita, esita tra il desiderio di potersi liberare della condanna a cui è avvinto per l’eternità la vanità d’essere egli adorato il più grande e migliore. Esita e rifiuta. Non per timore, per pietà. Pietà nella originaria accezione del termine, comprendere l’ineluttabile destino sotto il cielo muto e freddo. Pietà verso quel dio, pur causa della sua dannazione, che è lì impotente sentinella dell’imperfezione. Perché anche in lui vi è un residuo di Male, come tanti filosofi a più voce hanno dimostrato…

Ha un senso mettere a confronto la Geworfenheit di Heidegger con la disperazione della condizione umana, il modo avvilito triste e misero dell’uomo descritto da Anatole France e, al contempo, gli angeli, umanissimi, con l’aristocratico gesto dell’uomo della Tradizione che sfida se stesso scegliendo di mettersi a dura prova? Ovviamente c’è della blasfemia in tutto ciò, una pennellata superficiale di pessima vernice, minimo. C’è – lo riconosco e non me ne dolgo, anzi… - la libera santa alata eresia di un mago che, dopo aver duellato contro la maga Magò e averla irrorata di varicella, se ne parte a cavalcioni d’un razzo per le isole Hawaii camicia a fiori e bermuda… In altri termini io sono il centro e la periferia delle mie riflessioni e mattate. Prendere in todo o in todo lasciare. C’è, però, quel non perdersi, forse soltanto un disperdersi in un eterno andare oltre,  nelle gabbie dell’ortodossia del filologico politico ideologico e quanto altro si voglia costruire a limite.

Se quella pagina, quell’insieme di poche righe, mi sono tanto familiari e, di conseguenza, si esternano anche quando sembrano essersi dismesse e ottenebrate, sono esse stesse che si compenetrano nel difforme nel molteplice nel distante. Non ho mai amato film con titoli tipo L’assedio di forte Apache o, più seriosamente, ricordando ancora le letture del Barone, collocarmi là dove si attacca e non dove si è costretti a difendersi. Rimane, però, il dilemma: nascere per caso o per destino? Nella mia scelta d’essere contro, misurare forze e coraggio, indossare ideale ‘camicia nera’, va da sé che mi sentivo vicino, privo di qualsiasi atto umile e di cautela, a ‘il Cavaliere, la Morte e il Diavolo’ – quell’incedere nel bosco estraneo ed ostile, incurante degli accadimenti e della compagnia, fisso verso una meta, prossima o lontana, reale o soltanto sognata -, essere cioè fra coloro che sono qui e, al contempo, appartengono all’altrove. E su questo essere altro ed alto di cui Evola appariva l’indiscusso Maestro si accentrava certa mia, contraddittoria, arroganza di scontroso liceale prima e, successivamente, di studente universitario dall’apparenza altezzosa. Essere parte di una élite di ceppo aristocratico che fendeva la realtà come lucida lama nel burro tenero.    Me 1

   D’altronde venni presto bruciato alla fiamma vivida di Nietzsche e del nichilismo, a cui ero spinto da un dna d’insofferenza forte e all’inizio inconsapevole da una inquietudine curiosa da una sensibilità immediata e istintiva della carne e delle ossa e del sangue. Precipitare senza come e perché nel mondo, essere errante. Nell’errore la cifra esistenziale della propria imperfezione e nell’errare quell’inesorabile destino di chi non confida nei confini dell’orizzonte, una sorta di luogo esteso ovattato e protetto,  ma li identifica a sbarre e chiavistelli. Prima furono umorali e immediate emozioni sensazioni intuizioni incerte e confuse poi tappe obbligate. Anche quelle resesi autentiche in una cella di isolamento poi al secondo braccio di Regina Coeli. Quando, ad esempio, fra i primissimi miei libri vi entrò, con apparente casualità, I Proscritti di Ernst von Salomon (ne ho scritto sovente) la concezione della lotta politica e il mio stato d’animo trovarono comune terreno in pensiero e in azione ove non vi poteva in quello spazio allignare alcuna forma d’ordine borghese con le sue paccottiglie ma una sovversione irriverente e decisa. Quella di certo squadrismo strafottente, di Berto Ricci visionario, da brigata nera con il mitra in mano e la sicura levata…

     Ed ecco emergere nitidi gli eroi a me cari, mitiche figure di riferimento, che non dimentico – e i miei lettori li conoscono ormai anch’essi – di rammemorare. Eroi straccioni e folli, figli del caso, eppure nobili figure di solitaria statura, stranieri estranei strani… Con il largo cappello e l’orgoglioso pennacchio, appoggiatosi al tronco di un albero, nella luce ormai smorta della sera, la spada sguainata, irride alla luna con il suo grande e inconfondibile naso Cyrano de Bergerac. E, in sella ad uno sfiancato e macilento, reso tutto pelle ed ossa, cavallo, il suo nome è Ronzinante, m’appare in armatura sconnessa e rimediata gli occhi spiritati il pizzetto rado Don Chisciotte e, puntando un trave a mo’ di lancia, m’indica la strada senza meta alcuna se non nel sogno nell’illusione nell’inganno… Essi non sono forse il segno vero che ciò che appare difforme può essere conciliabile? Miseria e nobiltà, caro Totò. La Geworfenheit e la Tradizione coabitano, l’unico regno di cui io sia sovrano legittimo, nella mente e nel cuore – accetto d’essere frammento disperso, senza fine né caso, e in questa consapevolezza, mai domo ed anzi orgoglioso, m’ergo tra le rovine in libera sfida.  Lo confesso; lo sapete. Ho in antipatia i professorini patentati; gli accademici acquisiti. Sono stato fra loro, al margine ed emarginato (‘ti abbiamo scoperto, maghetto fasullo, tu soffri d’invidia e rancore’, puntando il dito, dirà qualcuno con ghigno porcino, dimostrando di non aver capito un c… o, come dice Nietzsche, ‘al puro tutto è puro, ma io vi dico che al porco tutto sa di porco’). Un paria senza casta, forse, o reso invisibile per emanazione di troppa luce? Pitocchi, che ne sapete della grandezza se l’unico metro di misura è in voi e per voi quello del mercante… E i filologi a spaccar la parola in quattro per raccontarci l’origine di ognuna ma dimentichi dell’uomo che la pronunciò? Piccola invettiva, senza conto e senza frutto… Va bene, l’ammetto, Julius Evola è unico inimitabile irripetibile; Martin Heidegger è un grande filosofo, giusto definirlo ‘l’ultimo sciamano’, ma di filosofi ce ne sono tanti come nel cortile assordante è lo starnazzare di oche e galline. In Cavalcare la tigre Evola critica – l’ho citato all’inizio – la tesi cara ad Heidegger della ‘gettità’ non l’affianca. E non sta a me cambiare le carte in tavola mischiarle e barare per rendere compiuto il solitario… ‘Cosa sono le mie mani se non l’incommensurabile distanza fra me e il mondo delle cose’.

  Rimproverano – sempre i saputelli e dintorni – a Cavalcare la tigre d’essere stata lettura assai dannosa per essere caduta fra le mani di lettori sprovveduti e sventati, giovani e giovanissimi, usi più all’uso del bastone prima e della P38 dopo che, leggendo e farneticando (!), si sono dati alla rapina alla banda armata alla lotta di tutti contro tutto. Teniamo, dunque, quel libro, ogni libro, chiuso in biblioteca e che lo si consulti soltanto dopo aver superato esami di maturità testi psicologici mostrato certificato penale immacolato… Ben altro è il ‘Tempus loquendi, tempus tacendi’…  Certo lo stesso Evola, già nelle prime righe del medesimo libro, era corso ai ripari ammonendo come egli si rivolgesse ad ‘un uomo che, pur trovandosi impegnato nel mondo d’oggi … non appartiene interiormente a tale mondo né intende cedere ad esso, e in essenza sente di essere di una razza diversa di quella della grandissima parte dei nostri contemporanei’. Tra chi è gettato a caso e chi s’è scelto dove cogliere la differenza? Nell’esistere, credo, in quella ‘bellezza’ dell’essere in cammino, magari da solo, e non sentirsi mai appagato da ogni riposo ed ogni sosta. Poi, se esiste un fine e una meta oppure s’è nomadi, è soltanto questione di buon gusto…

Riscoprire la Tradizione – Enrico Marino

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Ereticamente_Kalergi

Il Premio Carlo Magno è un premio annuale conferito dalla città tedesca di Aquisgrana a personalità con meriti particolari acquisiti in favore dell'integrazione e dell’identità dell’Europa. Per questo dalla sua istituzione a oggi ne sono stati insigniti  personaggi famosi, come Papa Francesco, Martin Schulz, Jean-Claude Trichet, Carlo Azeglio Ciampi, Valéry Giscard d'Estaing, Bill Clinton, Tony Blair, Jacques Delors, François Mitterrand ed Helmut Kohl, Henry Kissinger, George Marshall, Robert Schuman, Sir Winston Churchill, Konrad Adenauer, Jean Monnet, Alcide de Gasperi e altri.

Com’è logico supporre, anche scorrendo questo sommario elenco, le personalità e le qualità di ciascuno dei premiati erano ben note ai promotori che, evidentemente, hanno individuato in costoro i portatori qualificati di un messaggio di civiltà e di un progetto di crescita per i popoli europei.

Appare ancora più strano, pertanto, pensare che tutti questi personaggi siano legati, proprio in ragione dei loro ideali e dei loro meriti, in una sostanziale unità d’intenti, col primo assegnatario (nel 1950) del medesimo premio, il conte Richard Nikolaus di Coudenhove-Kalergi, che nel suo libro “Praktischer Idealismus”, dichiarava che gli abitanti dei futuri Stati Uniti d’Europa non sarebbero stati i popoli originali del vecchio continente, bensì una sorta di sub-umanità resa bestiale dalla mescolanza razziale.

Egli affermava senza mezzi termini che sarebbe stato necessario incrociare i popoli europei con razze asiatiche e di colore per creare un gregge multietnico senza qualità e facilmente dominabile dall’élite al potere: “L’uomo del futuro sarà di sangue misto. La razza futura eurasiatica-negroide, estremamente simile agli antichi egiziani, sostituirà la molteplicità dei popoli, con una molteplicità di personalità.”

Kalergi propugnava l’abolizione del diritto di autodeterminazione dei popoli e, successivamente, la scomparsa delle stesse nazioni per mezzo dei movimenti etnici separatisti o dell’immigrazione allogena di massa, con la quale pretendeva di trasformare i popoli europei omogenei, attraverso la mescolanza razziale tra bianchi, negri e asiatici, in una razza meticcia facilmente dominabile.

È assai significativo che Kalergi, considerato ufficialmente il Padre dell’Unione Europea, sia stato il fondatore nel 1922 a Vienna del movimento “Paneuropa” che mirava già da allora all’instaurazione di un Nuovo Ordine Mondiale basato su una Federazione di Nazioni guidata dagli Stati Uniti. L’unificazione europea avrebbe costituito pertanto il primo passo verso questo unico Governo Mondiale.

Con l’ascesa dei fascismi in Europa, il Piano subì una battuta d’arresto, e l’unione Paneuropa fu costretta a sciogliersi, ma dopo la Seconda Guerra Mondiale Kalergi, con una frenetica e instancabile attività, grazie all’appoggio di Winston Churchill, della loggia massonica B’nai B’rith e di importanti quotidiani come il New York Times, riuscì a far accettare il suo progetto al Governo degli Stati Uniti e, da quel momento, le banche, la stampa e i servizi segreti americani finanziarono i suoi pani.

Non siamo inclini alla dietrologia e al complottismo, ma se ci guardiamo attorno, oggi pare che il piano Kalergi si sia pienamente realizzato.

In suo onore è stato addirittura  istituito il premio europeo Coudenhove-Kalergi che ogni due anni premia gli europeisti che si sono maggiormente distinti nel perseguire gli obiettivi del suo progetto. Tra di loro troviamo nomi del calibro della Cancelliera Federale Angela Merkel, che ha ricevuto il Premio europeo nel 2010, ovvero Herman Van Rompuy, ex Presidente del Consiglio europeo nonché membro del Gruppo Bilderberg, che ne è stato insignito Il 16 novembre 2012 dalla Società Europea Coudenhove-Kalergi.

Siamo, infatti, di fronte a un vero processo di sostituzione etnica in Europa e l’assioma portante della “nuova civiltà” predicata dagli apostoli del verbo multiculturale è l’adesione all’incrocio etnico forzato: gli europei sono sospinti nel meticciato, sommersi da milioni di immigrati, ammaestrati all’accoglienza, costretti a subire l’invasione.

Con la disinformazione, l’antirazzismo e l’intorpidimento umanitario, operati dai mezzi di comunicazione di massa, si è già insegnato agli europei a rinnegare le loro origini e a disconoscere la loro identità per meglio trasformarli in masse multietniche, degradate dalla povertà e abbrutite dagli psicofarmaci, incapaci di ribellarsi perché non hanno più radici, alle quali non sia rimasto più alcun ideale per cui combattere e per cui vivere, tranne il mero soddisfacimento delle pulsioni primarie e animalesche e la ricerca narcisistica di una felicità sintetica, effimera e materiale.

Gli europei sono tra i popoli più dotati dal punto di vista spirituale e intellettuale e sarebbero ancora in grado di costituire una seria minaccia all’instaurazione del mondo anodino e artificiale teorizzato da Kalergi, gli unici che ancora oggi, se volessero, potrebbero ribellarsi.

Perciò, per i mondialisti, è tanto più necessario estirpare dalle fondamenta ogni residuo di civiltà europea, di cultura europea e di memoria storica europea, imponendo sin nelle scuole un indottrinamento a base di genderismo, antirazzismo e multiculturalismo, per minare le basi psichiche, caratteriali, spirituali e biologiche delle future generazioni europee e trasformare il Continente in un’immensa pattumiera, colma di genti meticce.

Né perdono occasione per rinnovare questo loro impegno. Come hanno fatto in questi giorni Mattarella e Obama nell’incontro di Washington in cui il presidente Usa ha assicurato al nostro l’aiuto delle navi e degli aerei americani per raccogliere altri profughi da scaricare in Europa.

I fautori della globalizzazione si sforzano di convincerci che rinunciare alla nostra identità è un atto progressista e umanitario, che il “razzismo” è sbagliato e che è un nostro preciso dovere aprirci all’arrivo delle ondate di genti afroasiatiche.

Col pretesto dell’accoglienza umanitaria si tende a interdire la naturale reazione dei popoli europei nei confronti degli invasori, si vogliono abbassare le difese naturali e sopprimere gli anticorpi che un qualsiasi organismo pone in campo allorché viene aggredito da germi patogeni o da elementi alieni. Si soffoca la fisiologica reazione di rigetto del corpo estraneo perché si vogliono sottrarre ai popoli europei i loro diritti naturali, primo fra tutti il diritto esclusivo alla terra, al territorio dei padri, della stirpe e delle generazioni europee, il diritto che inibisce la mescolanza, che esibisce immediatamente l’identità e le differenze come un dato oggettivo e che proclama l’appartenenza.

L’appartenenza carnale di una terra a un popolo e di un popolo a una terra.

E questo proprio ora che le ultime straordinarie scoperte scientifiche stanno riabilitando le nostre origini e la nostra identità, affrancandole dalla teoria antropologica (ampiamente supportata e apprezzata dai sostenitori della globalizzazione, dell'omologazione e dell'ugualitarismo) secondo la quale discenderemmo tutti da un unico ceppo africano.

E’ lo scenario che ci vede riappropriarci della nostra identità, come protagonisti della nostra storia e della nostra civiltà culturale e ci invita, dunque, a essere orgogliosi delle nostre radici e del nostro lignaggio. Riconoscere le nostre origini indoeuropee  - donando nuova attendibilità e plausibilità al grande mito degli "Iperborei" di Evola – rappresenta anche il presupposto per tornare a progettare per l’Europa un futuro diverso da quello auspicato dalle centrali ideologiche che tacciano di razzismo e nazismo ogni teoria che contrasti con la mescolanza.

Infatti, seppure ripetiamo di non essere inclini a dietrologia e complottismo, ci assale qualche dubbio quando notiamo che il massone Kalergi, da un lato, inneggiava alla mescolanza razziale per i dominati, ma al contempo, elogiava la religione ebraica basata sulla preservazione della stirpe, individuando in essa il principio della potenza politica e spirituale: “Il giudaismo è il nocciolo intorno al quale si riunisce una nuova nobiltà, una razza di signori […] Ciò che separa principalmente gli ebrei dai cittadini medi è il fatto che siano degli individui consanguinei. La forza di carattere alleata all’acutezza spirituale, predestina l’ebreo a divenire, attraverso i suoi esponenti di spicco, il leader dell’umanità urbana, il falso o vero aristocratico dello spirito, un protagonista del capitalismo come della rivoluzione”.

Allora, è più che mai necessario reagire alle menzogne del Sistema, ridestare lo spirito di ribellione negli europei, riaccendere la fiaccola della Tradizione e affermare con forza l’idea (politicamente scorretta) che l’immigrazione di massa equivale a un genocidio, che l’accoglienza senza freni è il suicidio etnico, che il multiculturalismo è un attentato alla nostra civiltà e che noi europei siamo decisi a preservarla insieme alla nostra identità e a rivendicare l’integrità dei  nostri diritti di sangue e di suolo.

Il Nondualismo di Adi Shankaracharya e le “Sei strofe sulla salvezza” – Paolo D’Arpini(*)

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shankaracharya[1]

Adi Shankaracharya (788 – 820 d.C.) è quel grande sapiente, saggio e santo che ristabilì in India la dottrina Advaita (Non Duale) che per un periodo era stata negletta a causa della propagazione del buddismo, del jainismo e di altri culti. Adi significa “originario” Shankara è uno degli epiteti di Shiva ed Acharya sta per “maestro”. I suoi commentari originali sulle Upanishad, sulla Bhagavad Gita e sui Brahmasutra riportarono in luce le profonde implicazioni spirituali dell’Advaita che stava stagnando anche in seguito ad una pratica religiosa ortodossa e superficiale (in auge a quel tempo), sostenuta dalla casta sacerdotale brahmina. Egli, nella sua pur breve esistenza, reintegrò il vero significato del Vedanta rendendolo inoltre comprensibile alle masse e confutando le formali dottrine buddiste (mahayana, etc.) che pian piano uscirono dalla consuetudine religiosa dell’intera India. Egli fondò inoltre quei “maths” (istituti spirituali) posti alle cinque direzioni, di cui i capi spirituali portano il suo nome. Al nord a Badrinath, nel sud a Kanchi, nell’est a Puri, nell’ovest a Dwarka ed al centro a Sringeri. In ognuno di questi monasteri c’è un maestro che deriva la sua autorità da uno dei principali discepoli di Adi Shankaracharya.Bhagavadgita[1]

Shankara, dicevamo, è uno degli appellativi di Shiva. Shiva dal punto di vista tradizionale viene considerato l’aspetto della Trinità preposto alla distruzione. Ma tale distruzione comprende anche l’ego, o l’ignoranza, ovvero quell’identità separata che impedisce all’uomo di riconoscersi Uno con l’Assoluto. Perciò Shankara sta a significare “favorevole, propizio” . Egli è l’Assoluto stesso, l’amore indicibile che sorge dal principio “Io” privo da ogni identificazione, la pura consapevolezza di Sé (in sanscrito Atman). Shiva viene anche definito: “Satyam-Shivam-Sundaram” cioè Vero, Auspicioso e Incantevole.

Shankaracharya viene considerato uno dei massimi esponenti del Nondualismo, (in Sanscrito: Advaita) che è l'espressione più sottile e "scientifica" del pensiero spirituale umano. Agli effetti pratici non può essere definita una filosofia, in quanto si pone "prima" ed "aldilà" del pensiero, quindi non potrà mai divenire un argomento di studio o di dibattito. Il Non-dualismo è stato intelligentemente rappresentato da uno dei suoi più recenti fautori, Sri Poonja di Lucknow (detto Papaji), con queste parole: "Immagina l'Uno non seguito dal due e poi abbandona il concetto stesso di Uno". Non è possibile alcuna speculazione mentale su quanto viene significato con questa netta e assoluta indicazione della realtà.

La concezione Non-duale si affaccia sulla scena del pensiero umano già cinquemila anni fa, nelle ultime porzioni dei Veda (Vedanta) dette Upanishad, in cui si afferma: "Dall'Uno sorge l'Uno, se dall'Uno togli l'Uno solo l'Uno rimane". Nel VI° secolo a.C. la civilizzazione Indiana è preda di depressioni empiriche e matematiche, in quel periodo vennero accantonate le sottigliezze vedantiche e sostituite da formalismi rituali, teismi e sofismi di vario genere, per questo motivo la venuta del Buddha segnò un rifiorire dell’autentico spirito nel tentativo di superare il materialismo spirituale.Brahmasutra_Raphael[1]

Avvenne così che la dottrina Buddista della "sunyata" (vacuità o vuoto), in cui si nega la sostanza ed il valore alle forme e alle manifestazioni del mondo, riportasse l'attenzione al percipiente. La descrizione dell'esistenza empirica come origine e fonte della sofferenza restituì stamina ed impeto alla realizzazione del puro spirito, ma già nel V° secolo d.C. le diatribe interne ai vari sistemi Buddisti andavano deteriorando la pulizia dell'insegnamento originario del Buddha.

Ed è proprio in quel contesto storico che apparve sulla scena il grande saggio Adi Shankaracharya, che fin da giovanissimo iniziò a riportare la società induista verso la comprensione dell'Uno senza un Due. Lo fece indicando la pratica spirituale quotidiana della rinunzia alle forme pensiero dualistiche: "Neti…Neti" (non questo... non questo). Il grande movimento che ne nacque è ancora vivo e vegeto ed ha quindi prodotto innumerevoli saggi che si riferiscono a questa linea.

gaudapada[1]Non si può affermare che il Nondualismo possa venir perfezionato, ma per quanto concerne il modo descrittivo possiamo dire che questa affermazione è appropriata nel caso di Ramana Maharshi, il saggio di Arunachala, la solitaria montagna sacra del Tamil Nadu, ove egli visse in ritiro permanente nella prima metà del secolo scorso. Ramana è universalmente riconosciuto come il divulgatore dell’Advaita Nondualista oltre i confini dell'India. Egli, nella strofa X del suo ‘Quaranta Versi sull'Esistenza’ così afferma: "Non vi è conoscenza separata dall'ignoranza, non vi è ignoranza separata dalla conoscenza. Di chi sono questa conoscenza e quest'ignoranza? Vera Conoscenza è quella che conosce la coscienza che conosce, che è il principio base".

Secondo l'esperienza di Ramana, non vi è alcuna separazione, e tutto perciò viene ricondotto al Sé. Questa sublime espressione della Coscienza che conosce se stessa è stata susseguentemente spiegata, in modo raffinato e culturalmente accettabile per la nostra mente speculativa, dal saggio Indiano Nisargadatta Maharaj, il quale nella sua estrema semplicità descrittiva si limitò ad affermare: "Io sono Quello". Nella diretta realizzazione del Sé non esistono descrizioni che possano adeguatamente trasmettere questa ineffabile esperienza, ed è per questo che il diniego o rifiuto di ogni assunzione e proposizione spirituale fu la caratteristica di un ultimo campione della linea, e cioè U.G. Krishnamurti - il santo che negava ogni santità che fosse altra dallo stato puro della consapevolezza - esclamando: "le mie parole sono come il raglio di un asino... esiste solo la vita che meravigliosamente compie il lavoro". Con ciò segnalando il punto finale di "non ritorno" al dualismo empirico.

Molte le storie che potrei ancora raccontare sull'esperienza Advaita ma voglio tornare all'insegnamento di Shankaracharya, e passo alla traduzione del canto che, secondo me, più rappresenta l’insegnamento del grande Maestro, esso si chiama Nirvanasatkam, ovvero:

Sei strofe sulla salvezza

Io non sono né la mente cosciente né quella inconscia, non l’intelletto né l’ego, né le orecchie o la lingua, né i sensi dell’olfatto, vista o tatto, e nemmeno l’etere, l’aria, il fuoco, l’acqua o la terra. Io sono Coscienza e Beatitudine. Io sono Shiva! Io sono Shiva. Io non sono il prana o le cinque arie vitali, né i sette componenti del corpo, né le cinque guaine o corpi. Non la parola, né le mani od i piedi, non l’ano né l’organo sessuale. Io sono Coscienza e Beatitudine. Io sono Shiva! Io sono Shiva! Neppure sono avversione od attaccamento, avarizia o illusione. Non arroganza né il sentimento di gelosia, nulla di tutto ciò. Né rettitudine, ricchezza o piacere sono miei. Io sono Coscienza e Beatitudine. Io sono Shiva! Io sono Shiva! Io non sono la virtù né il vizio, né godimento o dolore. Non sono la preghiera né il luogo sacro, non sono le scritture né i sacrifici. Io non sono il cibo, né chi lo mangia, né l’atto di mangiarlo. Io sono Coscienza e Beatitudine. Io sono Shiva! Io sono Shiva. Non la morte, né il dubbio, né il senso di classe, nemmeno il padre, la madre o questa nascita mi appartengono. Io non sono fratello o amico, neppure maestro o discepolo, veramente. Io sono Coscienza e Beatitudine. Io sono Shiva! Io sono Shiva. Io sono senza pensiero, senza forma, io sono onnipervadente, sono ovunque, eppure sono oltre in tutti i sensi. Io non sono né il distacco né la salvezza, nulla che possa misurarsi. Io sono Coscienza e Beatitudine. Io sono Shiva! Io sono Shiva!
……..

Om Namah Shivaya. Possa Shiva illuminare la mente di chi legge!

Paolo D’Arpini

Di questi temi se ne parlerà a Vignola, presso agriturismo I Toschi in Via Canova 4, dal pomeriggio alla sera (cena condivisa compresa), durante l'incontro del 7 maggio 2016, organizzato da Mara Lenzi coordinatrice di Aria di Stelle, in pre-celebrazione del Shankara Jayanti (che cade l'11 Maggio 2016). Partecipano con interventi e canti Francesco Balestro e Paolo D'Arpini.

(*) Ringraziamo per la gentile collaborazione Paolo D'Arpini

Evola critico della civiltà americana – Riccardo Rosati

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Prerogativa dei veri intellettuali è quella di essere sempre attuali. Una affermazione di questo tipo può giustamente sembrare banale, ma ciò non ne diminuisce la autenticità. In questa categoria di menti superiori, rientra a pieno titolo Julius Evola. Già in passato, leggendo e studiando i suoi articoli sull'Oriente, ci siamo accorti di quanto a tale filosofo calzi a pennello l'aggettivo “profetico”. Avvicinandoci ai suoi scritti in qualità di orientalisti, siamo rimasti colpiti, non solo per la straordinaria competenza specifica di questo autodidatta, ma specialmente per la sua capacità di andare oltre il limitante confine del campo di studio settoriale, che imbriglia ormai da anni una Accademia insterilita nel pensiero. Ancor più sorprendente si è rivelata la lettura della sua raccolta di riflessioni sulla società statunitense: Civiltà americana. Scritti sugli Stati Uniti 1930-1968, la quale è stata, e non è una esagerazione, una specie di folgorazione, quasi un satori, in virtù della visione premonitrice del filosofo.

Il lettore ci perdonerà ora un breve accenno autobiografico. Abbiamo conosciuto il mondo anglosassone in prima persona, venendo culturalmente da quella estrazione. Sin dalla giovane età, un retaggio latino ci induceva a percepire un malessere nei confronti di un sistema valoriale che tale non era. Passarono gli anni, e mai abbiamo sentito, né letto, da parte di anglisti e americanisti italiani parole che andassero minimamente a stigmatizzare quella civiltà del sedicente progresso che ha plasmato il mondo moderno. Solo in Evola abbiamo ritrovato la sopracitata competenza nella sostanza, puntualmente assente tra gli specialisti. In sintesi, nel suo modo di tracciare la soglia di non ritorno, così da salvare quel valore liminare proprio alle società di stampo Tradizionale, Evola è stato capace di raccontare perfettamente due mondi e i loro mali attuali. Da un lato, quello anglosassone, segnatamente americano, portatore di una palese entropia spirituale che nessuno è più capace di riconoscere. Dall'altro, quello di un asservimento volontario dell'Italia a una mentalità che non le appartiene. “Il re è nudo” si suole dire. Negli scritti che andremo qui brevemente ad approfondire viene per l'appunto denunciato questo.

Alberto Lombardo ha curato il volume dove sono stati raccolti i contributi giornalistici di Evola sulla America, che vennero pubblicati nell'ampio intervallo di tempo 1930 – 1968. Sarebbe troppo lungo citare i titoli dei singoli articoli presenti in questo testo, benché francamente non se ne rinviene uno che non sia degno di profonda attenzione. Due di essi meritano comunque di essere segnalati, non tanto perché più importanti degli altri, ma per il fatto che colgono delle tematiche centrali nella società italiana di oggi. Il primo è Servilismi linguistici (Il Secolo d'Italia, 28 luglio 1964). Qui Evola bacchetta l'utilizzo da parte dei media di quelli che in linguistica si chiamano “prestiti di lusso”, ovvero la zelante ripresa di termini stranieri quando in una lingua ce ne sono già di identici, con il risultato di andare a impoverire la comunicazione della propria lingua madre. Molto acuta è inoltre la sua individuazione di alcuni false cognates o più in generale false friends, inconsciamente abusati dalla stampa nostrana. L'aspetto però che maggiormente colpisce in questo articolo è la anticipazione dei pericoli che si celano dietro la cosiddetta “neolingua”, il dogma della società benpensante che governa l'Occidente. Evola irride questo buonismo nella comunicazione, sottolineando che più che di rivendicazioni identitarie, si dovrebbe parlare di abdicazione. Decenni or sono, egli aveva già compreso come il Cavallo di Troia progressista stesse passando proprio attraverso il linguaggio: “Uno dei più tristi spettacoli che, in vasti settori, è presentato dall'Italia attuale è quello di una supina scimmiottatura di tutto ciò che è americano” (p. 72).

Il secondo scritto si intitola La suggestione negra (Il Conciliatore, aprile 1968). In piena Contestazione, con gli studenti di sinistra in America che andavano rivendicando il diritto delle minoranze, senza porsi il problema di trovare una identità comune, il filosofo italiano sostenne senza mezzi termini che la sola forma di fertile convivenza è possibile quando “ogni ceppo viva a sé”, e non certo covando sentimenti astiosi, bensì “con rispetto reciproco” (p. 77). Sarebbe sufficiente questa ultima affermazione per smontare, per la ennesima volta, la faziosa e scorretta interpretazione del pensiero evoliano come razzismo tout court, ignorandone in malafede la giusta esegesi. Una “selezione spirituale”, questa era invocata da Evola, il quale mai giudicava l'importanza di una civiltà in base ai danari custoditi nelle sue banche o alla altezza dei suoi palazzi, bensì nella profondità del suo rapporto col mondo e la Natura: “I pellirosse erano razze fiere, per nulla deteriori – e non è un paradosso affermare che se fosse stato il loro spirito ad improntare in misura sensibile quella forza psichica formatrice […] il livello spirituale degli Stati Uniti sarebbe probabilmente assai più alto” (p. 63).

Non vi è dubbio che nel sacrosanto tentativo di far uscire Evola dal ghetto politico nel quale è stato confinato per tanti anni da una sinistra culturalmente egemonizzante, alcuni studiosi non affini al Pensiero Tradizionale abbiano cercato di “leggere” questo filosofo in una prospettiva nuova, ciò non vuole dire automaticamente esatta. In particolar modo, secondo taluni ancora radicati nella idea assolutamente inattuale di proletariato, che si concretizza in uno scoordinato e impulsivo antiamericanismo, l'appoggio dato a suo tempo da parte di Evola all'entrata dell'Italia nella NATO nel 1949 ha rappresentato una palese contraddizione. Nulla di più errato. Contrariamente alla opinione di alcuni giovani marxisti suggestionati – chissà poi se in modo spontaneo o solamente per sembrare originali e contro corrente – dal pensiero di Evola, egli ha ben chiarito i motivi di questa sua presa di posizione: “Così il fatto che materialmente e militarmente non possiamo per ora non appoggiarci allo schieramento 'atlantico' non dovrebbe portarci a farci sentire fra noi e l'America una minore distanza interiore di quella che ci separa dalla Russia” (p. 67). Qui sta la differenza tra un antiamericanismo destrutturato e quello evoliano, il quale è attento a ogni sfumatura sociale e consapevole che per liberarsi dalla influenza statunitense non servono le piazze, ma la rivolta di ogni singolo individuo.

In aggiunta, l'Unione Sovietica di un tempo era giudicata dal grande filosofo della Tradizione pericolosa soltanto sul piano materiale, mentre gli USA pure su quello spirituale visto che essi sono stati capaci di imporsi nel “dominio della vita ordinaria”. Trattasi di una differenza di  primaria importanza, che sarebbe stato opportuno tenere a mente in questi ultimi decenni, incoraggiando così una analisi complessa del “male americano”, per dirla con Alain de Benoist, che è un concetto trasversale in chiunque sia consapevole di quella che Evola definì la “demònia della economia”; una tesi intuita a suo modo persino da un marxista antimoderno come fu Pier Paolo Pasolini, e che venne espressa nella sua celebre intervista televisiva a Ezra Pound del 1968. Sempre de Benoist traccia il profilo del “nemico principale”, reso ancor più forte da una notoria visione europeista dell'americanismo, concepita come ideologia acritica filo-statunitense. Lo studioso francese non ha dubbi su chi sia l'avversario da contrastare.

“[...] il nemico principale è semplicemente quello che dispone dei mezzi più          considerevoli per combatterci e riuscirci a piegare alla sua volontà: in altre         parole è quello che è più potente. Da questo punto di vista, le cose sono chiare: il nemico principale, sul piano politico e geopolitico sono gli Stati Uniti     d'America”(Alain de Benoist, L'America che ci piace, in Diorama Letterario,      n. 270, p. 3).

Va comunque chiarito che per de Benoist si tratta di: “un avversario del momento”, e non della incarnazione del male; qui sta la profonda differenza con una interpretazione di stampo evoliano della questione. Ovviamente, si tratta di pensatori appartenenti a epoche diverse: l'italiano viveva in un mondo bipolare, sempre sotto la minaccia di una guerra nucleare; il transalpino, dal canto suo, è conscio che bisogna – seppur a malincuore – rapportarsi con una struttura politica di tipo europeo e con l'Occidente più in generale, specialmente quando, come sta avvenendo, quest'ultimo è messo in pericolo da un possente rigurgito di fanatismo islamico che potrebbe minarne il futuro.Ro 2

Non è un mistero che Evola abbia spesso evidenziato come americanismo e bolscevismo siano facce di quella stessa medaglia che è in netta contrapposizione con una concezione tradizionale della esistenza. In breve, i primi due lavorano sulla massa, mentre la seconda sull'Individuo. Non è perciò un caso che negli articoli qui raccolti egli reiteri la somiglianza tra queste due forme di totalitarismo. Per lui, l'“uomo americano” è un moderno schiavo, un semplice “animale da produzione” (p. 54). Ma questo alla fine non è anche un aspetto che ha connotato il Socialismo Reale? Nelle grandi aziende statunitensi vige quella che Evola ricorda essere una “managerial autocracy” (p. 55): un dispotico governo del guadagno, alimentato dalla amministrazione delle vite dei dipendenti. Pure nei regimi sovietici vennero create grandi industrie, allontanando l'uomo da qualsivoglia forma di autodeterminazione. Tuttavia, il comunismo perseguì questo annientamento dell'Io con sistemi prettamente ideologici; gli americani, invece, camuffando una dittatura economicistica dietro la bandiera della libertà, la quale cessa di esistere non appena si diventa poveri. Questo è il paradosso della democrazia americana esplicitamente messo alla berlina da Evola: una struttura sociale assai più chiusa ed elitaria di quanto si è fatto credere alla opinione mondiale, grazie a dei media compiacenti.

Si è precedentemente accennato alla complessità dell'antiamericanismo di Evola. Infatti, egli non cade nella trappola banalizzante di una virulenta opposizione all'imperialismo statunitense, e non certo perché questo non esista, ma per la semplice ragione che non si tratta del vero problema, del motivo per il quale lo sposare il modello di vita americano si sia rivelato letale per i Paesi europei, e per l'Italia in particolare. Secondo Evola, quello che caratterizza in profondità la società USA è la sua anima primitiva, “negra”. L'immigrazione delle genti dall'Africa ha completamente azzerato l'unico elemento culturale realmente positivo e autenticamente americano: i paladini dei diritti umani lo definiscono col termine dispregiativo di WASP (“White Anglo-Saxon Protestant”), quando chi conosce in modo più accorto questa nazione lo individua come base del movimento filosofico-letterario noto come Trascendentalismo Americano; quello di Ralph Waldo Emerson e Henry David Thoreau, tanto per intenderci. Sarebbe a dire, la sola espressione intellettuale autoctona mai prodotta dagli Stati Uniti, in virtù della sua anima inglese e protestante, che secolo dopo secolo è stata cancellata dall'immigrato di colore. Evola considera persino la musica Jazz – da tempo apprezzata in Occidente come Alta – quale involuzione verso uno stato dell'essere selvaggio e istintivo, dunque primitivo.

In base a quanto detto sinora, non è difficile comprendere come quelli messi assieme in questa raccolta siano da giudicare degli autentici articoli di “difesa” non tanto contro la invasione “fisica” – si pensi alle numerose basi statunitensi dislocate sul nostro Paese – ma specialmente culturale americana; non è appunto un caso che la maggior parte di tali scritti risalgano al Dopoguerra, con l'Italia ridotta a un mero Stato vassallo all'interno dello scacchiere geopolitico della NATO. La società in cui viviamo è stata deformata, così da adattarsi a uno stile di vita palesemente allogeno, con la complicità di governanti che lo hanno imposto come unico modello di riferimento. Di ciò, Evola è assolutamente consapevole; lo stesso non si può sfortunatamente dire del nostro Popolo.

In forza di una lettura approfondita del sistema americano, Evola non manca praticamente mai di palesarne gli “stratagemmi” per imporsi in modo transnazionale, dimostrando attenzione anche verso taluni esponenti in possesso di una visione critica della modernità, benché appartenenti allo stesso mondo anglosassone: è il caso del suo riferimento al politico e studioso britannico James Bryce (1838 – 1922).  Il filosofo italiano ne riporta una frase, “to mistake bigness for greatness”, che sintetizza perfettamente il regno della quantità instaurato in ogni settore della vita dalla cultura americana; persino in uno così particolare quale la museologia, visto che l'arte vive ormai di dimensione e numeri e non più di sostanza! Triste è prendere atto di come nessuno dei cosiddetti specialisti abbia mai colto la essenza della frase di Bryce che è sì breve, ma totalmente esaustiva nell'esprimere quella che è per Evola: “[…] solo grandezza appariscente” (p. 65).

Smascherare la democrazia, questo sarebbe uno dei tanti modi per riassumere il senso ultimo di tali articoli; cercare di andare oltre quello che ci è stato fatto credere, così da scoprire una verità necessaria: “[...] se alla democrazia si togliesse la maschera, se si vedesse chiaro in che misura la democrazia, in America come altrove, è solo lo strumento di un'oligarchia sui generis la quale segue il metodo dell''azione indiretta' assicurandosi possibilità di abuso e di prevaricazione assai maggiori di quelle che comporterebbe un giusto sistema gerarchico lealmente riconosciuto” (pp. 57-58). Può sembrare assurdo sostenere che la democrazia sia niente altro che una moderna forma di schiavitù. Eppure, se si ha la volontà di aprirsi al dubbio, alienando da sé il dogma del contemporaneo, cercando risposte altre; in questo caso gli scritti evoliani di cui si è parlato possono fornire un prezioso strumento di liberazione individuale.

In conclusione, questa raccolta di testi dedicata alla (non-)cultura americana dovrebbe rappresentare a nostro avviso un livre de chevet per chiunque senta la pulsione di emanciparsi dalla menomazione spirituale imposta dall'odierno sentire comune. Per chi percepisce che l'homo oeconomicus propugnato dalla politica statunitense – nessun Presidente escluso – sia niente altro che colui che si inginocchia: “[...] quando ammira l'America, quando si fa impressionare dall'America, quando si americanizza stupidamente ed entusiasticamente, credendo che ciò significhi essere liberi, non retrogradi pronti a mettersi al passo con la marcia inarrestabile del progresso” (pp. 65-66), allora non esiste probabilmente libro migliore al quale rivolgersi che questo. Vero, per Evola capitalismo e comunismo sono “lo stesso male”. Vi è una sostanziale differenza che va comunque rimarcata. È evidente a tutti come il secondo sia stato sconfitto dalla Storia, sconfessato in ogni sua forma. Per converso, il capitalismo è oggi più forte che mai e per ostacolarlo in modo strutturato è necessario prima comprendere la perversa sostanza di cui è composto. L'auspicio di Evola era quello di riportare l'America al: “suo rango di provincia” (p. 71). Magari era ed è una semplice illusione. Se però ognuno di noi si impegnasse in una rivolta interiore e non ideologica; in questo caso, oltre alla forza bruta, al modello americano non resterebbe altro (da Studi Evoliani).

Riccardo Rosati

(Julius Evola, Civiltà americana. Scritti sugli Stati Uniti 1930-1968, a cura di Alberto Lombardo, Controcorrente, Napoli 2010. € 10)

Sull’origine della visione economica in René Guénon – Daniele Dal Bosco

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Fritz Stoltenberg 1895

«La stessa vita economica si compone di un corpo e di un’anima, e fattori interni morali, ne hanno sempre determinato il senso e lo spirito. Tale spirito […] va distinto dalle forme di produzione, distribuzione e organizzazione dei beni, esso può variare e, a seconda dei casi, dà al fatto economico una portata e un significato del tutto diverso. Il puro “homo oeconomicus” è una finzione oppure è il prodotto di un’evidente specializzazione degenerativa. […] In essenza, si tratta dunque di tornare alla normalità, ossia di ripristinare la naturale dipendenza del fenomeno economico da fattori interni, morali, e di agire su tali fattori» (J. Evola, Gli Uomini e le Rovine)

Nel novero degli autori della cosiddetta Tradizione, a partire dal suo moderno teorico René Guénon, si nota una quasi totale assenza di studi sull’economia, il che appare alquanto curioso considerando che una delle critiche principali rivolte dagli studiosi della Tradizione al mondo moderno, riguarda proprio la sua esasperata “quantificazione”, il suo portare tutto al numero, alla quantità: un Entzauberung weberiano. E nella struttura sociale, delle tre tradizionali sfere, è proprio quella economica ad essere per sua stessa natura, almeno in parte, quantitativa. È Rodney Blackhirst ad aver fatto notare, attraverso la rinomata rivista tradizionale Sacred Web (Sacred Web n.14, 2004), nel suo articolo Capitalism, Tradition and Traditionalism, come nel mondo tradizionale non sia stato solitamente approfondito lo studio del capitalismo, forma economica della modernità, mentre vi siano stati alcuni studi critici sul socialismo (1).

Ma come si può spiegare tale assenza, tra gli studiosi della Tradizione, di una approfondita analisi del summum bonum economico? La visione guénoniana di una tradizione puramente metafisica, basata sulle verità del mondo dei princìpi, ha senza dubbio influito sull’assenza di studi, nell’ambito tradizionale, delle sfere sociali “orizzontali” e puramente “fisiche”, definite da Guénon “profane”, quali le sfere economica, politica, giuridica e scientifica. Scrive Guénon: «Dal momento che tutto ciò che è di ordine esclusivamente umano non può, proprio per tale ragione, essere legittimamente qualificato tradizionale, non può esistere, per esempio, una «tradizione filosofica», o una «tradizione scientifica», nel senso moderno e profano della parola; né, ovviamente, può esistere una «tradizione politica», per lo meno in luoghi dove manchi completamente un’organizzazione tradizionale, com’è il caso del mondo occidentale attuale». E ancora: «Fra tutte le cose più o meno incoerenti che oggi si agitano e si urtano, fra tutti i «movimenti» esteriori, di qualunque genere siano, non è dunque assolutamente il caso, dal punto di vista tradizionale o anche semplicemente «tradizionalistico», di «prender partito», come si usa dire, perché ciò significherebbe soltanto lasciarsi ingannare, e, considerato che in realtà sono sempre le stesse influenze ad esercitarsi dietro tutte queste cose, intervenire nelle lotte volute da esse e da esse invisibilmente dirette equivarrebbe propriamente a fare il loro gioco; in queste condizioni, il semplice fatto di «prender partito» corrisponderebbe di per sé, per quanto inconsciamente, ad un atteggiamento veramente antitradizionale» (R. Guénon, Il Regno della Quantità e i Segni dei Tempi, Adelphi, Milano 2010, pp.208- 210).

Ora, per quanto sia ben chiarito da Guénon, nei suoi scritti, cosa non è Tradizione, non ci pare esserlo altrettanto cosa è Tradizione (2). Se è vero infatti che è tradizionale, nella visione guénoniana, ogni pensiero, parola ed azione riconducibile alla conoscenza dell’intelletto puro (nous, spirito) e che riguarda, quindi, i princìpi o Idee, non è tuttavia esplicitamente espressa la modalità per distinguere, con certezza, quale conoscenza sia effettivamente riferibile a tale piano intellettuale puro e quale non lo sia. Egli inoltre considera come tipicamente tradizionale la possibilità del superamento dell’Essere, nel Non-Essere: fatto quest’ultimo che contraddistingue il pensiero tradizionale rispetto al pensiero filosofico, secondo Guénon. Il che è alquanto discutibile: vi sono pensieri che Guénon riterrebbe tradizionali, quali quello tomistico, che fanno coincidere l’Essere con l’Infinito; così come all’opposto vi sono visioni filosofiche che indagano esplicitamente l’Infinito oltre l’Essere, si pensi ad esempio alla tendenza romantica verso l’Infinito tipica dell’idealismo tedesco.

D’altra parte, se si può essere d’accordo con Guénon sulla assenza di una conoscenza metafisica pressoché totalesteiner nelle scienze naturali e sociali del mondo moderno, e della estrema ed irrazionale quantificazione in un ambito quale quello delle scienze sociali, per loro natura qualitative in quanto fondate su fattori psicologici e relazionali, ciò non significa tuttavia che non si possa, o non si debba, analizzare queste stesse sfere “profane” da un punto di vista tradizionale, quindi da un punto di vista metafisico (3). È questa analisi che è mancata, è ciò a cui ci riferivamo all’inizio dell’articolo e che è stato sottolineato, in una certa misura, da Blackhirst; un’analisi pratica, basata su una teoria realmente metafisica. Ma la domanda che vogliamo porci è la seguente: può esistere una metafisica, dei princìpi a priori, sulla sola base dei quali si può effettivamente governare in modo giusto, secondo il summum bonum, la società umana del nostro mondo fenomenico? John Stuart Mill, il cui pensiero in merito è espresso, nella sostanza, anche da Rudolf Steiner (in primis nel suo testo filosofico La Filosofia della Libertà) ma anche dalle tradizioni filosofica e scientifica nel loro complesso, ebbe a dire: «la tesi secondo la quale le verità esterne alla mente possano essere conosciute […] indipendentemente dall’osservazione costituisce […] il grande sostegno intellettuale delle false dottrine e delle cattive istituzioni» (J.S. Mill, Autobiografia, Laterza, Roma-Bari 1976, p.176).

In sostanza, per Mill, la metodologia corretta per le scienze sociali non può prescindere dall’osservazione, e quindi dalla storia. In tal senso la sua visione metodologica è in netto contrasto con quella tradizionale guénoniana. La visione “negativa” di Guénon riguardo al manifestato è da ricercarsi, a nostro avviso, nella sua personale interpretazione della metafisica orientale, che egli considera tradizionale in senso generale, e nello specifico del concetto di Non-Essere. Il Non-Essere (o Zero metafisico) è per Guénon superiore all’Essere, e tuttavia non ancora Infinito. Questo stato metafisico tra l’Essere e l’Infinito è in qualche modo problematico, razionalmente parlando. La logica sottostante alla definizione di un Non-Essere non Infinito, ma tuttavia sovraontologico, appare in netto contrasto con la logica dell’ontologia classica occidentale, risalente all’Essere di Parmenide (4). È d’altra parte, quella di Guénon, una concezione non propriamente vedantica del Non-Essere: nelle Upanishad, il Non-Essere è Brahman Nirguna o Parabrahman, l’Assoluto o l’Infinito, l’Essere uno non qualificato e non determinato, e non una sua derivazione complementare all’Essere; e l’Essere in sé è Brahman Saguna, Īśvara, prima determinazione qualificata (5). In modo analogo, Plotino, forse il massimo esponente della metafisica tradizionale occidentale, non pone alcuno stato metafisico tra l’Uno e l’Essere (6).

648288533[1]La considerazione di un Non-Essere distinto dall’Infinito, ma tuttavia superiore all’Essere, è il fondamento di ogni nichilismo metafisico ma anche di un nichilismo logico-gnoseologico escludente una parte della Realtà intera, o trascurante come secondaria una parte della Realtà intera. Quest’ultimo caso è quello di Guénon, nei riguardi del manifestato: laddove si ponga un Non-Essere non Assoluto come superiore all’Essere, l’Essere ed ogni sua manifestazione non possono che venir percepiti, consciamente o meno, come originanti dal “nulla”, il che rende essi stessi partecipanti del “nulla”. La maya indù, velo tra Brahman e manifestato, diviene di fatto in Guénon velo tra Non-Essere e manifestato, apparenza di Non-Essere, apparenza di “nulla”, per quanto egli affermi il contrario (vedi nota 5). Per Plotino, diversamente, il non essere non è uno stato metafisico henologico bensì un modo di intendere la materia nel suo essere indifferenziata: non essere come modalità non ontologica opposta all’Uno.

È questa concezione del Non-Essere l’origine metafisica, a nostro avviso, della assenza di studi delle scienze sociali e naturali nell’ambito tradizionale moderno di stampo guénoniano. D’altro canto, proprio per l’assenza del concetto henologico di Non-Essere, l’Occidente ha visto nascere nel suo seno le forme di analisi scientifica, tipicamente e necessariamente di stampo razionale filosofico. Filosofia che è ben lungi dall’essere basata su una forma di «razionalità inferiore»: si deve piuttosto considerare la filosofia occidentale secondo lo schema aristotelico e tomistico che suddivide l’intelletto in intelletto agente o attivo ed in intelletto possibile o passivo, dove se il primo è da riferirsi alla definizione di intelletto puro di natura spirituale, il secondo è l’intelletto filosofico o ratio filosofica, che sulla prima forma di intelletto si deve basare per natura, essendone l’affermazione razionale. Se ciò non avviene, il pensiero cade nell’irrazionale, nella forma-pensiero somatica (7).

In tal senso, si può parlare correttamente di una tradizione filosofica, di una tradizione economica e di una tradizione politica. La specifica concezione metafisica del Non-Essere come stato sovraontologico, presente in Guénon e seguita nel mondo tradizionale, crea una enorme frattura nella percezione intuitiva del collegamento tra la “fisica” del mondo reale e la metafisica. Determinare i princìpi metafisici, ed esporli in modo razionale, non può che essere un atto filosofico. Laddove la filosofia ha proprio il compito di rendere razionali tali princìpi spirituali che di per loro, se non accordati con le osservazioni della realtà materiale e fisica, rimangono razionalmente indeterminabili.

Nel suo testo principale, già citato in precedenza, Guénon fa alcuni accenni all’ambito economico. Dapprima quando parla dell’alienazione a cui conduce l’industria moderna, lontana dalla sacralità del mestiere inteso in senso tradizionale (8); successivamente, nel capitolo dedicato alla degenerazione della moneta. In questa seconda parte Guénon pare non cogliere la natura più profonda della moneta, il che appare comprensibile considerando quanto detto sopra circa la frattura tra “fisica” e metafisica nella sua visione. Sin dai tempi dell’Etica Nicomachea di Aristotele, per lo meno, è chiaro che la moneta è innanzitutto unità di misura o, più precisamente, (unità di) misura del valore. Se è vero da un lato che la sua funzione di pura misura del valore è oramai del tutto inesistente, non essendo essa oggigiorno che una pura fiat money, sganciata da ogni connessione con l’economia reale, tuttavia la moneta non ha mai avuto alcuna funzione qualitativa, come pare invece sostenere Guénon: è sempre e solo stata usata come misura del valore, e di un valore dei beni e dei servizi, valore che è per definizione quantitativo. La qualità è casomai intrinseca non alla moneta, ma a ciò che viene prodotto e scambiato con tale moneta. La moneta è una pura misura quantitativa. Ciò non toglie che, effettivamente, è storicamente provato che la casta sacerdotale sia stata, in epoche passate, associata all’emissione della moneta; ma tale fatto, tuttavia, non ha nulla a che fare con la natura qualitativa della moneta, bensì piuttosto con questioni di ordine morale: tale casta era considerata moralmente quella più affidabile a garantire la giusta emissione monetaria. È lo stesso Guénon ad affermare nel prosieguo del testo, tuttavia contraddicendosi con quanto affermato in precedenza, che il problema della degenerazione non riguarda la moneta in sé, ma piuttosto il metodo di valutazione della “stima” applicata agli oggetti o ai soggetti che essa misura: «…si è comunemente arrivati a «stimare» un oggetto solo attraverso il suo prezzo, considerato unicamente come una «cifra», una «somma», o una quantità numerica di moneta; per la maggior parte dei nostri contemporanei, in effetti, qualsiasi giudizio su un oggetto si basa quasi sempre esclusivamente sul suo costo. Abbiamo sottolineato il termine «stimare» a causa del duplice significato che gli è proprio, qualitativo e quantitativo; oggi il primo significato è stato perso di vista, oppure, che è poi lo stesso, si è trovato il modo di ridurlo al secondo, ed è così che non soltanto si «stima» un oggetto secondo il suo prezzo, ma anche un uomo secondo la sua ricchezza».

Dopo aver giustamente profetizzato la caduta continua del potere d’acquisto della moneta, ma non per la caduta qualitativa della stessa, come egli riteneva, bensì per il mancato controllo della sua emissione, sganciata dall’economia reale, il Nostro prevede la dissoluzione totale «poiché la quantità pura si trova propriamente al di sotto di ogni esistenza». È quantomeno singolare anche questa concezione della quantità pura come «regno sub-esistenziale», dato che lo stesso Guénon sostenne la visione pitagorica e neo-platonica del Numero come essenza di tutte le cose. Non è forse piuttosto, tale regno sub-esistenziale, il regno dell’assenza di qualità o di “verticalità”? D’altra parte questo doppio uso del concetto di numero, come Ente metafisico e come “qualità” della materia indifferenziata, è conseguenza della concezione del Non-Essere come opposto all’Essere, e diverso dall’Infinito: l’esistenza di una tale diade principiale rende logicamente giustificabile la manifestazione di diadi secondarie, da essa derivanti, costituite non da due enti (qualità-quantità, essenza-sostanza, purusha-prakriti, ecc.) bensì da un ente e da un non-ente, quali appunto il Numero inteso come Ente metafisico ed il numero inteso come quantità pura sub-esistenziale.

La concezione guénoniana della non-dualità non è d’altra parte tipicamente tradizionale: nell’Advaita Vedanta, in particolare, la non-dualità riguarda il rapporto tra Atman e Brahman, tra Sé individuale e Assoluto, da intendersi come la possibilità che il proprio Sé superiore si possa unire a Brahman, divenendo uno con Lui poiché, metafisicamente, vi è sempre stato immerso. Tale concezione della non-dualità non coincide con quella guénoniana riguardante, invece, il rapporto tra Essere e Non-Essere; dove peraltro, come detto, questo Non-Essere non è inteso come l’Assoluto o l’Infinito, ma come una sua derivazione, tuttavia antecedente e complementare all’Essere. Ci pare altresì logicamente forzata l’affermazione di una complementarità tra Infinito e Possibilità totale (un ente quest’ultima il Non-Essere e l’Essere), la seconda costituente il lato passivo del primo: l’Infinito non potendo in alcun modo essere né complementare, né lato attivo di alcunché. Due concetti, peraltro, associati da Guénon rispettivamente ai termini Brahma e Shakti che indicano, piuttosto, l’Essere e l’Intelletto nella loro forma macrocosmica.l-uomo-e-il-suo-divenire-secondo-il-vedanta

Può apparire inappropriato, se non fuorviante, anche l’uso dei termini individualità e personalità effettuato da Guénon, laddove egli stesso ammette che il termine personalità derivi dal latino persona, ossia “maschera”, e tuttavia lo usi sovente come sinonimo di Sé. Rifacendosi in parte alla terminologia tomista, egli afferma che «Invece dei termini «Sé» e «io», è possibile anche usare quelli di «personalità» e di «individualità», con una riserva tuttavia, poiché il «Sé», come spiegheremo più avanti, può essere ancora qualche cosa di più della personalità. I teosofisti, che sembrano essersi divertiti ad ingarbugliare la loro terminologia, attribuiscono alla personalità ed alla individualità un senso esattamente inverso a quello in cui vanno correttamente intese: essi identificano la prima con l’«io» e la seconda con il «Sé». Al contrario, prima di loro, anche in Occidente, ogni qualvolta una distinzione è stata fatta fra queste due parole, la personalità è sempre stata considerata superiore all’individualità, ragione per cui diciamo che questo è il loro rapporto normale, ed è vantaggioso conservarlo. La filosofia scolastica, in particolare, non ha ignorato tale distinzione, ma non sembra averle conferito il suo pieno valore metafisico, né averne tratto le profonde conseguenze che vi sono implicite; ciò d’altronde accade frequentemente, anche quando essa presenta somiglianze notevolissime con certi aspetti delle dottrine orientali. In ogni caso, la personalità, intesa metafisicamente, non ha niente in comune con quello che i filosofi moderni chiamano sovente la «persona umana», che in realtà è soltanto l’individualità pura e semplice; del resto, solo questa, e non la personalità, può essere propriamente chiamata umana» (R. Guénon, L’uomo e il suo divenire secondo il Vedanta, Adelphi, Milano 1992, pp.27-28). Eppure il termine individuus risale a Cicerone, che così tradusse l’ ἄτομος (átomos) greco, l’ente indivisibile e originario, e che contrapponeva a dividuus (9). Anche tale uso dei termini da parte di Guénon contribuisce, a nostro avviso, alla sua visione “profana” riguardo ad ogni forma di interazione materiale: se l’individualità è l’”io empirico” allora l’individuale, in quanto “interesse del singolo individuo”, può essere facilmente percepito esclusivamente nella sua declinazione egoistica.

È per tale fraintendimento metafisico che la visione guénoniana della moneta viene ridotta al mero e profano aspetto di mezzo di scambio: che è in effetti una delle funzioni della moneta, ma secondaria rispetto a quella di misura del valore; la moneta intesa come puro mezzo di scambio è una moneta priva della sua radice metafisica concettuale, che è la moneta in quanto misura del valore, ed in tal senso risulta desacralizzata. Se vista solo come mezzo di scambio, la moneta viene intesa di fatto come un bene qualsiasi, un mezzo come un altro usato al fine dello scambio. È tale visione che può far pensare ad una “caduta di valore” della moneta, quando in realtà essa stessa è ciò che misura il valore, ha cioè una funzione puramente quantitativa. Se è vero, infatti, che la moneta odierna non è una corretta misura del valore, dato l’enorme (e molto più ampio rispetto ai tempi di Guénon) divario tra quantità di moneta e valore dell’economia reale, ciò tuttavia non toglie che la moneta in sé sia una misura della quantità, e che di per sé non abbia nulla di qualitativo insito nella sua natura; si può al limite parlare di caduta della qualità della modalità della sua emissione, ma non della moneta in quanto tale (10).

Questa frattura tra metafisica e mondo reale, presente in Guénon e causa della sua presa di distanza dai fenomeni profani, è ben espressa da Massimo Scaligero allorché, riferendosi a Guénon, afferma che «nella costituzione interiore dell’uomo moderno è presente la frattura che gli fa apparire la Tradizione come un esteriore corpus dottrinario-rituale e non come una corrente di vita superumana nella quale gli sia dato immergersi per re-vivere: nell’uomo moderno vive l’errore che separa il trascendente dal mondo dei sensi, così che egli percepisca questo come privo di Divino». E ancora: «La percezione dei sensi non è nulla di mayico o di illusorio: essi agiscono giustamente, l’uomo ne fa un uso «sensuale»» (M. Scaligero,L’opera e il pensiero di René Guénon, 1950¹¹).

Appare paradossale che il principale critico novecentesco della modernità dia egli stesso l’impressione, secondo la lettura di Scaligero da noi condivisa, di inciampare nella frattura tipica del mondo moderno, facendola trasparire dalla sua stessa visione tradizionale che finisce per essere, di fatto, dualistica. E che non è la Tradizione vivente proposta da Scaligero, sulla base dell’insegnamento steineriano, Tradizione quest’ultima che include anche il mondo fenomenico della modernità come parte della Realtà degna del Divino, senza condannarlo attraverso prese di posizione apparentemente ortodosse: ciò spiega l’attenzione che Steiner dedicò anche a discipline “profane”, quali l’economia, in numerose sue conferenze.

«The strength and adaptability of genuine traditions is not to be confused with the “invention of tradition”. Where the old ways are alive, traditions need be neither revived nor invented» (E.J. Hobsbawm, The Invention of Tradition)

Note 1 In Italia, meritano un approfondimento a parte le incursioni nella “metafisica economica” dell’economista Luigi Amoroso e del suo allievo Giuseppe Palomba. 2 «The term traditional is perhaps even more vague than modern. It is generally understood in contrast to modern. Whatever was deeply ingrained in society prior to modernization is traditional. Indirectly, the traditional is understood in terms of European history, since the traditional is defined in contrast to the modern, which in turn can only be understood with reference to European culture. To call a non-Western society traditional is therefore to claim that it is similar in important ways to Europe before the Reformation. In contrast to modernism, traditionalism could be used to designate any movement of resistance to modernization, or the view that pre-modern societies are superior to modernized societies. In this sense, one speaks not of traditionalism per se, but of Catholic traditionalism, Russian traditionalism, etc. Since it would be extremely implausible to advocate an absolute traditionalism, i.e., the thesis that modernity is always worse than whatever it replaces, Coomaraswamy and Guénon introduced the notion ofauthentic traditions as those rooted in divine revelation. They claimed that there were common features to be found across pre-modern societies, whether aboriginal, Christian, Islamic, Hindu, Taoist or Buddhist. It is the common features of these societies that are called tradition, and the advocacy of these features over those of modern societies is Traditionalism. Thus, traditionalism includes a thesis of a specific form of religious pluralism, that all the authentic religious traditions are divinely inspired and are at the innermost core the same, as well as a cultural thesis that asserts that the cultural institutions of societies dominated by authentic tradition are justified as reflections of Tradition. Both of these theses are dubious» (H.M. Legenhausen, Why I am not a traditionalist, tratto dall’indirizzo internet http://www.religioscope.com/pdf/esotrad/legenhausen.pdf/; cfr. anche H.M. Legenhausen, Islam and Religious Pluralism). 3 «Nothing can be retained solely for the reason that it is traditional, and nothing can be rejected solely because it is modern, whether in doctrine, economics, social institutions, forms of cultural expression, or whatever. Consider computerization. Dr. Nasr condemns this as modern and untraditional. No doubt there is much about computer use that clashes with Islamic aims and values. To a large extent, however, it is unavoidable. On the other hand, there is much in computer use that serves Islamic aims, e.g., accessibility to information and facilitation of research, not to mention the more specifically Islamic applications, such as Islamic software, Islamic internet groups and magazines, searchable databases of ahádíth, etc.. Traditionalist reasoning is valuable when it points out aspects of modern culture and technology that conflict with Islamic principles in ways that would ordinarily pass without notice» (ibid.). 4 «…Orbene io ti dirò, e tu ascolta accuratamente il discorso, quali sono le vie di ricerca che sole sono da pensare: l’una che “è” e che non è possibile che non sia, e questo è il sentiero della Persuasione (infatti segue la Verità); l’altra che “non è” e che è necessario che non sia, e io ti dico che questo è un sentiero del tutto inaccessibile: infatti non potresti avere cognizione di ciò che non è (poiché non è possibile), né potresti esprimerlo.… Infatti lo stesso è pensare ed essere» (Parmenide, Sulla Natura, II, III). 5 È Guénon stesso ad affermare, d’altra parte, che la sua concezione del Non-Essere è una sua propria invenzione per quanto “ispirata” da una concezione orientale che tuttavia, come accennato nel nostro testo, ha ben altro significato: «Per designare ciò che è pertanto al di fuori e al di là dell’Essere, siamo costretti, in mancanza di ogni altro termine, a chiamarlo Non-Essere; e tale espressione negativa, che per noi non è in alcun modo sinonimo di «nulla» – come nel linguaggio di certi filosofi – oltre ad essere direttamente ispirata dalla terminologia della dottrina metafisica estremo-orientale..» (R. Guénon, Gli stati molteplici dell’Essere, Adelphi, Milano 2012, p.39). Ci pare altresì fuorviante l’associazione fatta da Guénon tra il suo concetto henologico e quindi macrocosmico di Non-Essere ed il concetto taoista wou-wei che è tipicamente inteso come “assenza del sé” ossia come liberazione completa o Nirvana, tradotto talvolta come “non agire”, che è invece un concetto squisitamente individuale e microcosmico: «Nel Non-Essere, l’assenza di costrizione non può che consistere nel «non agire» (il wou-weidella tradizione estremo-orientale)» (ibid., p.145). 6 Tuttavia anche in Plotino la seconda ipostasi dell’Essere è riferita simultaneamente a Logos e ad Intelletto, il che può generare qualche fraintendimento; inoltre, l’Uno di Plotino non è da confondersi con l’Uno di Guénon, che è in realtà usato come sinonimo dell’Essere o Zero affermato. 7 «[…] la definizione espressa dallo Hegel sull’essere la Filosofia “…la considerazione esoterica di Dio…” […] ha tutto in comune invece con quanto Evola stesso ha poi perseguito ed indicato come Via iniziatico-solare, di natura platonico-apollinea, per la riacquisita consapevolezza dell’autentica natura dello spirito in quanto realtà Divina trascendentemente immanente che è come dire la realtà dell’Individuo Assoluto. Allora è d’uopo affermare, senza alcun timore, che sia in Evola che in Hegel, riappare, in piena modernità, il senso e il significato greco della Filosofia, strumento per il conseguimento del Risveglio, che è la rinascita, dopo la caduta, in quanto anamnesi di ciò che si è sempre stati e non lo si è saputo (ignoranza come avidyā), quindi come riconquista di un sapere che coincide con l’essere in senso ontologico. Talché essa è Scienza Sacra in senso eminente e quindi autentica Tradizione, avente ad “oggetto” solo ed esclusivamente il Divino, che è la Verità in quanto essenza e dell’uomo e del Mondo, come Cosmo; è Sapere per pochi, è gnosi, è Teosofia, conoscenza di Dio che si rivela, nel percorso iniziatico-filosofico, come Teofania, significando ciò il rammemorare la consapevolezza quale Sapere, aldilà ed oltre sia il Mito che il Simbolo (livelli di conoscenza sapientemente riconosciuti, sia da Evola che da Hegel, inefficaci ai fini della scienza, in relazione allo stato intellettivo-noetico puro che è l’apollineo), che il Dio è “oggetto” da superare, da negare, per “osare” essere Lui! Tale identificazione, sia in Hegel che in Evola, è la stessa autoconoscenza del Sé che è l’Assoluto nella sua natura solare, in totale estraneità, pertanto, ad ogni confusione panteistica e ad ogni vedantino acosmismo spirituale» (G. Casalino,Evola ed Hegel: il concetto di Filosofia, consonanze e divergenze, relazione tratta dall’indirizzo internet http://www.fondazionejuliusevola.it/ DocumentiConvegni/Alatri_2010/relazione_Casalino.pdf). 8 Si può notare una qualche assonanza tra la visione economica di Guénon e quella dei fisiocratici francesi del XVIII° secolo riguardo alla critica nei confronti dell’attività industriale, così come in merito alla predilezione per una società guidata da uno o pochi “spiriti illuminati”. 9 La dicotomia ciceroniana usata dai teosofi ci pare ripresa, tra gli altri, anche da R. Steiner, O.M. Aivanhov e R. Assagioli nel loro definire i termini individualità e personalità, in un modo sostanzialmente opposto a quello guénoniano. La dicotomia usata da Guénon non è tuttavia da confondersi con i concetti di persona e di individualità di origine tomista, laddove il primo termine indica «un individuo sostanziale..ed è di natura razionale» (S.Tommaso d’Aquino, Commentum in quattuor libros Sententiarum, liber III, dist. VI, q1, a1, sol. I; 1254-56), e l’individualità, come si intende dalla definizione, una sua proprietà. Pare che Noële Maurice-Denis, la studiosa tomista che Guénon conobbe nel 1915, avesse affermato, riferendosi a Guénon: «Certo la sua ignoranza, la sua incomprensione del Cristianesimo erano totali» (cfr. M.-F. James, Ésotérisme et christianisme. Autour de René Guénon, 1981). 10 Ci riferiamo alla modalità di emissione a debito (moneta-debito) sia del dollaro americano, valuta di riserva internazionale dell’economia moderna post Bretton Woods, sia delle altre principali valute nazionali. Pare che tale modalità di emissione risalga, per lo meno, ai tempi dell’antica Babilonia.

Julius Evola – Antimodernità, Tradizione, Scienza dell’Io… Palermo, 27 Febbraio ’16

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Intervento di Roberto Incardona su Evola, Mithraismo e Iniziazione

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Polemos o il superamento della postmodernità – Progetto Polemos

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Po 1

Nel suo puntuale saggio Autorità ed entropia, pubblicato all’interno del secondo volume di Polemos (http://polemos.eu), Andrea Venanzoni considera la realtà contemporanea nel suo configurarsi come un vasto campo di dispersione di significati e fenomeni in un caos socio-linguistico burocratico. Al fine di assicurare un nucleo vivo al collasso di questo stato di cose, «deve rimanere una camera sacra chiusa alla comunicazione con l’esterno, ove giaccia il significante del nuovo Ordine». In ultimo questo significa: forzare la mano alla distruzione dei principi del 1789.

Le righe che seguono insistono brevemente su questo tema. Insistere vuol dire: mantenersi all’interno del perimetro e consolidarlo, in funzione di un rafforzamento e soprattutto di un contrattacco, nel momento di radicamento delle idee e dei principi, preparando l’uscita dal bosco, pena un processo lento e inesorabile di irrigidimento nell’autoreferenzialità - vizio estremo di chi porta all’eccesso i confini, facendoli diventare “ghetto”.

La città contemporanea è evanescente, non sembra avere confini reali, si distende ed esaurisce nei dintorni al di là della periferia, disperdendosi in qualcos’altro di ancora indistinto. Più la città s’ingrandisce, più questo carattere di vacuità si amplia, fagocitando ciò che sta intorno. È ormai abituale l’argomentazione secondo cui questo è il naturale evolvere delle cose.

La globalizzazione ha ormai portato con sé l’appiattimento dei luoghi e delle popolazioni; è quindi normale lo slittamento della realtà cittadina verso qualcosa di astratto e impalpabile. Il senso di appartenenza gradualmente si è esaurito. L’identità di una città, e quindi di coloro che la abitano, si disperde e disgrega a causa dello sfiguramento demografico, architettonico, sociale. Quello che vale per le città, vale naturalmente per gli Stati e quel che resta del loro potere. Non esistono confini né frontiere reali, non esistono distinzioni e tutto è diventato computabile secondi astratti canoni economici.Po 2

Il potere statale si articola poi secondo una dicotomia perversa e lacerante: forte e repressivo verso il cittadino autoctono, facilmente tracciabile, regolarmente schedato e ipertassato; estremamente tollerante - sin dai presupposti ideologici - verso l’irregolarità di coloro che sarebbero chiamati a colmare il crollo demografico, verso i “devianti” di tutte le origini e provenienze, verso coloro che godono di protezioni importanti e via elencando.

In questa che è la realtà quotidiana della maggior parte degli europei oggi, il senso di appartenenza viene meno. Il fondamentale istinto territoriale viene estirpato dai processi universalistici e, con lo sradicamento, si ha anche uno svuotamento della forza. Oggi si elogiano ovunque i deboli, gli arrendevoli e gli insicuri e le caratteristiche autentiche dell’uomo virile e virtuoso sono messe in secondo piano se non discreditate. Alla forza tranquilla si sostituisce l’arroganza, alla cultura si sostituisce il nozionismo take-away. Un uomo che non senta di appartenere a niente e a nessuno – forse neppure a se stesso – non ha identità e non ha doveri. Questo uomo, che riflette i caratteri della maggioranza delle persone oggi, crede di essere libero perché tutto gli è concesso, ma è soltanto un figurante impotente a cui è stato tolto ogni ruolo concreto. Sarebbe fuorviante confondere questo “non appartenere a nulla” con una forma superiore e spirituale di spersonalizzazione attiva e trascendente, di sublimazione e superamento delle eteronomie. Al contrario, questo dissolversi atomistico dell’uomo di oggi, procede entropicamente dalla sua estrema individualizzazione nella finta libertà, tanto che spesso, per colmare il suo vuoto, finisce con l’aderire ad identità sostitutive: mode, presunte controculture, velleità di ritorno alla terra in chiave anarchica e primitivista (ma che con l’origine nulla hanno a che fare).

È tipico di questi periodi di crisi il primato dell’opinione pubblica, il quale si esprime al massimo grado nell’emotività e nell’irrazionalità egocentrica di individui che si sentono nella condizione di criticare ogni cosa, al sicuro davanti a uno schermo. Sono quindi davvero rare vere forme di opposizione che, nonostante un generale svuotamento delle energie vitali, sono comunque il segno di un possibile risorgere di esemplarità. In taluni contesti basterebbe poco per cominciare a cortocircuitare il sistema imperante, il suo controllo pervasivo e il suo condizionamento. Bisognerebbe però riconoscersi in un ruolo concreto e agire attivamente, sorgere come uomini e non come marionette. In prima battuta si tratterebbe cioè di coagulare un gruppo umano attorno a un nucleo, rigenerare una sinergia solidale; ma per farlo bisognerebbe superare le comodità dell’individualismo e dell’egoismo. Assegnare un significato diverso alla vita di coppia, porre in secondo piano la rispettabilità sul lavoro, restringere il campo della pigrizia e del riposo. Se sui social si lanciasse un evento di contestazione e protesta, con tutta probabilità raccoglierebbe moltissime adesioni virtuali, andando pressoché deserto nella realtà. Il sistema delle comodità ha scavato talmente nel profondo da intaccare la tenuta interiore di chiunque, senza eccezione.

Viene da chiedersi per quale motivo simili defezioni non fossero diffuse tra i bolscevichi, tra i Freikorps o tra i legionari fiumani? Perché l’educazione, la disciplina di partito e militare, la prassi della “mobilitazione totale” derivante dall’esperienza bellica avevano rinvigorito l’essere umano, già in potenza migliore a quello contemporaneo, non contaminato da influenze mediatiche, dall’infiacchimento estremo della comodità e dell’edonismo senza fondo.

Come un simbolo contrario ed in opposizione a tutto ciò esistono ancora cittadelle costruite all’interno della cinta murarie di fortezze medievali. Attorno al perimetro collinare scorrono sottili torrenti e ponti di legno e pietra collegano i punti chiave della cittadella con l’esterno. Le mura delimitano, proteggono e racchiudono una ricchezza identitaria fatta di storia, cultura, arte. L’istinto immediato è quello di percepire una grande coesione, il pulsare di una vita autentica nelle vie di acciottolato e nelle piazze su cui dominano i campanili e i bastioni turriti. Anche le abitazioni rispecchiano questa realtà contenuta e ristretta, i tetti rispettano l’altezza delle torri di guardia e la vita quotidiana assume un ritmo sconosciuto alle città più grandi e dispersive. Forse è solo un’illusione momentanea, o il richiamo romantico di epoche andate, eppure l’estetica e la potenza delle cinta murarie trasmettono ancora un senso di radicamento territoriale e il dispiegarsi nel quotidiano del mito comunitario.

La fortezza è il simbolo della grandezza europea. In essa si riuniscono l’autorità, la forza, l’ingegno e l’arte che trascendono le campagne circostanti. La forza militare che la domina è una forza appartenente al territorio, gli uomini in armi sono i difensori del perimetro e iPo 3 garanti della prosperità cittadina. Già Platone assegnava ai Guardiani un ruolo fondamentale e allo stesso modo le milizie medievali conservarono un peso politico decisivo. L’uomo in armi, quale sia il suo rango, è l’uomo potente, è l’uomo che può decidere e modificare la realtà delle cose. L’uomo disarmato dipende dagli altri, è in balia degli eventi. Non a caso i lacedemoni assegnavano forza e potere di fare la guerra ad una sola ristretta cerchia di liberi, gli spartiati, proprio per non elargire con troppa facilità l’autorità che deriva dall’uso delle armi. Oggi, nell’entropia dei legami comunitari, la protezione della città e della popolazione è – teoricamente - demandata alle forze dell’ordine e alle presunte cure dello Stato, il quale in ultimo si preoccupa soltanto di proteggere il sistema.

Nel periodo di interregno attuale il margine reale di libertà di ciascuno si misura quindi dal grado di indipendenza dall’autorità “perversamente” costituita, dalla capacità e dalla volontà cioè di fare da sé, di difendere il proprio territorio e la propria libertà. Forza e virtù si troverebbero così di nuovo appaiate. La forza è energia oppositiva, spinge a compiere sortite fuori dalle mura “forti della propria forza” e del suo impatto estetico. Configura un dominio nel quale il perimetro, il confine, non diventa “ghetto” ma avamposto.

La realtà più concreta e viva a cui l’uomo di oggi possa sentire di appartenere è la comunità dei propri simili, la propria famiglia, il clan. Nella società globalizzata e senza confini, è nel ristretto e nel limitato che si può riscoprire l’autentico legame, l’identità profonda e una forza solidale e vitale. Una comunità costruita sull’esercizio della disciplina interiore e fisica, radicata in un luogo custodito e difeso ad ogni costo. Si comprende allora il senso dell’abitare una fortezza o un bastione che, come un faro, si staglia su una realtà quotidiana grigia e disgregata. Una moderna fortezza con le sue leggi e i suoi ordini, l’origine di una realtà differente dall’attuale, una crepa di selvaggia bellezza e di discordante armonia nel grigiore monolitico del mondialismo dominante.

Polemos III.2016

Le Vie al Sacro della Tradizione Classica – Gli Atti

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Locandina-ufficiale-8-Nov

Con la gentilissima collaborazione dell'Associazione Tradizionale Pietas e dell'omonima rivista, hanno finalmente visto la luce della stampa gli atti del convegno "Le vie al sacro della Tradizione Classica: Platonismo, Religiosità Greco - Romana, Misteriosofia", organizzato da EreticaMente, l'Associazione Il Cervo Bianco e La Casa di Mercurio, con il patrocinio ed il sostegno di altre comunità (Fondazione Evola, MTR, rivista Hellenismo, Edizioni Rebis, Edit@). Di seguito la copertina e l'indice dell'opera, che è possibile richiedere scrivendo alla mail info@tradizioneromana.org.

CopertinaIndice1Indice2

La consapevolezza necessaria: vivere la Nostra Tradizione nello Spirito – Giandomenico Casalino

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È oltremodo scandaloso, nonchè sintomatico della totale perdita di memoria storica da parte dell'uomo europeo, il fatto che un libro come la cosiddetta "bibbia", sia vetero che neo­ "testamentaria", proveniente dalla Giudea ed avente per oggetto esclusivamente i fatti e le vicissitudini, la cultura e le tradizioni di un piccolo popolo medio-orientale come gli Ebrei, comprese le dissociazioni eretiche da esso come la credenza galilea, sia da considerarsi il libro "sacro" dell'Occidente ed addirittura la "fonte" della nostra Tradizione, il "luogo" dei nostri Valori, della nostra visione del mondo, la "tavola" pedagogica su cui e con cui formare i nostri figli, il mezzo espressivo della nostra religiosità come atteggiamento nei confronti del Divino. La nostra Tradizione non ha libri sacri, non ha avuto bisogno e non ha bisogno di scrivere e di codificare ciò che per essa è evidente, gioioso e libero riconoscere: gli Dei e il Mondo.

Ciò non di meno, se vogliamo ritrovare noi stessi (bene ormai perduto) ed il nostro modo di vedere il Mondo, di ordinarlo e di amare in esso e con esso gli Dei (sue Forme), il nostro sentire più autentico, sia la Giustizia che lo Stato come Imperium, come istituzione sacra, legittimata dall'Alto ed avente il fine di elevare l'uomo verso il Divino; se vogliamo tentare di ritrovare l'unità, di cultura e vita, e di queste con la religio, con la nostra spiritualità più alta, aprendoci (di nuovo) al Mondo e alla Vita, allora tutto ciò, cioè la nostra Tradizione come Valori e Principii fondati sul Sacro, la nostra paidéia, come il nostro mos majorum, la nostra stessa coscienza, che per viltà non ascoltiamo, sono scolpite ab aeterno nell'opera somma di Omero e di Virgilio!

L'Iliade, l'Odissea, e l' Eneide: sono questi i libri Sacri della nostra Tradizione, poichè sono i libri della nostra stirpe! E sono Sacri nel modo e nel significato indoeuropeo di esserlo e non come accade nelle religioni orientali: monoteistiche, settarie e dogmatiche perchè fondate sul "libro" e perciò intolleranti.Casalino 2

In Omero e Virgilio vi è la libera e spontanea espressione della spiritualità e della religiosità, dell'epistéme del Bello e del Bene, della paidèia e del mos majorum, della nostra Tradizione Elleno-Romana. Noi stessi, la natura profonda del nostro essere, sono nella spiritualità di Omero e Virgilio, in quel modo di vedere il mondo. Vi è da aggiungere che l'intera Sapienza del mondo classico proviene certamente dagli Dei: gli eternamente Beati hanno rivelato ad Omero e Virgilio, Esiodo e Platone, Aristotele e Fidia, Plotino e Lisia, tutto il loro sapere; e questi uomini non erano tutti consacrati a dei Numi? E il carattere sacro dell'intera cultura greco-romana non è forse assicurato da Apollo-Helios, suo patrono e Nume della Luce e della Verità? Tanto che tale cultura, come forma interna, carattere innato sia dell'Elleno che del Romano, da sviluppare con la paidéia ed il mos majorum, è tutt'uno con la religione. Che non è devozionismo fideistico, ma conoscenza del Divino e ritualità cultuale per attuarlo.

I vari aspetti della Welthanschauung classica scaturiscono dalla necessità, da nessuno imposta bensì razzialmente sentita, di esprimere più pienamente l'Idea, la Visione del Divino nonchè il sentimento religioso. Poesia epica, lirica e drammatica, filosofia, retorica e storia, arte, politica e diritto sono unite indissolubilmente agli Dei Olimpii, anzi non sono possibili senza di loro. Non vi è la distinzione (introdotta dal cristianesimo) tra lettere sacre e lettere profane, poichè non vi è separazione tra vita civile e vita religiosa come non vi è alcuna forma né sociale né spirituale di dualismo.

Tale è il nostro patrimonio che, nel contempo, abbiamo perduto, abbandonandolo al significato astratto, borghese, calcolante ed anemico di cultura, scisso cioè dalla Vita: si insegnano ancora la poesia di Omero e di Virgilio, come la Filosofia di Platone (anche perchè tutto ciò che si è detto dopo di Lui, non è altro che un insieme di postille alla Sua sapienza...) e l'armonia e l'equilibrio dell'arte classica; ma, con diabolica sottigliezza, già nel IV sec. d.C., da parte della superstitio galilea che aveva preso il sopravvento, si iniziò ad insinuare, per poi imporre, che tutto poteva essere accettato della Tradizione Classica ma non la spiritualità, non la sua Visione del Divino, non i suoi Dei, indissolubilmente uniti alla Res Publica nel suo ordine giuridico-religioso, non, quindi, la sua Anima, realtà ormai "acquisite" con le lettere "sacre" cristiane; restando, pertanto, come oggetto di pedagogia le "morte lettere", quelle profane, sarebbe a dire il contenuto di quella spocchiosa erudizione, da vuota crisalide, dei "dotti ignoranti", che ancora oggi si osa definire "cultura" e "formazione classica"!

Il compito dei veri tradizionalisti romani, a questo punto, è nello stesso tempo immane e semplice: immane poichè è necessario negare radicalmente questa finzione che sta alla base della deformazione culturale dell'Occidente, essendo d'altronde causa medesima della sua rovina; semplice, dal momento che, per colui che vive nello Spirito la Tradizione Classica, quelle "lettere", ad onta della pretesa galilea, lungi dall'essere "morte", sono Parole Viventi, aventi la forza di aprire gli occhi della mente, permettendo la visione di un Mondo che non è "passato" bensì Eterno! La prova, se ce ne fosse bisogno, di quanto sia veridico tutto ciò, sta nel fatto che, sempre, quando l'Europa ed in particolare l'Italia si sono destati dal lungo "fideistico" sonno, perchè lo hanno voluto in quanto è stato riacquisito il Sapere, è come se si fossero destati gli stessi Omero e Virgilio, Platone e Aristotele nonchè l'intera Romanità, permettendo all'Europa medesima di essere se stessa, mediante quelle Parole Viventi, in un terribile e luminoso Ritorno dell'Eterno.

Il Cristianesimo non è Tradizione − Fabio Calabrese

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Accanto agli aspetti contingenti della politica, è importante continuare a esplorare quello che è il nostro retaggio spirituale, e del resto basta consultare i post su internet per rendersi conto che il dibattito sull'argomento è sempre vivo e vivace.

Per capire se quella che è la religione più diffusa nel mondo cosiddetto occidentale e che, anche se oggi superata dall'islam, rimane la seconda a livello planetario, rientri nel pensiero tradizionale o sia compatibile con esso, è necessario capire cosa vuol dire tradizione.

“Tradizione” viene dal latino “tradere”, ossia “tramandare”; essa dovrebbe rappresentare il deposito di idee, visioni del mondo, concezioni trasmessoci dai nostri antenati, ma si vede subito che sorge un problema non certo secondario: da chi ci ha preceduti nell'esistenza, abbiamo ricevuto una quantità enorme di idee, concezioni, visioni del mondo spesso in conflitto fra di loro; è necessaria una SELEZIONE DELLE TRADIZIONI, e non è affatto detto che ciò che si presenta come maggioritario sia migliore o preferibile.

Per alcuni non c'è problema: la tradizione coinciderebbe con il cristianesimo cattolico, interpretato, bisogna dirlo, perlopiù come si presentava almeno una o due generazioni fa, come se la Chiesa cattolica nel frattempo non fosse cambiata, e non poco. Generalmente costoro sono quelli che non si sono schiodati di un millimetro dal primo imprinting ricevuto in famiglia, sono in genere le persone che si sono meno impegnate in una ricerca della verità, di minor spessore dialettico, con naturalmente qualche eccezione, ad esempio gli ex evoliani.

“Tradizione” dovrebbe significare in primo luogo il nostro retaggio di italici, di romani, di europei, di indoeuropei, e se capiamo questo, è chiaro che il cristianesimo è qualcosa di assolutamente estraneo.

Sebbene su questo punto che è di importanza fondamentale, i tradizionalisti cattolici si siano prodotti in maratone di arrampicata sugli specchi, cavilli e sofismi, un punto che non può assolutamente essere negato, è l'origine ebraica del cristianesimo.

Alcuni autori “nostri”, ad esempio Silvano Lorenzoni e Gianantonio Valli (“Origini del monoteismo e sue conseguenze in Europa”) hanno parlato del monoteismo come di un fenomeno patologico in campo religioso. Ciò che c'è di patologico, io penso, non è di per sé l'idea di un unico Dio. Penso che Lorenzoni e Valli non abbiano da obiettare nulla allo zoroastrismo o alla religione solare di Akhenaton se avesse dei cultori ancora oggi, ma il fatto che la triade dei monoteismi oggi esistenti (ebraismo, cristianesimo, islam) sia costituita da monoteismi ABRAMITICI, ossia discendenti da Abramo (prescindendo dal fatto se questo personaggio, come tutti quelli menzionati nella bibbia, sia storicamente esistito o meno).

Dall'ebraismo derivano sia il cristianesimo sia l'islam. Ora, basta leggere la bibbia senza paraocchi per capire come stanno le cose. In nessun punto dell'Antico Testamento si parla di “falsi dei”, ma si parla spesso di “dei stranieri”. Il dio biblico, in altre parole non è il Dio universale, ma il dio tribale degli ebrei. La sua successiva elevazione a Dio universale da parte dei cristiani, degli islamici, degli stessi ebrei a partire dall'Era Volgare, non è priva di conseguenze patologiche.

In primo luogo, gli ebrei si auto-elevano a “popolo eletto”, “scelto da Dio”. In secondo luogo, nel cristianesimo e nell'islam, come una sorta di compensazione del senso di inferiorità per non fare parte del “popolo eletto”, si innescano il fanatismo religioso, l'intolleranza, la smania di proselitismo.

La verità sulla cristianizzazione dell'impero romano, è che essa fu brutalmente imposta con la violenza dagli imperatori rinnegati Costantino e Teodosio, non con prediche o sermoni, ma col pugno di ferro.

Il cristianesimo pretende – si vanta – di essere, a differenza del paganesimo, una religione non mitica ma storica e, come giusta nemesi, è proprio sul terreno della storia che va incontro alle più brucianti sconfessioni.

In pratica, tranne qualche accenno elusivo da parte di autori classici e un esteso brano di Flavio Giuseppe, il cosiddetto “Testimonium flavianum”, che però è con ogni verosimiglianza un falso risalente a non prima del III secolo, l'unica testimonianza “storica” sulle origini del cristianesimo, è rappresentata dai vangeli. Questa è una circostanza di cui non si può non rimarcare la stranezza. Il I secolo dell'Era Volgare è un momento in cui la civiltà romana è allo zenit: vi sono letterati, storici, uomini di cultura, e le notizie viaggiano in ogni angolo dell'impero. Possibile che nessuno si sia accorto che in Palestina c'era un uomo eccezionale che faceva miracoli, trasformava l'acqua in vino, guariva i lebbrosi, addirittura resuscitava i morti? Forse non si sono accorti di nulla perché in realtà non stava avvenendo nulla di simile.

Ma le sorprese non finiscono qui. Il Cristo dei vangeli, sia o meno storico questo personaggio, non è quello che la Chiesa cattolica ci racconta. In almeno due occasioni nega di essere “il figlio di Dio” o Dio stesso, una è quando chiamato “Mio buon maestro”, risponde “Perché mi chiami buono? Solo Dio è buono”. L'altra è costituita dall'invocazione sulla croce: “Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?”, che capiamo bene come espressione di un uomo atrocemente sofferente e deluso, ma che sulle labbra di un dio (di Dio) suonano alquanto schizofreniche.

Tralasciamo qui l'intrinseca assurdità dell'idea di Dio che ha bisogno di auto-immolarsi per poter perdonare l'umanità del peccato originale compiuto da un suo lontano antenato mangiando un frutto. Se Gesù Cristo non era, e non ha preteso di essere, il figlio di Dio, né d'altra parte di fondare una nuova religione distaccandosi dall'ebraismo, è chiaro che la sua missione messianica doveva essere ben più ristretta e più concreta, e con ogni verosimiglianza si inseriva nel messianismo insurrezionale anti-romano diffuso nella Palestina dell'epoca.

Dal punto di vista storico, le sorprese non mancano: ad esempio, forse non molti sanno che non disponiamo di alcun esemplare originale di vangelo risalente al I o II secolo dell'Era Volgare. In pratica non abbiamo nulla che non sia posteriore al concilio di Nicea, quando sotto l'egida di Costantino, cioè di un'autorità intesa a fissare una dottrina che tutti dovevano per forza credere, ma che ovviamente se ne infischiava della veridicità storica, i quattro vangeli furono fissati come “canonici” e con ogni probabilità manipolati e riscritti.

Il metodo di indagine suggerito dai ricercatori indipendenti che si sono accostati a questa problematica negli ultimi anni, lo scomparso Luigi Cascioli, David Donnini, Giancarlo Tranfo, è quello dei “residui testuali”, cioè della ricerca di quei passi evangelici che possono essere sfuggiti all'opera degli zelanti e devoti falsari di Nicea, che però non sarebbero riusciti a fare un lavoro troppo accurato, resi evidenti precisamente dal fatto di essere in contrasto con la dottrina elaborata da questi ultimi. Gli indizi che i “santi” censori e falsari di Nicea si sono lasciati sfuggire, non sono pochi, e riguardano soprattutto i fatti che portarono Gesù alla crocifissione. Si va dal suo “strano” invito a vendere il mantello per comprarsi una spada, alla singolare circostanza che il Getsemani, l'Orto degli Ulivi dove Cristo si trovava coi suoi discepoli prima di essere arrestato, si trova proprio a ridosso della torre Antonia dalla quale si controllava militarmente la città di Gerusalemme, all'episodio di Pietro che taglia con un colpo di spada un orecchio a un servo del Tempio, che è probabilmente quello che rimane, un residuo sfuggito alla censura, del resoconto di uno scontro di ben più vaste proporzioni, cosa confermata dal fatto che ad arrestare Cristo e i suoi viene mandata una coorte, un numero di uomini francamente esagerato se si fosse trattato di arrestare una dozzina di persone disarmate. Ricordiamo anche che Cristo, in greco “Christos” significa “unto”, e l'unzione per gli antichi ebrei era l'equivalente di un'incoronazione. Dodici apostoli, guarda caso, come le dodici tribù di Israele, di cui forse nel progetto messianico erano destinati a diventare i governatori.

Una serie di elementi che lascia supporre che ciò che portò Gesù sulla croce, fu in realtà una rivolta fallita, guidata da un uomo che non era il redentore universale, ma più prosaicamente aspirava a essere il messia che avrebbe redento gli ebrei dalla dominazione romana.

In maniera abbastanza ovvia, il fallimento di questo tentativo avrà avuto l'effetto di spostare i sogni di rivincita su un piano spirituale e ultramondano, oltre a trasformare l'ignominiosa fine del fondatore della setta in una gloriosa e divina auto-immolazione.

Un ulteriore passo verso il cristianesimo come lo conosciamo oggi, deve essere stato rappresentato da Saul di Tarso, “san Paolo”, appartenente allo strato degli ebrei fortemente ellenizzati, che ebbe l'idea di aprire ai “gentili”, ossia ai non-ebrei, idea che, facendo leva sui molti malcontenti che esisteva nell'impero, fece si che molto presto i gentili superassero gli ebrei nelle comunità cristiane. Molti considerano “san” Paolo il vero fondatore del cristianesimo. Ancora oltre nella direzione della creazione di una nuova religione, si andò con la guerra giudaica del 67-70. Anche in questo caso, il fallimento dell'insurrezione giudaica, portò le nascenti comunità cristiane a ripudiare il messianismo insurrezionale e a prendere la maggiore distanza possibile dall'ebraismo.

Così siamo in condizione di chiarire anche quello che in conseguenza della finzione nicena è diventato una sorta di mistero storico: perché mai i Romani, pragmatici e tolleranti in fatto di religione, avrebbero perseguitato il cristianesimo, anche se una storiografia di parte evita perlopiù di raccontare che una volta che il piede ebbe cambiato scarpa, una volta preso il potere, i cristiani ci misero tanto impegno nell'estirpare l'antica fede romana ed europea, nel perseguitare coloro che erano rimasti fedeli ai culti dei padri, che al confronto, le persecuzioni da loro subite in precedenza sono state delle vere quisquilie. In questa “santa” opera di evangelizzazione, i cristiani fecero anche un'invenzione stupenda, il primo campo di concentramento della storia, eretto a Skytopolis in Asia Minore.

Il motivo delle persecuzioni ci appare ora del tutto chiaro: questi gruppi di “innocui” e “pacifici” cristiani, che non erano affatto né innocui né pacifici, come dimostrò ad abbondanza l'atroce martirio inflitto alla sfortunata Ipazia, e che oggi trovano la maggior somiglianza concepibile nei fondamentalisti e terroristi islamici, formavano una sorta di coagulo di tutti i motivi di risentimento, di ostilità, di ribellione contro Roma, la cui società era ovviamente lontana dall'essere perfetta, raccogliendo schiavi, miserabili, meteci, anche se da ultimo le loro comunità finirono per comprendere gli stessi romani, anche delle classi superiori, attratti verso il cristianesimo da quella stessa passione per i culti esotici che in precedenza li aveva indotti a venerare l'asiatica Cibele, Iside e Mitra.

Se i Romani in fatto di religione erano pragmatici e tolleranti, non tolleravano però la ribellione politica, e in questi casi erano pronti ad agire con spietata determinazione. Potremmo anzi dire che la reazione alla diffusione del cristianesimo, sia stata da questo punto di vista relativamente tardiva e blanda.

Con tutto ciò, è probabile che fino al concilio di Nicea non esistesse UN cristianesimo, ma molti cristianesimi, con sfumature diverse anche dottrinali a seconda delle comunità. Molti cristianesimi, ciascuno col suo vangelo e con il suo credo.

La svolta arrivò con il concilio di Nicea, fortemente voluto, imposto e organizzato dall'imperatore Costantino. Per capire il suo significato, è però necessario capire quale fosse, quale era stata in precedenza la politica imperiale in fatto di religione. La società romana del tempo stava pagando lo scotto di essersi trasformata in una società multietnica e multiculturale; questo comportava un relativismo di tutti i valori e la perdita dell'unità religiosa. I predecessori di Costantino avevano già cercato di porre rimedio alla perdita dell'unità religiosa dell'impero, ad esempio Aureliano promuovendo il culto del Sole invitto, e Diocleziano quello della stessa figura imperiale. Non c'è da stupirsi che Costantino abbia pensato di utilizzare il cristianesimo allo stesso scopo. Cristiano, Costantino probabilmente non lo fu mai, sarebbe stato battezzato solo sul letto di morte, probabilmente quando non era più cosciente; per lui la religione era solo un instrumentum regni buono per il popolino. Quello di cui probabilmente non si avvide, era che, congiungendo un imponente impianto organizzativo al tipico fanatismo abramitico, si creava una forza di cui non ci si poteva servire, ma solo servirla, la religione non si prestava a essere un instrumentum regni, ma era lo stato che diventava un instrumentum ecclesiae.

Io credo tuttavia che la vicenda di Costantino dimostri in maniera lampante l'incompatibilità fra romanità e cristianesimo: la cristianizzazione dell'impero procedette di pari passo con la sua distruzione. Non vi è dubbio che i panni di imperatore romano non si attagliassero a Costantino; il suo proposito era quello di costruire una tirannide sacrale sul modello di quelle che avevano dominato per millenni in Oriente all'ombra delle piramidi e delle ziggurat, ma l'uomo occidentale, europeo, non è fatto per questo tipo di regime, ha troppo senso della propria dignità personale e amore per la libertà. Ecco quindi l'idea di dare vita a una realtà più ristretta, “bizantina” nella parte orientale dell'impero. Roma fu spogliata del suo ruolo di capitale e sostituita da Bisanzio sul Bosforo, che divenne Costantinopoli, “la città di Costantino”, e l'Occidente fu declassato a una fonte di risorse da sfruttare con tutti i mezzi, a cominciare da una fiscalità ultra-esosa che lo distrusse  economicamente. Quando nel 476, i barbari porranno fine al cadaverico impero d'Occidente, non faranno altro che completare l'opera di Costantino.

Torniamo però al concilio di Nicea. Esso fu voluto, organizzato e manovrato da Costantino allo scopo di imporre all'impero una religione unica. Si cominciò con le sistemazioni dottrinali, stabilendo ad esempio che i vangeli validi dovevano essere quattro, per analogia con i bracci della croce, coi punti cardinali, e via dicendo; tutti gli altri furono relegati al rango di apocrifi, cioè falsi, e conseguentemente distrutti, anche se i pochi superstiti di questa letteratura condannata giunti fino a noi, si sono rivelati istruttivi sul cristianesimo delle origini assai più di quelli canonici.

E' interessante osservare che il concilio di Nicea riconfermò la tesi di Maria madre di Dio già emersa nel precedente concilio di Calcedonia, sebbene la madre di Gesù abbia pochissimo spazio nel vangeli, dando vita al fenomeno della mariolatria. All'origine di ciò fu un personaggio assai discutibile, Cirillo di Alessandria, il “santo” vescovo assassino che aveva architettato e messo in atto l'atroce martirio inflitto a Ipazia. Costui a Calcedonia si era dato un gran daffare per promuovere il culto di Maria “madre di Dio”, anche con ricchi donativi e offerte in denaro ai “padri conciliari”. Non dobbiamo stupircene: quest'uomo probabilmente compensava la sua misoginia con la venerazione per una figura femminile idealizzata che probabilmente accentuava il disprezzo per le donne reali, specialmente se costoro, come Ipazia, osavano pensare e occuparsi di filosofia. Tali erano gli uomini che hanno dato al cristianesimo cattolico il suo fondamento dottrinale!

Per volontà di Costantino, la nuova religione doveva essere “katoliché”, cioè universale, insomma andare bene, volenti o nolenti, per tutti i sudditi dell'impero, ed è a partire da Nicea, non prima, che si può cominciare a parlare di cattolicesimo, e poiché la maggioranza dei sudditi dell'impero era pagana, essa doveva di necessità incorporare qualche elemento di paganesimo. Con un processo di sincretismo (Giancarlo Tranfo ha parlato di “Sincresi di infiniti archetipi”), Gesù Cristo è stato apparentato ai molti redentori della tradizione soteriologica pagana, da Dioniso e Orfeo a Mitra; il ribelle ebreo diventava definitivamente “il redentore”.

Anche le festività cristiane sono feste pagane “ribattezzate”. Il natale è il “dies natalis solis invicti” fissato da Aureliano al 25 dicembre, il momento in cui dopo il solstizio, il sole “rinasce”, ricomincia la sua lenta salita vero lo zenit. In realtà, nessuno sa quando Gesù Cristo sia effettivamente nato, ma il particolare dei pastori che dormivano all'aperto, rende alquanto inverosimile che si trattasse della fine di dicembre. Stessa cosa per quanto riguarda la pasqua: essa si lega alla resurrezione di Cristo che coinciderebbe temporalmente con la pasqua ebraica, ma in realtà va a sovrapporsi a Ostara, l'antica festa europea della primavera, tanto è vero che essa continua a chiamarsi Ostern in tedesco ed Easter in inglese. La doppia celebrazione, dei santi e dei defunti dell'inizio di novembre? Ma è samain, il capodanno celtico!

Questi elementi di paganesimo sopravvissuti nel cristianesimo cattolico sarebbero sufficienti per considerare lo stesso una dottrina tradizionale? Ma fatemi il piacere, perché attaccarsi a una copia contraffatta quando è possibile risalire all'originale?

Quello uscito da Nicea, tuttavia, non era ancora il cattolicesimo come lo conosciamo oggi. La Chiesa era stata in sostanza creata dalla fusione costantiniana fra l'intollerante smania di proselitismo abramitica e lo spirito di organizzazione romano, ma mancava ancora un elemento: la centralità del vescovo di Roma.

A quei tempi, il cristianesimo era ancora la religione di una minoranza, a quanto pare, fino al 380, fino a Teodosio e all'editto di Tessalonica che ha imposto con la forza, diciamo pure con la violenza, il cristianesimo come religione di tutto l'impero, erano cristiani, in Oriente circa un terzo degli abitanti di esso, ma in Occidente la proporzione si dimezzava, scendeva a un sesto, ma soprattutto i cristiani di Roma erano ben poca cosa in confronto alle popolose diocesi d'oriente come Alessandria e Antiochia. Il vescovo di Roma crescerà d'importanza fino a diventare “il sommo pontefice” un paio di secoli più tardi, quando la disgregazione dell'impero d'occidente gli metterà fra le mani quello che nessun patriarca di Antiochia o di Alessandria aveva, una fetta non trascurabile di potere politico.

La circostanza che san Pietro sarebbe stato il primo papa/vescovo di Roma è con ogni probabilità falsa. Gli Atti degli Apostoli ci mostrano un Pietro/Cefa che, in contraddittorio con san Paolo, è nettamente ostile alla conversione dei “gentili”. E' probabile che a Roma non ci sia mai nemmeno stato, che non si sia mosso da Gerusalemme. Le più antiche liste di vescovi romani cominciano con san Lino. Pietro è stato aggiunto in un secondo momento, il “principe degli apostoli” come legittimazione del potere acquisito in epoca molto più tarda dai vescovi romani.

Abbiamo visto che nella sua millenaria presenza in Europa, il cristianesimo è andato incontro a una certa europeizzazione, anche se non certo tale da considerarlo una dottrina tradizionale europea, ma per l'Italia il suo avvento è stato – e continua a essere – una vera disgrazia.

Quei Romani che la dissoluzione dell'impero causata dalla cristianizzazione costrinse a diventare, da dominatori del mondo allora conosciuto, “un volgo disperso che nome non ha”, come ebbe a scrivere Manzoni, altri non erano se non i nostri diretti antenati. La nascita di uno “stato della Chiesa” proprio nel centro della Penisola, con sede a Roma dove i papi si appollaiarono come avvoltoi sulla carcassa di un animale abbattuto, fu la causa diretta di quindici secoli di divisione, di assenza dello stato nazionale, di invasioni e dominazioni straniere, perché i papi furono sempre pronti a invocare il soccorso di nuovi invasori stranieri tutte le volte che il loro miserabile staterello era minacciato, da Carlo Magno a Napoleone III.

Fra tutte le invasioni straniere sollecitate dalla Chiesa, dai papi per difendere il loro potere temporale, quella che ebbe le conseguenze più tragiche per la nostra Italia, fu senza dubbio quella angioina del XIII secolo che pose fine alla dinastia sveva. Fino a quel momento, l'Italia meridionale era stata la parte più avanzata della Penisola. Mentre il nord politicamente frammentato si consumava nelle interminabili lotte comunali, prima i Normanni, poi gli Svevi, vi avevano costruito uno stato unitario ed efficiente con una decisa riduzione del particolarismo feudale, in maniera molto simile a quel che stava avvenendo nell'Inghilterra di Guglielmo il Conquistatore. Fu qui che nacquero le prime scuole europee di livello universitario, prima la scuola di medicina di Salerno, poi l'università di Napoli fondata da Federico II. Fu alla corte di Palermo che nacque la letteratura italiana in lingua “volgare”.

Tutto ciò fu spazzato via dall'invasione angioina voluta dalla Chiesa per porre fine alla dinastia Hohenstaufen. Carlo d'Angiò, fratello del re di Francia assestò un colpo mortale all'economia del meridione, trapiantando nell'Italia meridionale un esteso e parassitario ceto nobiliare che non trovava più sufficiente spazio nella Francia impegnata nell'edificazione di uno stato nazionale, e affidando tutte le attività economiche nelle mani dei banchieri genovesi e pisani con cui si era indebitato per poter compiere l'impresa. Fu da quel momento che il nostro meridione cominciò a precipitare in un abisso di arretratezza dal quale non si può dire sia completamente uscito nemmeno oggi, a un secolo e mezzo dall'unità nazionale, e di questo dobbiamo ringraziare il papato e la Chiesa! D'altronde, le cicatrici lasciate da quindici secoli di divisione, sono profonde ed evidenti ancora oggi: l'unità nazionale, il senso di appartenenza a un unico popolo, quel sentimento civico che può essere creato solo dalla lunga convivenza in uno stato ordinato all'interno e rispettato all'estero, in Italia sono quanto mai deboli, labili, incerti, e continuano a prevalere separatismi e campanilismi di ogni tipo. In Italia il cattolicesimo è molto diffuso, è vero ma solo perché gli Italiani in genere non conoscono la loro storia.

Noi però potremmo anche prescindere da tutto ciò se il cristianesimo, almeno quello cattolico, fosse ancora com'era non, diciamo, ai tempi di Lepanto, ma fino a una settantina di anni fa.

Spesso mi è stato opposto l'esempio di persone “nostre” e leader “nostri” di chiara estrazione cattolica, da Leon Degrelle a Corneliu Codreanu, ma le persone che fanno questi confronti dimenticano volentieri che una cosa era il cattolicesimo a quei tempi, un'altra cosa è oggi a partire dal concilio vaticano II, e soprattutto attualmente sotto il pontificato di Bergoglio.

Un tempo, il cristianesimo/cattolicesimo, e per un tempo non breve, è stato la bandiera dell'Europa nella lotta contro l'islam, da Poitiers a Kossovo Polje, a Lepanto, ma quel tempo è finito, e oggi la Chiesa cattolica è la prima ad aprire la porta alla distruzione dell'Europa attraverso l'immigrazione/invasione extracomunitaria. Noi non dobbiamo avere più nessuna remora a contare le Chiese, a cominciare da quella cattolica, fra i nostri nemici.

Riassumendo: il cristianesimo è una dottrina di origine mediorientale, e non ha nulla a che fare con la tradizione europea, anzi, ha avuto un ruolo fondamentale nel portare questa tradizione (il cosiddetto paganesimo) sull'orlo dell'estinzione. Le sue pretese di essere una religione supportata da fatti storici sono del tutto fasulle e inconsistenti; esso origina piuttosto dallo spirito anti-romano e anti-europeo del ribellismo ebraico. Le istituzioni nelle quali il cristianesimo si è materialmente incarnato, le Chiese, soprattutto la Chiesa cattolica, si sono rivelate per l'Italia una piaga e una disgrazia, e oggi sono schierate per l'estinzione dell'uomo europeo, favorendo un'immigrazione extracomunitaria che è in realtà un'invasione.

Possiamo avere ancora dubbi?

 

La Sagra della Spiga e il Corteo di Demetra a Gangi a cura di Benedicaria*

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La Sagra della Spiga e il Corteo di Demetra a Gangi
(foto scattata nel 2014)

Demetra (Cerere per i Latini): è la madre del grano, dea delle messi, dell'abbondanza e della agricoltura; incede maestosa nell'ultima stravola (antico mezzo di trasporto, simile a una grande slitta trainata dai buoi) rappresenta la fertilità della terra e con il lavoro che ne consegue l'alimento e la vita.

La seconda domenica di agosto a Gangi (in provincia di Palermo) da più di 50 anni, si celebra la “Sagra della Spiga”. Il momento culmine e più spettacolare della manifestazione è il "Corteo di Demetra", che sviluppa temi della tradizione e del mito e raccolgono il senso e lo spirito della cultura contadina e dell'età classica. Chiude il corteo la Sezione Mitologica dove sfilano tutte le figure legate al culto di Demetra, dea delle messi, e delle Meteres, dee della fertilità, cui pare fosse dedicato un tempio sul vicino Monte Alburchia.

«I più accreditati degli scrittori dicono che i Sicani che abitavano anticamente l’isola erano autoctoni, e che le nominate dee (Demetra e Kore) per prime si mostrarono in quest’isola (la Sicilia), e che per la fecondità della terra, in questa spuntarono per prima le biade. Le quali cose il più illustre dei poeti (Omero) conferma dicendo: "Ma senza che si semini e si solchi, crescono orzo e frumento, viti dai grossi grappoli apportano vino, e questi la pioggia di Giove fa crescere”. E infatti nella piana di Lentini e in molti altri luoghi della Sicilia nasce anche ora il così detto grano selvatico. Insomma se si facesse un’indagine sulla scoperta del grano, cioè in qual parte della terra esso sia apparso per la prima volta, è verosimile che si riconosca il primato alla terra più fertile. Conformemente a quanto si è detto, è possibile constatare che le dee che hanno scoperto il grano sono straordinariamente venerate dai Sicelioti». (tratto dal libro di Bent Parodi “Miti e storie della Sicilia Antica a proposito di alcuni brani tratti dalla Biblioteca Storica di Diodoro Siculo)

Il corteo è aperto dal simbolo della fertilità, e cosi segue:

Il Kàos: vuoto primordiale dove tutto e indistinto, e i quattro elementi: la terra, l'acqua, il fuoco e l'aria.

Artemide: la vergine dell'arco d'argento, dea preposta alla caccia, ai monti e alle selve, personificazione divina della luce lunare. Artemide è seguita da tre ninfe del fiume chiamate Naiadi, che le furono regalate dal padre Zeus col compito di badare ai calzari della dea e ai suoi cani quando era impegnata nella caccia.

Apollo: dio del sole, delle medicine, delle arti, della musica e della poesia. Dal volto ombroso scandisce il tempo: dà la luce e impone le tenebre. Apollo è preceduto dai Sacerdoti, con la caratteristica fascia bianca che cingeva i loro capi, e dalla Pizia che ha poteri divinatori; seguono invece Apollo, le tre muse: Calliope (della poesia), Tersicore (della danza) ed Euterpe (dell'arte dei flautisti).

Pan: divinità campestre dalle sembianze caprine e dedito a scorribande presso i boschi nell'intento di catturare e concupire le Ninfe. Il dio e seguito da Siringa e Piti che non riuscì a concupire e che dopo un lungo inseguimento si trasformarono la prima in canna (da questa il dio creò il flauto), e la seconda in albero di fico.

Dioniso: dio del vino, della viticoltura, rappresenta in sé tutto il rigoglio della natura. Accompagnato dal precettore Sileno vaga folle per il mondo, espandendo la coltura della vite e predicando l'ebbrezza del vino che egli stesso aveva inventato. Il corteo di Dioniso è aperto dalle Ladi, ninfe della montagna, cui il dio fu affidato da fanciullo.

Le Meteres (Dee Madri): dee cretesi della maternità e della fecondità. Persefone, bellissima figlia di Demetra vittima del ratto ad opera di Plutone, simboleggia la ciclicità delle stagioni e del raccolto.

Demetra (Cerere per i Latini): è la madre del grano, dea delle messi, dell'abbondanza e della agricoltura; incede maestosa nell'ultima stravola (antico mezzo di trasporto, simile a una grande slitta trainata dai buoi) rappresenta la fertilità della terra e con il lavoro che ne consegue l'alimento e la vita.

*Ringraziamo vivamente la pagina Facebook Benedicaria per la gentile disponibilità a pubblicare testo e immagini

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I sacri colori della Tradizione

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Svastica

Il cromatismo ariano bianco-rosso-nero è stato trattato diverse volte, in passato come nel presente, da fior fior di autori tradizionalisti quali Evola, Guénon, Dumézil, Audry, Migliori, Anselmo e altri. Aggiungerò il mio modestissimo contributo facendo un po' un sunto del significato più profondo e suggestivo dei colori della Tradizione indoeuropea, che peraltro trovano interessanti paralleli (casuali?) anche nel mondo arabo, in chiave nazional-sociale, e soprattutto nelle moderne bandiere nazionali europee dall'800 a questa parte.

Quanto sto per dire non suonerà certo nuovo alla maggioranza dei lettori di EreticaMente, ma val la pena riprendere le fila del discorso in un modo diretto e semplice come è nel mio stile, rivolto per lo più a chi è digiuno di nozioni identitarie e tradizionaliste oppure ha conoscenze a sprazzi dell'argomento. La base del discorso affonda le proprie radici nell'antichità pagana degli Ariani. La nota tripartizione funzionale del pantheon e della società indoeuropei è stata rappresentata dai nostri Padri anche mediante il cromatismo bianco-rosso-nero di cui stiamo parlando: al bianco corrisponde la funzione del sacro a cui sono preposti i sacerdoti, sotto l'egida della divinità massima padre della luce diurna e del cielo (ad esempio il Diespiter italico); al rosso la funzione della guerra relativa ai nobili guerrieri, a coloro che difendono la terra e il popolo in nome del dio della guerra (ad esempio il nostro Marte); al nero la funzione del lavoro, in ispecial modo della terra ossia l'ambito rurale, afferente alla base della società composta dai lavoratori e dai contadini, i produttori insomma (si pensi al romano Quirino, preposto alle arti liberali e al patronato delle curie).

Si hanno così il bianco della spiritualità e della luce, il rosso del sangue versato sui campi di battaglia, il nero del suolo ubertoso fecondato dal sudore del lavoro. Capita che al posto del nero si possano trovare il verde o il blu scuro coi medesimi significati, ed è interessante come tutti i popoli di origine indoeuropea dall'Irlanda all'India possano dirsi accomunati anche da questi cromatismi atavici che ritornavano mirabilmente nell'antica Roma, tra i Celti e i Germani, tra gli Slavi, e addentrandosi in Asia tra Iranici e Indo-Ari. Basterebbe pensare al sistema delle caste indiane introdotto proprio dagli invasori ariani per rendersene conto appieno, un sistema che riflette le stesse credenze religiose del pantheon tripartito di cui parlavo, talché per l'India ariana abbiamo Mitra/Varuna-Indra-Ashvin, per gli Italici Giove-Marte-Quirino, per i Germani Odino-Thor-Freyr e così via.

C'è anche un altro filone di cui tener conto, che è quello dell'ermetismo alchemico (connesso a quello ayurvedico?) studiato proprio da Evola, ovvero i tre gradi dell'Opera alchemica: nigredo, albedo, rubedo. Il nero corrisponde alla morte alchemica dei nostri istinti fisici più bassi e della nostra corruzione morale, il bianco alla purificazione, il rosso alla rinascita e all'azione "guerriera" e virile (mentre il bianco, lunare, è piuttosto passivo e femminile per così dire). Siamo in presenza di tre principi che vengono rappresentati dal corpo, dall'anima e dallo spirito e sono tre principi che sovente ricorrono nell'antico mondo degli Arya.

Così, in base agli echi del paganesimo e della gentilità indoeuropei e di quelli ermetico-alchemici della tradizione di cui ci parla Evola (la seduzione orientale delle individualità gentili più sensibili) ecco la riproposizione moderna del cromatismo identitario bianco-rosso-nero che da molti viene intravisto nelle bandiere degli stati-nazionali ottocenteschi ma volendo anche con alcuni riverberi nell'estremo Oriente del sol levante e tra gli Indiani d'America (Indiani d'America che, oltretutto, stando ai contemporanei studi genetici avrebbero in comune con noi Eurasiatici caucasoidi una fetta di genoma di antichissima origine siberiana giunta a noi proprio grazie agli Ariani delle steppe).

Francia, Italia (dal tricolore primigenio del 1797 a quello attuale, passando per il curioso tricolore a strisce orizzontali nero-bianco-rosso della Repubblica Romana), Irlanda, Germania imperiale, bandiere slave, Iran, India, Kurdistan, Tagikistan sono alcuni Paesi che hanno in comune bandiere ripartite in strisce orizzontali o verticali con i colori della Tradizione di cui sopra e che forse riflettono inconsciamente l'intramontabile ethos indoeuropeo giunto sino a noi eredi degli arii Padri. I cattolici, presi dalla loro solita fregola di sgraffignare e riadattare in termini cristiani, hanno fatto proprio un vessillo tradizionalista a strisce orizzontali in rosso-bianco-nero di fatto mutuandolo dalle idee paganeggianti dei moderni autori ma anche dalla storia medievale dei cavalieri che, durante le fasi dell'investitura, indossavano via via tre vesti di colore nero, bianco e rosso; questo si riconnette sia alla tradizione ariana che alla corrente magica dell'alchimia dove per l'appunto il nero rappresenta la morte di sé, il bianco la purificazione e il rosso il sacrificio sul campo di battaglia per difendere il proprio signore e la propria terra (ovviamente il rituale cavalleresco trae origine dal guerriero spirito germanico).

Come abbiamo visto, dunque, pur con delle sensibili differenze tra filone ariano e filone alchemico, il cromatismo bianco-rosso-nero ritorna prepotentemente in entrambi nella sistemazione moderna e contemporanea di antichissime credenze gentili (anche se, appunto, parassitate e distorte successivamente dai cristiani). Oggi, negli ambienti patriottici d'Italia, la bandiera indoeuropea della Tradizione ideata per accomunare spiritualmente tutte le genti indoeuropee appare come a strisce orizzontali in rosso-bianco-nero, seguendo un ordine metafisico che vede in cima il rosso dell'infuocato spirito solare maschile, in mezzo la lunare anima femminea della purificazione passiva e in basso il nero della fisicità corporea da cui si comincia la propria elevazione spirituale; sicché al rosso corrisponde lo spirito (cuore), al bianco l'anima (cervello), al rosso il corpo (i visceri, il ventre).

A seconda della chiave interpretativa di questa triade cromatica, l'ipotetica bandiera tradizionale pan-europea e/o pan-ariana può dunque apparire bianca-rossa-nera (filone sacrale ariano), rossa-bianca-nera (reinterpretazione identitaria di Evola), nera-bianca-rossa (filone ermetico-alchemico evoliano). Al dibattito contribuiscono, corroborando la straordinaria valenza etno-culturale di questa simbologia, le bandiere del secondo e terzo Reich anch'esse potentemente intrise di (inconsci?) rimandi tradizionali con tanto, nel caso della Germania nazionalsocialista, di ricupero del solare swastika e del binomio völkisch di Sangue e Suolo (da cui, a mio dire, lo Spirito). In questo senso assume ancor più autorità (anche per criteri estetici) la versione rosso-bianco-nero, che assurge a via di mezzo rimarcando il retaggio ariano, poiché tra il rosso del sangue nobile versato dai guerrieri e il nero del suolo patrio lavorato e fecondato dai contadini si colloca la luminosità uranica dello spirito della gentilità ariana, la cui valenza viene ulteriormente rafforzata da altri due epici simboli dell'Europa e della sua inimitabile epopea storica: l'aquila di Zeus-Giove, e della potenza romana, e la ruota solare infuocata che è alla base della virilità mistica e guerriera degli Ariani.

Ave Italia!

MANvantara. Antropologia, Ethnos, Tradizione

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Lunedì 12/9 il caro amico Fabio Calabrese ha pubblicato su queste pagine la trentacinquesima parte della sua serie “Ahnenerbe casalinga” che sicuramente i lettori di EreticaMente ormai conoscono bene come interessante spazio, divenuto praticamente una rubrica periodica, dedicata ai temi delle nostra storia remota.

Nel suo articolo Fabio Calabrese ha voluto spendere qualche parola di apprezzamento, di cui lo ringrazio, per un’iniziativa che di recente è partita su Facebook, ovvero la creazione del gruppo “MANvantara. Antropologia, Ethnos, Tradizione” focalizzato sulle Origini e le Radici dell’Uomo e delle sue Razze; Fabio ha anche auspicato una mia sintesi di quanto finora vi è stato pubblicato dai partecipanti, invito che ovviamente apprezzo molto. Tuttavia, non nascondo che la cosa sia di attuazione piuttosto difficile a causa di una certa eterogeneità del materiale che è stato messo a disposizione dagli amici: link ad articoli, note e considerazioni varie, domande ed interventi su argomenti anche abbastanza distanti tra di loro. Di conseguenza, ritengo più agevole fare piuttosto un sunto di quelle che vorrebbero essere le finalità ispiratrici dell’iniziativa e le coordinate tematiche entro le quali cercare di mantenere i contributi di tutti; anche se va detto che ciò non è… così semplice, vista la – peraltro lodevole – “proattività” di molti degli iscritti, che giustamente manifestano il piacere di condividere materiale di vario tipo, comunque sempre molto stimolante.

Venendo al nome del gruppo, se “Antropologia, Ethnos, Tradizione” rappresentano concetti che presumo siano sufficientemente chiari ai lettori di questo sito, la parola “Manvantara” è forse un po’ meno conosciuta in quanto è un termine presente nella Tradizione indù e si riferisce al ciclo completo, dall’inizio alla fine, di un’umanità: ciclo a sua volta suddiviso in quattro “Yuga” (Satya, Treta, Dvapara e Kali -Yuga) o anche, secondo un’ottica più occidentale, nelle cinque Età menzionate dal greco Esiodo (Età dell’Oro, Argento, Bronzo, Eroi, Ferro). In ogni caso, per sottolineare il focus tematico dell’iniziativa, “MAN” è volutamente scritto in maiuscolo, quale radice indoeuropea che, più o meno direttamente, rimanda al concetto di Uomo.

L’approccio culturale di base che vorremmo seguire si snoda lungo itinerari distanti dalle riduttive visuali materialistico-evoluzioniste e si propone di sviluppare, fondamentalmente, due filoni di riflessione: uno che potremmo definire “storico” ed uno “metastorico”.

La linea “storica” intende dedicarsi soprattutto alla dimensione temporale – la Preistoria umana – secondo una prospettiva ciclico-involutiva preferibilmente appoggiata alla cornice cronologica e concettuale proposta dal metafisico francese Renè Guenon, ma attingendo anche dalle elaborazioni di Julius Evola e di altri pensatori, “tradizionalisti” in senso stretto o meno, che possano fornire spunti ripresi dal Mito: in un’ottica, in ultima analisi, di Origini Boreali della presente forma umana. Quindi Thule, Hyperborea, ma anche Arioeuropei e, via via, Atlantide, Lemuria, cioè ragionando attorno a tutte quelle terre, quei sotto-cicli e quelle migrazioni – assieme etniche e simbolico-spirituali – che dagli arcani eventi dell’Antropogenesi iniziale hanno portato all’attuale quadro della diversità umana.

La linea “metastorica”, invece, intende collocarsi in una dimensione meno condizionata dalla temporalità e pertanto più “essenziale”, adottando una visuale maggiormente orientata all’analisi tradizionale delle strutture costitutive dell’Uomo (microcosmo: Corpo, Anima, Spirito) e, di riflesso, anche dei suoi aggregati (mesocosmo: Razze, Etnie, Caste). Quindi approcciando temi quali, a titolo di esempio: la posizione dell’Uomo in rapporto ad Archetipi e Manifestazione, i nessi Macrocosmo/Microcosmo, il tema della differenziazione delle Razze ed il loro rapporto con le Caste e le Etnie, la concezione tripartita della Razza in Julius Evola, il significato dell’ancestralità e degli atavismi, ecc…

Ma, oltre ai contributi di carattere tradizionale, entrambi i filoni di riflessione – che ovviamente possono tra loro interferire e sovrapporsi – sono aperti anche a tutti gli spunti utili provenienti dalla ricerca accademica, sempreché correttamente interpretati, traendo elementi dalle più svariate discipline. Ad esempio: paleoantropologia ed archeologia (focus sui ritrovamenti riconducibili a Homo Sapiens, anche di inattesa antichità; classificazioni morfologico-razziali; culture litiche; ecc...), genetica e paleogenetica (il rapporto tra DNA e forma biologica; epigenetica ed eredità; i legami molecolari tra le popolazioni mondiali; ecc…), glottologia (il dibattito sull’origine e la natura del linguaggio; il tema degli “universali linguistici”; l’etnogenesi delle grandi famiglie linguistiche ed i macro-rapporti tra di esse; ecc…), antropologia culturale e filosofica (il controverso tema degli “universali culturali”; la “peculiarità” del fenomeno umano; la tensione “Natura/Cultura”; i fondamenti dell’Identità etnica; ecc...), etologia e psicologia (le strutture comportamentali profonde; il rapporto con l’istintualità; ecc…), ma anche mitologia comparata, biologia, paleodemografia, paleoclimatologia e quant’altro ritenuto attinente.

Un’area, quindi, che come si può notare è al tempo stesso molto ampia ma anche molto specifica (da cui l’anzidetta eterogeneità del materiale finora pubblicato e la difficoltà a farne un riassunto generale). Ampia, cioè, negli spunti e nell’approccio interdisciplinare di partenza, ma specifica e focalizzata su un unico filo conduttore e sulla sintesi finale: una riflessione sulla storia del nostro Ciclo e sulla “topografia” interna dell’Uomo e di questa Umanità.

Per ulteriore chiarezza, terrei a precisare che l’ambito di interesse del gruppo non vorrebbe, preferibilmente, comprendere segmenti preistorici o forme viventi non relazionabili, in qualche modo, alla forma Sapiens, ma nemmeno la Protostoria troppo recente, che mi sembra un campo già ben presidiato da una platea piuttosto vasta di gruppi Facebook e dei quali quest’iniziativa non vuole essere un inutile doppione. E nemmeno tematiche, a mio avviso più discutibili, come quelle “ufologico-fantarcheologiche”, improntate da un certo sensazionalismo oggi molto in voga ed in fondo riconducibile all’alveo dello stesso materialismo denunciato sopra.

Infine, per quanto ovvio, sottolineo che non è assolutamente necessario essere antropologi o accademici per aderire al gruppo (io non lo sono) e che il livello di partecipazione può spaziare dall’articolo scritto in prima persona, al link segnalato, al libro suggerito, alla breve (o lunga) considerazione proposta o anche alla semplice domanda rivolta ai partecipanti per chiarire un dubbio o avviare una discussione. Nessuno insegna e tutti impariamo.

Chi, dunque, ha un’utenza Facebook attiva ed è interessato anche solo ad alcune delle tematiche riassunte sopra, non esiti a cercare il nostro gruppo nel social (attenzione: tra le ricorrenze per “Manvantara. Antropologia, Ethnos, Tradizione” oltre al nostro gruppo appare anche la mia pagina FB, che ha la stessa denominazione con la sola aggiunta del mio nome e che tengo come archivio di parte del materiale pubblicato; ovviamente siete invitati a visitarla). Sarà un piacere confermare la vostra richiesta di iscrizione.

Un cordiale saluto

Michele Ruzzai


“Sacer” e “Sanctus” nella tradizione giuridico-religiosa romana – Giandomenico Casalino

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Nella cultura, in senso lato, indoeuropea e quindi in tutte le sue varie e diversificate ramificazioni linguistiche, le parole “sacro” e “santo”, con i loro categoriali semantemi, sono, ovviamente, atteso il campo significante a cui appartengono, che è quello che noi chiamiamo “religioso”, abbastanza contigue, anzi confinanti.

Infatti, santo (greco: òsios; sebastòs/ latino: sanctus) ha in sé il valore del “confine”, di quella dimensione visibile dell’Invisibile che segna, appunto, il limite, che è posto o che comunque sta a protezione e ad indicazione della dimensione del totalmente Altro che è il Sacro, essendo ciò che è riservato esclusivamente per gli Dei. In tale intreccio di semantemi, il Santo, che appare quasi come un preambolo o come un avviamento al Sacro, è anche il Puro e cioè il purificato (tenendo a mente che l’etimo di codesta parola è pýr che in greco vuol dire: fuoco!). Qui risiede la ragione per cui nella parte orientale dell’Impero, il titolo di Augusto è tradotto in greco con la parola Sebastòs: il Santo!

Nella mia terra, che è il Salento, gli anziani ancora qualificano la “morte” come “santa” e parlano di “santa morte”! Cosa significa ciò? Ritengo che faccia riferimento, secondo la nostra arcaica cultura contadina, alla verità che la “morte”, come evento che segna un passaggio, una mutazione di essere e di dimensione, tanto nello spazio che nel tempo profani, è il confine ultimo, valicato il quale, si entra nell’Altro che è il Sacro e cioè il Mistero!

Ciò non fa che richiamare tutti i complessi rituali che accompagnano, da sempre ed in tutte le Civiltà, l’evento morte, sentito proprio come passaggio di un limite che segna il transito verso l’Invisibile; da qui, per esempio, l’antica consuetudine, già vigente nell’abitazione del defunto, quando lo stesso era deposto in casa per la pietà dei familiari, di coprire tutti gli specchi ivi esistenti onde impedire che le Potenze dell’Altro, i Mani dei Romani, potessero valicare il confine attraverso lo specchio, porta che, da sempre, in tutte le mitologie e culture religiose, conduce da un Mondo ad un Altro: è abbastanza nota la centralità dello specchio e del suo alto valore simbolico in tutte le Tradizioni iniziatiche, quale “passaggio” o presa di coscienza (visiva) dello stesso in quanto apertura per il mutamento da uno stato ad un altro dello Spirito! È sufficiente riflettere sulla parola latina speculum, da cui il nostro “specchio”, e sul fatto che è letteralmente sovrapponibile alle parole speculazione e speculare che dallo stesso derivano, e che, oltre ad essere in Hegel sinonimi di mistico, fanno proprio riferimento, in buona sostanza, nel lessico filosofico, alla Sapienza suprema che ha per oggetto il rapporto e l’effettuale riconoscimento dell’Io quale Sé nella immagine speculare riflessa.

Quanto sopra esplicitato, in via abbastanza generale, può favorire l’ingresso del nostro discorso nella dimensione spirituale, in quanto Realtà vivente, della Tradizione giuridico-religiosa romana che, ed è bene rammentarlo, è,  nella sua esperienza attivo-intensiva del Sacro, come afferma Evola[1], di natura esclusivamente magico-religiosa poiché è qualificata da un atteggiamento attivo dello Spirito il quale, mediante il Rito e cioè l’Ascesi dell’Azione, crea letteralmente la realtà fenomenica per mezzo di tale Azione su quella numenica; e ciò è totalmente estraneo ad ogni ritualità di natura sia teurgica che misterica, per la semplice ragione che, come credo di aver dimostrato nei miei libri e come insegnano, nel ‘900 ed oltre, sia Julius Evola, Mircea Eliade e Karoly Kerenyi, che decine di studiosi del Diritto Romano, della Religione e della fenomenologia della spiritualità di Roma antica quanto della medesima antropologia culturale romana, anche sotto il profilo di natura filologico-linguistica, essendo assente nella Romanità, la mediazione mitologica, che è la dimensione animico-fantastica sia teogonica che cosmogonica, del Sovrasensibile, l’Io è in diretto, attivo ed immediato contatto con le forze dell’Invisibile solo ed esclusivamente con il Rito che, attesa la sua natura primordiale, è nella sua immodificabile operatività ed ineluttabile efficacia magica, molto simile a quello Vedico, essendo ambedue qualificati proprio dal rapporto necessario e pericoloso, asciutto ed essenziale tra l’Io ed il Metafisico, rapporto che si fonda sulla Conoscenza esoterica della specularità eziologica sussistente tra l’Invisibile e il visibile. (Vedi la Dottrina che emerge dai Rituali e dai Formulari degli stessi Sacerdozi Pubblici: Auguri, Feziali, Flamini).

Nella Romanità il concetto di santo acquisisce, pertanto, una specificità tutta particolare che è figlia proprio di quanto abbiamo sopra sinteticamente rammentato; nel Digesto (I, 8,9, par. 3), infatti, vi è tale categorica definizione: “Proprie dicimus sancta quae neque sacra, neque profana sunt, sed sanctione quadam confirmata, ut leges sanctae sunt…”!c-2

Al fine di poter comprendere il senso profondamente romano di tale massima giuridico-religiosa, è necessario confrontare il significato di Santo ivi esplicitato con quello di Sacro, che viene definito però in via negativa e che noi invece cercheremo di esplicitare.

Mediante il Sacrificio, che è il Rito per eccellenza, infatti, si “crea” il Sacro (greco: Hieròs; latino: Sacer), che per natura o per decisione, è riservato, separato per gli Dei: nel sacrificium, l’animale, la victima (parola che ha la stessa radice di weihen) “è estratta dal suo uso consueto ed offerta all’Invisibile destinatario”[2]; e chi viola determinati ruoli o regole è “consecratus” cioè investito dalla Forza (infera in questo caso) di cui è pregno quel luogo od a cui è consacrata una legge, luogo o legge difesi cioè sancti. Tanto che nell’antica legislazione romana la pena era applicata dagli stessi Dei che intervenivano come vendicatori. Il principio in simili casi può essere formulato così: “qui legem violavit, sacer esto”, “colui che ha violato la legge sia sacer”; di qui l’uso del verbo sancire per indicare questa clausola che permetteva di promulgare la legge. Dalla Tradizione pertanto risulta che sancire vuol dire delimitare il campo di applicazione di una disposizione e renderla inviolabile, mettendola sotto la protezione degli Dei, richiamando sull’eventuale violatore l’inevitabile castigo divino: infatti si dice Via Sacra, mons sacer, dies sacra, ma sempre murus sanctus. Pertanto è sanctus il muro, ma non il territorio che il muro circoscrive che è detto sacer; è sanctum ciò che è proibito per mezzo di alcune sanzioni. È bene chiarire che “il fatto di entrare in contatto con il Sacro non porta di conseguenza lo stato di sanctus; non vi è sanzione per colui che, riguardo al sacer, diventa egli stesso sacer; è bandito dalla comunità, non lo si castiga e nemmeno colui che lo uccide. Si direbbe che il sanctum è ciò che si trova alla periferia del sacrum, che serve ad isolarlo da ogni contatto”[3].

A questo punto, la massima del Digesto richiamata, appare alquanto chiara ed inequivocabile, solo che la si interpreti in senso tradizionale e cioè  organico e spirituale: essa, infatti, preliminarmente spazza via tutto lo sciocchezzaio messo in campo da alcuni studiosi moderni, intorno alla cosiddetta “ambivalenza del Sacro”, conseguenza del fatto che, evidentemente, non riescono a comprendere che, onde avvicinarsi al senso delle culture tradizionali, è necessario uno sforzo di umiltà ermeneutica affinché si tenti di guardarle con i loro occhi e non con quelli moderni, essendo questi del tutto impotenti ad entrare nel mondo spirituale di tali Civiltà, oltre che pericolosamente ed antiscientificamente mistificatori; pertanto la pretesa “ambivalenza” non solo non esiste ma si tratta di ben altro! Infatti il Sacro che è, come abbiamo visto, una sfera, una dimensione Invisibilmente visibile del Mondo, una Forma, una Idea, una Essenza della Vita al massimo grado di potenza, circoscritta e difesa da una “sanzione” quindi sancita, può risolversi in damnum (italiano: dannati e cioè coloro che hanno violato la legge divina), in scatenamento di forze Infere che investono e “consacrano” il fallito (vedremo il motivo per cui è da usare questo termine).

Certamente l’ignoranza moderna non capirà mai perché il “consecratus” sia tale agli Dei Inferi, in seguito al suo avvenuto contatto irrituale con il Divino e perché il sanctus, come ci documenta Cicerone[4], sia da riferirsi ai Manes e quindi agli Inferi stessi. Noi sappiamo però che la Forza Universale (simboleggiata dalla Tradizione con l’Albero della Vita) è depositaria della Scienza del Sovrannaturale, che è la potenza Femminile definita nella Tradizione indù: Çakti e nella Tradizione Ermetica: Mercurio ignificato o lunare, ma simultaneamente, in modo “ambivalente”, è fonte di pericolo e di morte[5] (gli Dei Mani); ciò ha il significato che per chi la sublima e fissa con il Rito, si risolve nel Sacro luminoso il quale concede l’Immortalità olimpica; chi commette, invece l’errore (non il peccato!) di affrontare la Forza fuori dal Rito, viene travolto da ciò che per l’esecutore  può essere solo caotico ed oscuro, proprio perché non ha suggellato ed invertito verso l’Alto la Forza medesima. Ha commesso un falso!

Tale è la ragione per cui innanzi ho usato la parola fallito, cioè caduto (dal latino fallĕre = cadere[6]); al contrario, “vero” ha il significato di Vittorioso – sia a livello giuridico che a livello religioso, cioè di realizzato, che deve essere creduto, in termini esoterici: ciò che ha Vita da sé, ciò che è; “falso”,invece, ha il significato di ciò che non è. In termini filosofici, l’uno è l’Essere e l’altro è il divenire.

La sapienza giuridico-religiosa della Tradizione Romana si fonda pertanto sulla necessità rituale che lo Spirito si riconosca e si identifichi, nell’atto del Rito, con la Realtà altrettanto spirituale di forze nude e pure, Mondo in cui la limitata e limitante dualità moralistica di bene e male si dimostra illusione delle passioni, delle fedi o delle leggi dogmatiche, aventi la sola funzione essoterica relativa alla buccia e non al nocciolo. Da tali forze caotiche e prive di Forma, il Romano in tutta la sua vicenda storica, ha tratto, creandoli, con la virtus magica della Parola e del Gesto[7], ordinandoli, rendendoli santi, difesi e quindi governandoli, gli Ordinamenti, le Leggi, l’Impero che sono lo specchio del Cielo, cioè Juppiter Optimus Maximus.

 

 

 

NOTE

 

[1] GRUPPO DI UR (a cura di), Introduzione alla magia, Roma 1971, vol. III, pp. 219 ss..

[2] G. DUMEZIL, La religione romana arcaica, Milano 1977, p. 126; cfr. anche V. ROTONDI, Il sacrificio a Roma, Roma 2013; C. SANTI, Alle radici del sacro. Lessico e formule di Roma antica, Roma  2004; IDEM, Sacra facere, Roma 2008.

[3] E. BENVENISTE, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, Torino 1970, vol. II, pp. 427-8;

cfr. R. FIORI, Homo sacer, Napoli 1996.

[4] K. KERENYI, La religione antica nelle sue linee fondamentali, Roma 1951, p. 76.

[5] J. EVOLA, La tradizione ermetica, Roma 1971, pp. 17-8.

[6] G. DEVOTO, Avviamento alla etimologia italiana, Firenze 1979.

[7] G. CASALINO, Il nome segreto di Roma. Metafisica della romanità, Roma 2003.

La Bhagavadgītā sull’uomo moderno – a cura di Riccardo Tennenini

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La Bhagavadgītā sull'uomo moderno

Gli uomini demoniaci (1) non conoscono né l'azione e né l'inazione (2); in loro non si trova né la purezza (3) né la buona condotta né la sincerità.

Essi dicono: “ L'universo è illusorio, senza fondamento, senza un Signore(4); esso nasce dall'amplesso ed è determinato soltanto dalla libine”.

Mantenendo tale concezione, queste creature traviate, la cui mente è limitata, capaci di azioni crudeli, si ergono come nemici del mondo per la sua distruzione.

Colmi di desideri insaziabili, pieni di ipocrisia, orgoglio e arroganza, concependo a causa dell'illusione, pensieri insani, essi agiscono con propositi profani; Dedicandosi ad atti smisurati che hanno termine soltanto con la morte, avendo come massima aspirazione il godimento dei sensi, convinti che ciò sia tutto; Legati da mille vincoli di attesa, succubi della libidine e dell'ira, per soddisfare i loro sensi cercano di procurarsi ingenti ricchezze con mezzi illeciti.

“Oggi ho ottenuto questo; quest'altro lo soddisferò; questa ricchezza è mia, e quest'altra sarà mia in futuro”.

“Ho ucciso quel nemico, e ne ucciderò ancora altri. Io sono un signore, io godo, io ho successo, io sono forte e sano”.

“Sono ricco e nobile. Chi mi è pari? Sacrificherò, donerò, festeggerò”. Illusi dall'ignoranza,

Confusi da molte fantasticherie, caduti nella trappola dell'illusione, dediti alla gratificazione della libidine, essi cadono in un inferno impuro.

Pieni di sé, presuntuosi, superbi e intossicati dalle loro ricchezze, compiono con ipocrisia sacrifici soltanto di nome, senza rispetto delle regole.

Schiavi del senso dell'”Io”(5) della prepotenza, della superbia, della libidine e dell'ira, questi individui malvagi odiano Me (Krishna) nei loro corpi  e in quelli altrui.

Questi esseri crudeli e pieni di odio, i peggiori fra gli uomini, questi individui malvagi, Io li scaravento sempre, da un mondo all'altro, solamente nei grembi dei demoni.

Entrando in grembi demoniaci (6), questi individui vittime dell'illusione, nascita dopo nascita, senza mai arrivare a Me, o figlio di Kunti, raggiungono lo stadio inferiore.

Sono tre le porte dell'inferno, che distruggono il sé(7): libidine, ira e cupidigia. Perciò bisogna abbandonarle tutte e tre.

Chi è libero da esse, dalle tre porte della tenebra, o figlio di Kunti rende un beneficio al sé e raggiunge così la Meta Suprema (8).

Chi, trascurando i precetti scritturali, agisce sotto impulso del desiderio, non raggiunge né la perfezione né la felicità né la Meta Suprema.

Perciò, le scritture siano la tua autorità nel decidere cosa va fatto e cosa non va fatto. Ora devi conoscere e portare a compimento il tuo dovere contenuto nelle norme scritturali.

  Note:   1)     Per demoniaco si intende l'uomo profano del Kali Yuga iniziato con la morte fisica di Krishna avvenuta, secondo il Surya Siddhanta, il 18 febbraio 3102 a.C. Durerà 432.000 anni, concludendosi nel 428.899 d.C.: Kalki, decimo e ultimo avatara di Viṣṇu, apparirà in quell'anno, a cavallo di un destriero bianco e con una spada fiammeggiante con cui dissiperà la malvagità; 2)     Precetto fondamentale su cui si basa tutta la filosofia della  Bhagavadgītā; 3)     Leggere: caste e la tripartizione indoeuropea pubblicato su Ereticamente; 4)     Può essere riferita tutti quei fisici, astrofisici, astrofisici che tramite equazioni algebriche volevano mostrare l'inesistenza di Dio; 5)     Il complesso degli elementi fisici che caratterizzano il singolo; 6)     Nel senso che la loro anima trasmigra in corpi  di animali senza mai raggiungere Brahmā; 7)     L'insieme di caratteristiche proprie, non fisiche che costituiscono l'integrità dell'individuo: 8)     Mokṣa.     Bhagavadgītā sedicesimo discorso a cura di Riccardo Tennenini

Storia e Tradizione di Enrico Montanari – recensione a cura di Luca Valentini

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Presentiamo in questa occasione ai cari lettori di EreticaMente la recente fatica editoriale del prof. Enrico Montanari – storico delle religioni, allievo di Angelo Brelich, e in passato professore ordinario nelle Università dell’Aquila e di Roma – dal titolo “Storia e Tradizione – Orientamenti storico – religiosi e concezioni del mondo”, per le Edizioni Lithos. Come si evince dall’interessante premessa dell’opera, la disamina in questione tematizza largamente in merito a diversificate concezioni della storia della religioni, come quella storicistica, con riferimento a Raffaele Pettazzoni, e come quella fenomenologica, con riferimento a Mircea Eliade, ma anche entrando vivamente nel merito in alcuni aspetti essenziali sia del mondo tradizionalista sia degli studi romanologici, esponendo una visione nuova ed allo stesso tempo antica dei rapporti tra mondo etrusco e religiosità e civiltà romana.img

Entrando nello specifico, il testo del prof. Montanari, approfondisce primariamente le dinamiche di un confronto metodologico, in cui una prospettiva di diretta consultazione delle fonti, quella di Raffaele Pettazzoni, pur con connotati prettamente laici, si differenzia dallo studio dei miti e della religione, da uno scadimento classificatorio di natura classista ed economicistico, come si presentavano in parte negli studi di Ernesto De Martino, quale espressione diretta delle influenze d’analisi sia di Croce sia di Gramsci. In tal guisa, la religiosità del Pettazzoni viene presentata con una prospettiva di origine laica e scientifica. A tal proposito, è importante notare, come per Montanari, non fondamentale sia stata l’adesione per un determinato periodo della esistenza di Pettazzoni alla massoneria, non condizionandolo come diversamente accadde per Eliade per i suoi profondi contatti col mondo tradizionale, con Guènon e con Evola particolarmente. In riferimento proprio ad Evola, è importante far notare come si evidenzi la diffidenza dello stesso Pettazzoni espressa nel 1931 circa il tentativo posto in essere con Imperialismo Pagano, pur nell’ambito di un ampio interessamento dello studioso per l’antica Roma, nella sua versione imperiale e sovranazionale: "l’ecumene imperiale può venir considerata area di diffusione di una religione soprannazionale come il cristianesimo e, per altro verso, l’idea di Stato come struttura soprannazionale, nata religiosamente pagana, può acquistare una sua religiosità contrapponibile a quella della Chiesa[1]…pur con connotati di ispirazione liberale e risorgimentali con riferimenti a Mazzini e Pisacane[2]. Oltre la dimensione delle religioni universalistiche, emerge nel testo di Montanari la classificazione di Pettazzoni di religione dell’Uomo e la sua diffidenza nel confronti del cosiddetto Mistero e dell’esistenza effettiva di un Essere Supremo, le cui manifestazioni, vengono erroneamente ricondotte alle sfere del sentimento e dell’emozione. Col sovrasensibile, nota Montanari saggiamente[3], il rapporto di Pettazzoni si presenta ambivalente, non solo di un formale distacco, ma anche di un rispettoso rispetto, una soglia che è possibile avvicinare ma non oltrepassare, segnando, in questo, un ulteriore iato rispetto alla concezione di De Martino.

[caption id="attachment_19986" align="alignleft" width="261"]Raffaele Pettazzoni Raffaele Pettazzoni[/caption]

Altro punto nodale, già accennato all’inizio, cioè quello della diversa impostazione metodologica tra Pettazzoni ed Eliade viene analiticamente indagato, riprendendo le disamine dello storico rumeno in parte connessi agli studi (non letti) del van der Leeuw sulla Fenomenologia, circa l’affermazione di un’ermeneutica che non fosse formalmente vuota ed impersonale, ma che al contrario ponesse in essere una profonda sperimentazione religiosa del ricercatore degli ambiti investigati, una prima antropologia della religione, che avesse come base la conoscenza funzionale e sostanziale del dato sacrale. A ciò si oppose Pettazzoni nei suoi Ultimi Appunti, pubblicati nel 1960, riproponendo uno storicismo intransigente[4].

Molto interessante, inoltre, risultare essere l’approfondimento che l’autore dedica ai rapporti tra Eliade ed Evola, riferendo l’interessante episodio dell’invio alla fine degli anni ‘20, da parte del filosofo romano, di diversi numeri delle monografie di Ur e Krur, in India, dove si trovava lo storico rumeno per alcune sue specifiche ricerche. E’ un bel racconto di un rapporto molto articolato e non solo di natura analitica, essendoci state implicazioni anche di notevole portata operativa, come quella inerente non solo la priorità assegnata alla dimensione tantrica rispetto a quella vedantina (più vicina all’esegesi tradizionale di Guènon), ma anche la diversa sperimentazione del sovrasensibile, come dinamica fenomenologia (nel caso del fachirismo e di certo yoga), ma anche come dinamica magica, di voluta e cosciente presenza interiore. In ciò, l’autore ravvisa, però, un graduale allontanamento, non solo maturato dall’estraneità dell’analisi evoliana rispetto agli ambiti non indoeuropei considerati nelle ricerche di Eliade in India, ma anche per una progressiva convinzione di quest’ultimo che un certo tradizionalismo fosse ormai diventato desueto. Montanari, a nostro parere, con rara competenza dipinge un quadro in cui il progressivo allontanamento dello storico rumeno dal mondo del tradizionalismo diviene direttamente proporzionale all’avvicinamento dello stesso al mondo degli studi specialistici ed accademici.

In ciò, forse, il personale rapporto dell’Eliade con la fede cristiana, analizzato tramite lo studio del suo diario portoghese, potrebbe far emergere un confuso tentativo di coniugare la fede in Cristo con le religioni orientali che aveva analizzato nel periodo degli anni ’30. La religione laica e sovrannazionale del Pettazzoni, in Eliade, infatti, prenderà le forme nebulose di un Cristianesimo cosmico, preoccupato più di farlo aderire ad un’unicità dei primordi, che di riscoprirne le valenze salvifiche e realizzatrice, insite, a nostro parere, in alcuni suoi orientamenti ascetici ed orientali (il nostro è un voluto riferimento al famoso saggio di Montanari sull’Esicasmo).

In tale prospettiva, il rapporto dell’Eliade con il mondo tradizionalista ha dato vita a diverse ipotesi, anche formulate dall’interessato. L’idea che la sua azione d’indagine potesse rappresentare un cavallo di Troia, grazie al quale idee e conoscenze di natura iniziatica potessero far breccia nel mondo ovattato e spesso poco permeabile degli studi specialistici ed accademici, non troppo condivisa né da Evola né da un Valsan, si oppose alla teoria, esposta dal Montanari, molto più avveduta – e noi lo condividiamo a pieno – della ricerca specialistica riprendente il simbolo dell’Arca di Noè, che Eliade pensò per se stesso, per la quale lo studio della storia delle religioni rappresenti un valido strumento di avvicinamento al dato sostanziale ed

[caption id="attachment_19985" align="alignright" width="300"]Mircea Eliade Mircea Eliade[/caption]

esperienziale delle tradizioni mitiche e religiose. E’ un approccio molto importante, a nostro avviso, non solo nella disquisizione inerente Eliade, ma per quella che è l’intera prospettiva tradizionalista, in cui spesso emergono due opposte posizioni, di natura esclusivista e fondamentalistica: da una parte, l’idea che la dottrina tradizionale non necessiti di alcuna validazione scientifica ed erudita – dando vita a eloquenti fenomeni di falsificazione immaginaria o di elucubrazione psichiatrica –,  dall’altra che la stessa dottrina debba esclusivamente dipendere dalle fonti filologiche, senza che alle stesse possa essere attribuita un’interpretazione simbolica ed allegorica – smarrendosi, ad un certo punto, la concezione idealista e spirituale di Tradizione, in un totale appiattimento con lo specialismo erudito –.

Tale dibattito, sempre in riferimento con gli studi sia di De Martino, sia di Evola e Guènon, sia di Pettazzoni ed Eliade, trova la sua validazione nel testo, allorchè si pone in evidenza la distanza spesso rimarcata da Eliade rispetto al mondo dell’iniziazione e del suo segreto, quale dati prettamente illusori, ed il processo di allontanamento già descritto e graduale rispetto ad alcuni suoi rappresentanti, come furono Evola e Guènon, addirittura definiti “dilettanti”.

A tal ruguardo, bene fa Montanari, nella Premessa a tematizzare un aspetto, quanto mai attuale, del pensiero fenomenologico di Eliade, a proposito della funzione, non solo formativa e catartica, nei confronti dei veleni ermeneutici contemporanei, dello studio della "storia delle religioni", ma in relazione anche alla possibilità che certi testi (e cita l'esempio del Corpus Hermeticum o gli Dei della Grecia di Walter Otto) possano effettivamente realizzare una trasformazione iniziatica e cioè risvegliare l'uomo arcaico che è dentro di noi; a tal proposito Eliade stesso, dinanzi ai componenti della Grande Loggia nazionale di Francia, in una conferenza tenuta nel 1980, avente per tema proprio "l'iniziazione ed il mondo moderno", definì tale fenomeno spirituale: "iniziazione libresca", in palese confronto polemico, ed è ovvio, con il settarismo elitario e cerimoniale dell'ambiente massonico medesimo.

Vi è l’espressione profonda di un misticismo laico, di un sapere che irrazionalmente pretende di superare la conoscenza intensa come autentica palingenesi interiore, del dominio del libro, inteso non come strumento e supporto, ma quale subdolo sostituto della catarsi. Una tale pretesa è, dal nostro punto di vista, assolutamente giustificata dinanzi alla parodistica e vuota ritualità latomistica, ma non può esserlo, assolutamente, se posta innanzi ad un autentico percorso tradizionale ed iniziatico, in cui preparazione dottrinale, ascesi e rito trasmutatorio convivono armonicamente.  Mirabile è stata, infatti, la scelta di Montanari di riprendere un passo di Cioran su Eliade, che noi estendiamo a tutto un certo modo di approcciarsi al Sacro: "Chi possiede una sensibilità religiosa non passa la vita a enumerare gli dei, a fare il loro inventario...[5].

Infine, riserviamo alcune considerazioni più analitiche all’ ultimo capitolo dell’opera, <Tempo “ciclico” e Tempo “lineare” nella Roma repubblicana>, in cui viene tematizzata una severa critica agli studi di Marta Sordi, celebre storica italiana, i quali contemplavano l’esistenza di un’univoca concezione del tempo nel mondo etrusco ed a Roma, quale insieme di corsi e ricorsi, di colpe, espiazioni, redenzioni “…parte dell’eredità spirituale che l’Etruria aveva consegnato a Roma”[6]. Tale esposizione del Montinari, per inciso, supera finalmente un certo clichè anti-evoliano, monotono e al quanto poco documentato, del filosofo romano (non citato) non aggiornato ed informato, appiattito sulle vetuste argomentazioni del Bachofen, nell’ambito degli studi archeologici e filologici inerenti la diversità ontologica della civilizzazione etrusca rispetto alla tradizione romana, in piena concordanza con altri autorevoli studiosi di ambito accademico e di ricerca tradizionale, quali Mario Torelli[7], Aldo Schiavone[8], Paolo Galiano e Giandomenico Casalino, senza considerare le nuove analisi archeologiche di un Carandini o l’innovativa prospettiva antropologica di un Maurizio Bettini.

[caption id="attachment_19984" align="alignleft" width="300"]Marta Sordi Marta Sordi[/caption]

Tale concezione del tempo, a buon ragione, è motivo per l’autore di alcune perplessità. La prima è la presunta eredità di un’idea lineare del tempo, che, se realmente desunta dagli Etruschi, sarebbe stata appunto ciclica e non lineare. La ripetizione di un archetipo è per Montanari, la ripetizione di un esito, ma non di un medesimo accadimento. In riferimento, al complesso pittorico della Tomba Francois, quale importante monumento di testimonianza etrusca, l’autore contempla l’esistenza di una ripetizione simbolica di alcuni aventi natura equivalente ma non identificativa:”Esso dimostra anche che, presso alcuni popoli etruschi, il ripetersi <ciclico> di gesta vittoriose non era visto in sintonia con i Romani (come poteva accadere per i Ceriti o per i Chiusini), bensì contro di essi”[9]. La disposizione romana del tempo è la determinazione fattiva della storia in una “sequenza lineare di eventi”, senza ricorsi di un archetipo primordiale: il romano crea la storia, non la rivive, vive il Mito, non lo riattualizza. Importante è, inoltre, come saggiamente evidenzia il prof. Montanari, l’idea che il romano aveva della propria esperienza storica, quale esperienza nuova, come era nuova. Non casuale era, infatti, il riferimento alla datazione del Post Capitolinam Dedicatam, che “coincideva infatti con la successione degli anni consolari ed era avvertita come un inizio <assoluto>, che partiva dalla cacciata della dinastia etrusca”[10]: la cacciata dei Tarquini venne sentita come un’era nuova! Nel testo sono offerte altre prove documentali a sostegno di tale tesi, a sostegno dell’indipendenza romana rispetto al fatalismo etrusco. Un’ultima riflessione, l’autore, la pone nei riguardi dei vaticinii, nell’ambito dell’aruspicina e della presunta “concezione romano-etrusca della storia”[11]. A differenza dell’Etruria, le modalità romane di conoscenza della volontà divine non erano mirate alla predizione del futuro, ma alla convalida di un’azione già in atto nel presente: è la differenza fra aruspici ed auguri rappresentate da Cicerone nel suo De Divinatione, oltre che dall’Autore che lo cita in nota, che non casualmente paragona gli aruspici agli indovini di villaggio, di strada, ai ciarlatani. L’uso dei responsi di origine etrusca era, tuttavia, largamente attestata nella società romana, con valenza diverse, quale uso pragmatico degli stessi, a cui lo stesso Augusto fece ricorso per la determinazione del proprio ruolo di destino nella storia di Roma, storia di una grande civiltà che pragmaticamente non accetto un atteggiamento lunare e fatalistico, in attesa che la storia si compiesse. Il testo del prof. Enrico Montanari si conclude, pertanto, con un’espressione che sintetizza alla perfezione l’interezza della sua disamina, quale espressione altamente culturale che non relega il lettore in confini determinati ed angusti di interpretazione, ma offre la possibilità di attuare una libera presa di coscienza di dimensioni, quale quella specialistica, quella tradizionale e romana, nella loro profonda autenticità: "a Roma, l’equilibrio della pax deorum dischiude la prospettiva di una temporalità indefinitamente aperta, che propizia la realizzazione della civitas augescens”.

Note: [1] Storia e Tradizione, p. 67. [2] Storia e Tradizione, p. 78. [3] Storia e Tradizione, p. 101ss. [4] Storia e Tradizione, p. 113ss. [5] Storia e Tradizione, p. 196. [6] Storia e Tradizione, p. 203-4.

[7] Mario Torelli, archeologo italiano, docente di Archeologia e Storia dell'Arte greca e romana all'Università di Perugia, membro ordinario dell'Istituto Nazionale di Studi Etruschi e Italici a Firenze, nella sua fondamentale opera “La forza della tradizione Etruria e Roma: continuità e discontinuità agli albori della storia”(Edizioni Longanesi, Milano 2011), ha ben evidenziato come, pur in presenza di innegabili influenze nell’ambito degli auspici e dei prodigia, vi sia una diversa predisposizione al Sacro tra etrusca disciplina e religiosità romana, tra un’evidente soccombenza etrusca rispetto alle manifestazioni del Divino ed una potestà magica romana, di paritetica attività. Si può consultare anche il saggio “Scienza greco-romana. Religione, società e scienza”, a cura dello stesso Torelli (oltre, per la parte prettamente greca, a firma di Giovanni Pugliese Carratelli), consultabile online anche sul sito della Treccani.

[8] Aldo Schiavone, professore ordinario per lungo tempo di diritto romano presso le Universaità di Bari e di Firenze, nella sua “Storia del Diritto Romano e linee di diritto privato” (Giappichelli Editore, Torino), nel paragrafo “La monarchia etrusca nella tradizione romana” ha ben evidenziato come “Nonostante l’evidente influenza degli etruschi, sembra comunque da escludere che il periodo etrusco abbia implicato l’assoggettamento dei Romani ad una vera e propria dominazione straniera; è più probabile, in conformità alla versione delle fonti, che una dinastia etrusca si sia impadronita del governo della città nel sesto secolo a. C., a fronte però di una più incisiva presenza locale della comunità romana”, e quindi di come è scientificamente errato considerare la civiltà romana quale emanazione diretta di quella etrusca, essendo espressioni di un diverso orientamento giuridico-religioso.

[9] Storia e Tradizione, p. 206. [10] Storia e Tradizione, p. 208. [11] Storia e Tradizione, p. 210ss.  

Con Roma e la Tradizione, nella diuturna lotta tra la luce e le tenebre

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Svastica

Ieri, saturdì VIII ottobre MMDCCLXIX AUC, ottavo giorno prima delle idi di ottobre, si è svolta a Mediolanum la conferenza "Civitas Sapientiae", organizzata da EreticaMente presso la sede milanese dell'Associazione Nazionale Volontari di Guerra. Un affascinante incontro sulla dimensione sapienziale ed iniziatica della Tradizione romana animato da preparatissimi ed eruditi relatori che hanno dedicato la loro vita alla riscoperta e alla tutela della nostra inestimabile eredità gentile. La suggestiva cornice combattentistica ricreata dall'ANVG ha conferito un sapiente tocco di militanza patriottica all'evento, sotto l'egida di Marte e in onore di tutti coloro che nelle guerre passate sparsero il loro sangue italiano per difendere la Patria, senza volere nulla in cambio.

L'iniziativa ha riscosso un notevole successo in termini di qualità e di pubblico, sempre attento e mai annoiato durante gli interventi dei relatori, segno che oggi più che mai chi cova dentro di sé il sacro fuoco tradizionale ha sete di Verità da placare abbeverandosi alle fonti della sapienza antica italica e romana, ancora attuale nei suoi insegnamenti, nei suoi modelli, nei suoi esempi di vita, nella sua lezione diuturna sullo scontro tra le forze della luce di retaggio ariano e quelle delle tenebre, di retaggio levantino. In un'epoca come questa, in cui le tenebre sembrano prevalere su tutto e tutti, gli araldi di Identità e Tradizione si sentono in dovere di attingere linfa vitale dalla romanitas per potere affrontare al meglio le sfide odierne in cui però si ripropongono tuttora gli schemi passati della lotta epica tra chi difende il sangue, il suolo, lo spirito e chi invece si aggrappa con tutto sé stesso - crollando miserevolmente coi suoi idoli di pietra che lo schiacciano - ai finti valori contemporanei, che non sono altro che barbarie occidentalista all'americana.

Con l'introduzione e la moderazione di due baldi esponenti ANVG come gli emiliani Benzi e Sogari, hanno via via preso la parola i vari relatori: il dottor Barbera, di Pietas, che ha parlato di Roma come società iniziatica; l'avvocato Casalino che ha parlato del mistero di Roma e della tradizione ermetica; il nostro Luca Valentini che ha affrontato l'essere nume, la dimensione magica romana; infine due ragazzi di Polemos, Boco e Anselmo, hanno illustrato, con l'ausilio di testi, la forza della romanità in due figure fondamentali per l'Italia intera come Cesare e Augusto, e la stessa forza romana nel contesto d'origine che è quello indoeuropeo, segnatamente quella forza scaturita dalla fondazione dell'Urbe ad opera di Romolo.

La rassegna ha visto sugli scudi specialisti, saggisti ed eruditi di varia estrazione etno-culturale: emiliani, calabresi, salentini, pugliesi, veneti e piemontesi, diversi ma inscindibilmente uniti dall'amore per l'Italia e per Roma-Amor che ne è la sua anima. Davvero suggestivo gustarsi interventi di animi appassionati della romanità, innamorati di Roma e della sua essenza indogermanica, ognuno col proprio vissuto e la propria preparazione, originari di varie terre della Penisola italica; solo uno stolto potrebbe rimanere indifferente di fronte alla grandezza storica, militare, culturale, metafisica e spirituale della Città Eterna, la culla dello Ius (che come sappiamo affonda le sue radici nel sacro della romanitas) e della meravigliosa lingua latina vanto di tutti i popoli romanzi ma in particolar modo della Saturnia tellus, dell'Italia. E infatti lo stolto sunnominato diviene ancor più stolto e patetico se italiano, e fossilizzato su ridicoli stereotipi d'oltreoceano basati sull'Italia contemporanea. Chi mai potrebbe essere così idiota da confondere ciò che realmente è l'essenza più intima dell'italianità, e di Roma quindi, con l'attuale degrado in cui versa la Capitale, lentamente uccisa da 70 anni di repubblica partigiana di proprietà statunitense?

L'archeologo Giuseppe Barbera ha colpito per l'enfasi e il fervore impiegati durante la sua relazione, segno tangibile di chi ha la lava dei vulcani del Sud nel sangue ed è quindi infiammato di amore patriottico per Roma e per l'Italia; l'avvocato e saggista Giandomenico Casalino, forte della sua esperienza ed erudizione nel campo, ha sottolineato con grande abilità oratoria il significato di Roma-Amor nella storia dell'Urbe e dell'Italia (ma anche dell'Europa); Luca Valentini, con fermo piglio, ha difeso l'idea di Tradizione dai rischi delle banalizzazioni contemporanee derivanti dalle forme di neopaganesimo, dalla "cristianizzazione" per così dire di pratiche che innanzitutto dovrebbero essere interiori; infine la nordica doppietta Boco-Anselmo, compassati e flemmatici rispetto agli altri (anche per la giovane età presumo), ma nondimeno esperti, preparati ed efficaci nel proporre spunti interessanti, soprattutto a livello storico, per riflettere su Roma nella Storia e nel contesto degli Arya.

Ciò che si è potuto evincere dai loro contributi segue un sottile filo rosso che collega l'antichità ariana e romana all'oggi, passando per cruciali fasi storiche come l'Italia medievale e il Fascismo, ed evidenzia l'immortalità dello spirito di Roma che esce vittorioso e ancor più luminoso da ogni scontro con la barbarie affaristica e mercantilistica delle tenebre dell'animo umano; l'essenza della romanità sta nel mos maiorum e nella pax deorum che non è uno sterile esercizio di stile ma il fondamento spirituale e metafisico dell'essere romani, e italici, da cui scaturisce l'agire bellico, politico e giuridico che ha reso grande la gloria di Roma. La Tradizione di Roma nasce e cresce nell'alveo di quella ariana, e gli studi di grandissimi autori sottolineano proprio come nella nostra immortale Capitale si realizzi appieno la sacralità del disegno che mosse le spade conquistatrici dei nomadi indoeuropei provenienti dalle steppe del nordest europeo.

Un disegno spirituale e culturale, che si fa appunto azione concreta e storica, che contrappone nei secoli la romanità a ciò che è alieno all'etica (indo)europea: punici, levantini, giudei e galilei e dunque fanatismo giudeo-cristiano di estrazione mediorientale. All'ethos ariano fatto di solarità, virilità, patriarcato (ma anche di complementarità tra maschile e femminile, nulla a che vedere con la misoginia semitica) e di sacra tripartizione funzionale della società e del pantheon indoeuropei rispondono i presunti valori dell'oriente abramitico e "mesopotamico" con tutte quelle tenebrose disposizioni morali intrise di mentalità lunare, effeminata, ctonia, funerea e perciò monoteista (il che ammazza i culti tradizionali e la vera essenza della spiritualità europea).

E noi in quanto eredi diretti dei Romani, grazie al disegno sacrale dell'Italia, abbiamo il diritto e il dovere di far rivivere questi valori quasi del tutto dimenticati - se non fosse per i tradizionalisti e gli identitari - per contrapporli alla terribile desertificazione animica dell'Occidente a guida americana, che ripropone i torvi ghigni assetati di denaro e di potere conquistato in maniera infame, già notissimi ai nostri Padri romani. È l'eterna lotta del sangue contro l'oro, del suolo patrio contro la distruzione cosmopolita, dello spirito solare, uranico e luminoso contro il deserto orrorifico della ripugnante temperie contemporanea fatta di materialismo zoologico, positivismo ateo, modernismo relativista che si avvale anche dei culti abramitici, corpi estranei incistati in Europa e così tossici da divenire alleati preziosi nel controllo mondialista dei popoli europei ridotti a massa informe e imbastardita.

Devo dire che in passato, quando ancora ero su posizioni lombardiste estremistiche, la tentazione di seguire percorsi sì razionalistici ma anche irreligiosi, empi, è stata forte perché c'era la tendenza a mettere nello stesso calderone il monoteismo semitico (in tutto estraneo a noialtri) con la gentilità cosiddetta pagana di popoli italici, ellenici, celtici, germanici, indo-iranici e così via in quanto religioni. Ma era un errore madornale e davvero grossolano: non possiamo confondere ciò che è religione vera e propria ossia costruzione storica e politica della Chiesa, a uso e consumo del dogmatismo e della sterile pratica rituale del cattolicesimo, con ciò che è vera, genuina e unica Tradizione, un filone di gentilità giunto sino ad oggi e suscitato naturalmente dallo stretto rapporto tra sangue e suolo da cui sgorga lo spirito che plasma l'azione di un popolo. Bisogna dunque saper distinguere tra la costruzione politica di classi parassitarie (le chiese) e il sincero afflato spirituale che scaturisce dall'animo umano sensibile al richiamo metafisico, ermetico e alchemico, magico (la gentilità ariana). Le chiese si trastullano con aride pratiche materiali fatte di codici e codicilli morali (o pseudo tali) da rispettare, altrimenti si finisce all'inferno, espressioni di una dottrina aliena, nei riguardi dell'Europa; le tradizioni cosiddette pagane nate dallo spiccato senso del sacro presente negli Arya, invece, invitano a guardarsi dentro per migliorarsi e sapersi così rapportare al divino, un divino che è nel mondo e prima di tutto dentro di noi.

L'importanza dello spirito e della spiritualità è cruciale per tutti noi, anche in chiave identitaria e (meta)politica, perché senza di essi la materia, il corpo, il sangue e quindi la nostra dimensione biologica e genetica rischia di rimanere lettera morta. Se non c'è una fides e una pietas ad animare le nostre battaglie armando il nostro braccio, il sangue rimarrà un mero fluido rosso privo di profondi significati quali sono invece quelli della coscienza etno-razziale plasmata dalla mente e dal cuore illuminati dalla spiritualità. E badate che anche la cultura e lo studio sono spiritualità, tutto quello che diventa esercizio di introspezione e di conoscenza diviene spiritualità, naturalmente nella misura in cui poi il nostro tesoro interiore non venga gettato alle ortiche o trattenuto egoisticamente, lasciandolo così all'incuria, ma venga invece offerto alla propria comunità in nome della Patria.

Queste sono le battaglie degli Eretici della nostra comunità militante, di chi cioè non si piega e non si piegherà MAI di fronte ad ogni genere di dogmatismo ma porterà avanti per sempre la battaglia della vera libertà, della vera giustizia e della vera Tradizione, che non è quella (finta) che incatena e fossilizza rendendo schiavi del sistema mondialista e plutocratico, ma quella (vera) che affranca e realizza il singolo senza estirparlo dalla propria comunità etno-culturale perché testimonianza, per davvero rivoluzionaria, in un'Europa ridotta a grigio conformismo borghese e consumistico appiattito sull'agenda imperialista delle sataniche forze delle tenebre d'oltreoceano. Le nefande forze di quell'oscurità che, ieri come oggi, uccide i popoli in nome del denaro, della menzogna universalista e del sistema imperialistico che con il sacrale disegno imperiale nato a Roma e proseguito in Italia, Germania e Russia non ha nulla a che vedere.

Il dogma, signori, difende la mendacia delle classi parassitarie, perché nasce appositamente per quello scopo; l'eresia invece, intesa come libera scelta e obiezione di coscienza nei confronti del predetto dogmatismo, difende il cervello, il cuore e il corpo di una comunità di sangue, suolo e spirito contro la barbarie dei regimi fondati sulla fallacia e sull'inganno ai danni della Nazione. Ai danni dell'Europa e della sua vera natura, che non è nella maniera più assoluta giudeo-cristiano-islamica.

Ave Italia!

AQUILA IN AURO TERRIBILIS ∼ Tradizione ghibellina e tradizionalismi guelfi – (1^ parte) Piero Fenili

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Federico II

 

Sì. Egli dorme in una Cattedrale,

entro l'eterno porfido dell'arca...

Al morto grande imperador di Roma

dissero pace i vescovi di Cristo.

Di lui parlò ‘l rabbino al Dio d'Abramo,

a braccia spante volto all'Oriente.

Per lui, girando attorno al minareto,

le cinque volte il meuzzin cantò.

(Giovanni Pascoli)

Per una sorta di trasbordo ideologico, inavvertito dai molti, consapevole o, addirittura guidato da parte di pochi, si assiste in Italia ad una lenta ed impercettibile sostituzione del tradizionalismo alla Tradizione.

Si tratta di un curioso e multiforme fenomeno storico-culturale, nel quale entrano in giuoco varie componenti, che vanno dalla pigrizia intellettuale al risveglio di sopiti timori religiosi, ai condizionamenti emotivi, fino alla lucida determinazione, da par­te di alcuni, di "orientare" l'ondeggiante e confuso ambiente "tra­dizionale" in direzioni prescelte e ben individuate. In tal modo, in un arco di tempo relativamente ristretto, limitato, in pratica, agli anni settanta, si e venuta offuscando, in molti casi, la nitida consapevolezza dei lineamenti della Tradizione, ad esclusivo vantaggio di varie, forme di tradizionalismo.

Riveste quindi un carattere di particolare interesse ed attua­lità il richiamare, sia pure per sommi capi, i tratti fondamentali della Tradizione e quindi, alla stregua degli stessi, additare gli er­rori contenuti nelle più diffuse forme di tradizionalismo che si sono venute affacciando negli ultimi. tempi.

Al riguardo, occorre innanzitutto sottolineare, a scanso di equivoci, che la conoscenza della Tradizione, in Occidente, si identifica con la metafisica imperiale, classica e romana, superiore a qualsiasi particolare formulazione dogmatica religiosa, ed ap­partiene, di diritto, al Ghibellinismo, che di quella metafisica è la proiezione operante attraverso i secoli, culminata, nel Medioevo, nel programma spirituale e politico del grande Imperatore Fede­rico II, per quanto l'ambiente ed i tempi lo consentivano.

Il primo ed incrollabile fondamento sul quale poggia la Tradizione è rappresentato dalla dottrina dell'Unità principiale e metafisica delle singole forme storiche tradizionali. Esso consegue necessariamente dall'Unicità del Supremo Principio Divino Trascendente, dal quale tutte le manifestazioni iniziatiche, sacra­li e religiose, apparse nel corso del tempo, discendono come da una medesima origine.

La consapevolezza di tale Unità fu del tutto chiara ed evi­dente negli alti esponenti dell'intellettualità classica imperiale. Simmaco, ad esempio, affermò: « Contempliamo gli stessi astri, lo stesso cielo è a tutti comune, lo stesso mondo ci circonda: che importa se ciascuno ricerca la verità secondo il proprio discerni­mento? non è possibile giungere a sì alto segreto seguendo una sola via » (1).

Dalla dottrina dell'Unità principiale delle singole forme tra­dizionali discendono la tolleranza religiosa e la superconfessionalità insite nella concezione tradizionale dell'Impero. Esse sono chiaramente contenute nel c.d. Editto di Milano (313) degli Impe­ratori, d'Occidente e d'Oriente, Costantino e Licinio, i quali in esso affermarono di « dare cioé anche ai cristiani come a tutti li­bera possibilità di seguire ciascuno la religione che voglia, affin­ché tutto ciò che è divino nella sua sede celeste possa essere pla­cato e benigno verso di noi e tutti coloro che sono sotto il nostro potere. Abbiamo dunque ritenuto di dover prendere questa deci­sione con salutare e retta intenzione, che a nessuno si debba ne­gare questa possibilità, sia che uno abbia dato il suo animo alla religione dei cristiani sia a quella che egli ritiene per sé la più adatta, affinché la divinità somma, alla quale noi liberamente prestiamo ossequio, possa concederci in ogni cosa il favore e la benevolenza consueti » (2).

L'Impero, quindi, consacrato alla Somma Divinità comune a tutti gli uomini, come del resto è logico e naturale per una Autorità che è o può essere chiamata a reggere popoli di religione di­versa, deve essere, per principio, in certa misura, superconfessio­nale e tollerante, e non farsi coinvolgere in dispute o lotte reli­giose, per non venir meno al dovere supremo di garantire Pace e Giustizia ai popoli governati. Tale carattere dell'Impero si comu­nica altresì a qualsiasi Monarchia che intenda assicurarsi un fondamento tradizionale, e pertanto l'intolleranza religiosa è sem­pre sintomo sicuro dell'offuscamento del carattere tradizionale del Potere esercitato, e del suo assoggettamento a questa o quel­la particolare confessione religiosa.

Quanto sopra è stato lucidamente intuito da un autore tradizionale non privo di profondità, Frithjof Schuon, il quale, trattando della relazione tra Impero e Papato, così scrisse: « L'imperatore incarna, di fronte al papa, il potere temporale, ma vi è di più: rappresenta anche, per il fatto della sua origine precristiana e quindi celeste, un aspetto di universalità, mentre il papa si identifica per la sua funzione alla sola religione cristiana. I musulmani di Spagna furono perseguitati soltanto a partire dal momento in cui il clero era divenuto troppo potente in rapporto al potere temporale. Questo, che deriva dall'imperatore, rappresenta in questo caso l'universalità o il "realismo", e pertanto la "tolleranza"; dunque, per forza di cose, un certo elemento di saggezza » (3).

Noi aggiungiamo che quel "certo elemento di saggezza" risiede appunto nella natura superconfessionale e quindi metafisica dell'Impero, carattere che consente, in Occidente, di individuarne i presupposti sacrali risalendo ad epoca precedente l'avvento del Cristianesimo, senza per questo porlo in antitesi con quest'ultimo, appartenendo metafisica e religione a due piani diversi. Il riferimento di Schuon alla persecuzione dei musulmani di Spagna ci offre lo spunto per sottolineare che una retta concezione della Monarchia tradizionale (usiamo il termine Monarchia nel significato dantesco) comporta la sua astensione dall'interferire nelle dispute possibili fra le tre Religioni di ceppo mono­teista l'Ebraismo,: il Cristianesimo e l'Islam, cosi come, per quanto riguarda l'Europa in particolare, nelle divergenze e separazioni sorte all'interno dello stesso Cristianesimo. Si tratta di problemi tutt'affatto particolari e di difficile impostazione e risoluzione, di competenza delle singole autorità religiose, e la Monarchia tradizionale, prendendo partito per l'uno o l'altro dei contendenti, non farebbe altro che venir meno al suo carattere metafisico ed universale ed all'obbligo di assicurare a tutti la pace e la giustizia. Le guerre di religione che in passato insanguinarono l'Europa sono un esempio storico più che eloquente del terribile scotto che occorre pagare ogni qualvolta ci si allontani dai saldi principii della Tradizione. Basti dunque alla Monarchia tradizio­nale garantire il libero svolgersi, della vita religiosa dei popoli ed impedire che qualsiasi gruppo religioso possa prevaricare sugli altri.

Ma anche quando il Monarca si trovasse a regnare su di un popolo appartenente del. tutto o nella maggior parte ad un'unica confessione religiosa (ad es. il Cattolicesimo), egli dovrebbe, anche in tal caso, conservare un certo margine di superconfessionalità per potersi dire veramente tradizionale. Soccorre, a tal fine, la dottrina ghibellina per eccellenza, secondo la quale il Po­tere discende al Monarca direttamente da Dio e non per il trami­te dell'autorità religiosa (il Papato, nel caso del Cattolicesimo), secondo quanto dimostrato, una volta per tutte, da Dante Ali­ghieri, nel libro terzo del SUO trattato sulla Monarchia. In tal modo anche una Monarchia cattolica può mantenere, derivando direttamente la sua autorità da Dio e non dal Papato, un certo grado di superconfessionalità, in quanto, secondo una acuta espressione di Frithjof Schuon, "il Cristianesimo è divino, ma Dio non è cristiano" (4), o meglio, riteniamo noi, non è cristiano più di quanto sia induista, mussulmano, ecc.

Vero è, tuttavia, che i guelfi, facendo leva sulla dottrina, peraltro giusta (Giovanni, I, 1), che identifica il Verbo divino con il Cristo, pretenderebbero, per questa via, di estendere la giurisdizione spirituale del Cattolicesimo, e quindi del Papato, non solo alle Tradizioni extra-cristiane, bensì anche a quelle pre-cristiane! Essi però ignorano, o fingono di ignorare, che anche in altre Tradizioni viene rivendicata l'essenza superstorica, trascendente ed universale dei rispettivi fondatori. In tal modo, ad es., nell’Islam si sostiene che Maometto "era" prima ancora che Adamo fosse: « Egli (Mohamed) era Profeta (Verbo) quando Adamo era ancora tra l'acqua ed il fango » (5), mentre nel Buddhismo si af­ferma addirittura la trascendenza metafisica del Buddha nei con­fronti dello stesso Essere supremo (6). Donde l'incapacità dei guelfi ad attingere un punto di vista veramente metafisico ed uni­versale e la loro condanna a permanere in uno stato di perenne conflittualità, più o meno latente, con le altre Tradizioni, conflit­tualità in cui hanno sempre cercato di coinvolgere i Monarchi.

Soltanto al Ghibellinismo, al contrario, in virtù della sua natura superconfessionale, connessa alla metafisica classica del­l'Imperium, compete di operare la sintesi suprema, che salda organicamente le varie Tradizioni intorno alla Trascendenza del­l'Uno e permette di instaurare giusti rapporti tra le stesse.

Posto dunque il carattere metafisico, esoterico e superconfessionale della Tradizione ghibellina, occorre considerare breve­mente anche la posizione che essa assume nei confronti della Romanità, posizione che vale a distinguerla nel modo più netto e radicale dai vari tradizionalismi di stampo guelfo.

La posizione del ghibellinismo sulla decisiva questione si può riassumere nel modo che segue: la Romanità classica imperiale, che operò la sintesi della sacralità del mos maiorum italico con la sapienza ellenica, non si è affatto estinta con l'avvento del Cristianesimo, ma ha continuato a sussistere, ancorché in modo vir­tuale e non appariscente, conservando integri tutti i suoi diritti, le sue prerogative e le sue potestà. Questa verità, che è oggetto di dimostrazione storico-tradizionale nel contesto di studi avviati in altra sede, (7) è particolarmente riconoscibile nel magistero sa­piente di Dante Alighieri, il quale riannoda esplicitamente e di­chiaratamente il suo insegnamento sapienziale, sub specie inte­rioritatis ac veritatis, in termini di assoluta certezza esoterica, a quello di Virgilio, il grande Vate iniziato della Romanità augustea.

Lungo gli anelli dell'aurea catena Homeri si è perpetuata la Tradizione classica romana, secondo modalità sacrali che sfuggono necessariamente a quanti sono soltanto infarinati della fa­cile dottrinella pseudoiniziatica relativa alle trasmissioni carta­cee "regolari", con tanto di timbri, bolli e certificati notarili e magari con l'accompagnamento di qualche suggestiva sceneggia­ta. Certamente costoro non possono nemmeno immaginare che la Fiamma, per propagarsi, non ha alcun bisogno della carta bol­lata. Valga per essi, dunque, il vecchio detto latino: "Sutor, ne supra crepidam!",

Non intendiamo tuttavia insistere su di un tema tanto arduo e delicato. Diremo quindi, più semplicemente e pianamente, che grazie all'opera paziente ed indefessa di molti seguaci della Tradizione classica, il patrimonio conoscitivo di essa è giunto sino a noi, malgrado le menomazioni subite a causa di eventi storici catastrofici e dell'ostilità degli uomini, in condizioni di sufficiente completezza, tali da poterne ricavare la dottrina e la prassi dell'Imperium. Il seme si è conservato integro, e da esso può sem­pre germogliare un grande albero.

Tale dottrina impone, per motivi di geografia sacra ben conosciuti nell'Antichità e ripresi da Dante nel Medioevo, che sede del Monarca sia Roma e che egli estenda la sua potestà almeno al­l'Italia intera, senza dividere il suo potere con alcuno e tanto meno con il Papato.

Su tale punto occorre essere chiari, perché costituisce un elemento qualificante della dottrina tradizionale ghibellina: il legit­timo dominio sull'Urbe e sulla Saturnia Tellus spetta soltanto ad un Monarca romuleo, che si riconnetta cioé, nei modi che i tem­pi suggeriscono, al mos majorum italico, nel senso di porsi come continuatore cosciente di una Tradizione che affonda le sue radici nell'Italia arcaica, e di rappresentarla, pertanto, conforme allo spirito dei tempi, senza anacronistiche scenografie ma anche sen­za abdicazioni e rinunzie all'essenziale.

Questo non significa affatto neopaganesimo, sibbene soltanto rifiuto di qualsiasi abdicazione nei confronti della Tradizione classica e, a maggior ragione, rifiuto di considerarla estinta, così come invero la considerano estinta (con o senza imbalsamazione, a seconda dei casi) i vari tradizionalismi guelfi.

Il disconoscimento del perpetuarsi di una vitalità autonoma della Tradizione classica, infatti, è l'elemento di fondo che accomuna tutti i tradizionalismi guelfi, si tratti del guelfismo ispano-partenopeo di Francisco Elias de Tejada, o dello pseudo ghibelli­smo austriacante di Attilio Mordini, oppure del contro-rivoluziona­rismo limitato ed a senso unico di Plinio Correa de Oliveira. Di questi autori, peraltro, e di altri ancora, ci occuperemo specifica­mente nel prosieguo di questo articolo.

Ciò che invece vale subito sottolineare, è che il ghibellinismo non è in alcun modo ostile al Cristianesimo, già considerato religio licita dell'Impero, come si è visto, nel c.d. editto di Milano. Per il ghibellinismo, quindi, la religione di Cristo è degna oltre che, come è logico, di venerazione da parte dei credenti, anche del massimo rispetto da parte di coloro che credenti non sono.

Questo valga a distinguere il ghibellinismo da quelle forme attuali di neopaganesimo, che meglio potrebbe definirsi neobarbarismo, promotrici di dispute religiose che sono agli antipodi del­lo spirito di serena e profonda comprensione che fu la preroga­tiva della più alta Classicità.

Diremo di più: un Cattolicesimo inteso in senso dantesco, che non tronchi, cioé, il legame vivente con la Tradizione classica, traendo anzi da esso, senza timori, tutte le necessarie conseguenze, costituisce il modo naturale di svolgimento del ghibellinismo, dal Medioevo in poi, ed ha trovato, in epoca moderna, il suo più acuto interprete in Luigi Valli. Questo non impedisce, naturalmente, in virtù dei principii della superconfessionalità e della tolleranza, che si possa essere altrettanto ghibellini, facendo per­no, anziché su Dante, sul suo maestro, Virgilio, con tutte le im­plicazioni che tale scelta comporta, pur nel riconoscimento della assoluta tradizionalità del pensiero di Dante per l'epoca medioevale e successiva.

Riconosciuta pertanto la perfetta compatibilità del ghibellinismo con un cattolicesimo dantescamente inteso (8) (così come del resto, ad es., con l'islamismo), occorre sottolineare, a scanso di equivoci, che il ghibellinismo non transige nel condannare co­me antitradizionale il tramontato potere temporale dei Papi ed in genere ogni forma di assetto politico che in esso abbia trovato il proprio centro di gravità e la sua ragion d'essere.

Così, i ghibellini, a differenza dei guelfi, non attribuiscono alcuna patente di tradizionalità all'Italia dei sette Stati preunitari, vero relitto storico di un'antica sovversione guelfa.

Nel valutare storicamente ciò che rappresentò il tramontato potere temporale dei Papi, i ghibellini non possono sottrarsi ad alcune considerazioni gravi ed amare. Se infatti è del tutto iniquo, come fanno i "neopagani", attribuire alla Figura redentrice ed avatarica del Cristo i caratteri e le colpe di quel mondo extra­europeo in cui ebbe ad incarnarsi, diverso è il giudizio che deve darsi quando una Tradizione esotica, accolta in Occidente, a Ro­ma, per il suo alto messaggio spirituale, si trasformò, come av­venne in passato, in strumento di tenace dominio temporale. Al­lora i ghibellini non possono tacere che il Papato affermò un po­tere temporale che pretendeva di giustificarsi in una tradizione venuta a Roma dalla Palestina. Ma la Palestina appartiene alla stessa area geografica e culturale in cui fiorì Tiro, la città che fu madre di Cartagine, la mortale nemica di Roma.

Narra Polibio (XXXVIII 21, 1) che Scipione Emiliano pianse sulle rovine di Cartagine, oppresso dal presentimento che un giorno anche la sua patria, Roma, avrebbe subito lo stesso destino. Il presentimento di Scipione si rivelò veritiero. Che altro avrebbe potuto egli fare, se non piangere, se avesse saputo che, per lunghissimi secoli, Roma ed il Lazio sarebbero caduti nel dominio politico di una Teocrazia per la quale il "popolo eletto" era quello dell'Antico Testamento, e non il Populus Romanus ?

Gherardo Donoratico (1-continua)     (1) Simmaco, Relat., 3,10, ín: I Saturnali di Macrobio Teodosio, a cu­ra di Nino Marinone, UTET, Torino 1977, pp. 13 e 14. (2) in: Claude Lepelley, L'impero romano e il cristianesimo, Mursia, 1970, pp. 105 e 1%. (I corsivi sono nostri). (3) Frithjof Schuon, L'uomo e la certezza, Boria, Torino 1967, p. 168. (4) Frithjof Schuon, Dell'unità trascendente delle religioni, Laterza, Bari 1949, p. 41. (5) Ibid., 151 (6) cfr: Julius Evola, La dottrina del risveglio - Saggio sull'ascesi buddhista, Laterza, Bari 1943, pp. 117-120. Sarebbe divertente, conside­rato che i Guelfi ascrivono alla massoneria tutto ciò che esula dagli oriz­zonti del loro dogmatismo confessionale, sapere come considerano la fi­gura del Buddha. Forse come un "33" di una Loggia di Rito Artico? (7) cfr. di Renato. Del. Ponte: Sulla continuità della Tradizione sacra­le romana, in ARTHOS, nr. 21, gennaio-giugno 1980. (8) Il ghibellinismo è invece incompatibile con un cattolicesimo rigi­damente e formalmente ancorato alla lettera del dogma. In tal senso ha avuto quindi perfettamente ragione Ezzelino, sul nr. zero di questa ri­vista (p. 27) a parlare di "cattolici ghibellini" come di una contraddizione in termini. Dal canto nostro, aggiungiamo, il cattolicesimo dantesco com­patibile con il ghibellinismo, cui ci riferiamo, più ancora che quello del trattato sulla Monarchia, è la dottrina nascosta "sotto il velame de li ver­si strani" investigata da Luigi Valli nel magistrale saggio Il segreto della Croce e dell'Aquila nella Divina Commedia, Bologna, 1922.   VISUALIZZA IL DOCUMENTO ORIGINALE Pubblichiamo col consenso dell'autore e con l'aiuto dell'amico Massimo Chiapparini Sacchini le quattro parti del presente saggio uscito per la storica rivista Il Ghibellino (1979 - 1983). Questa prima parte era compresa nel NUMERO 1 (luglio 1980 e.v.)
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