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L’islam non è Europa e non lo sarà mai

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Svastica

Esiste, negli ambienti della cosiddetta "area" cameratesca, un filone di simpatizzanti della religione musulmana che vedono in essa un baluardo religioso e spirituale contro la temperie mondialista e il dilagante materialismo ateo. Sembra che costoro non si facciano troppi problemi di fronte all'incompatibilità culturale e metafisica dell'islam con la nostra Europa, e nemmeno di fronte alla storia che ci insegna come, da sempre, i patrioti europei di tutti i tempi abbiano contrastato l'espansione araba (od ottomana) bloccando una possibile conquista islamica del nostro continente.

Gli eserciti dell'islam, lo sappiamo, conquistarono la Sicilia e la penisola iberica ad ovest (giungendo a minacciare seriamente la Francia) e i Balcani ad est dove ancor oggi vi sono ben precise sacche musulmane come la Bosnia, l'Albania, il Kosovo, anche se etnicamente indigene; e non dimentichiamo, inoltre, le scorribande saracene che flagellarono il Mediterraneo e l'Italia, riuscendo persino a penetrare nell'Italia nordoccidentale sbucando in Valle d'Aosta. Si consumarono per secoli delle battaglie tra gli eserciti cristiani europei e quelli maomettani degli invasori mediorientali, e alla luce di questo appare francamente ridicolo che i fedeli - allogeni - di una religione ancor più desertica del cristianesimo vengano oggi visti con simpatia da diversi tradizionalisti europei, e fondamentalmente perché nell'ultimo conflitto mondiale vi fu una congiuntura d'interessi tra Fascismo e Nazismo ed esponenti dell'islam, anche europeo (si pensi alle Waffen-SS bosgnacche). Suggestioni corroborate dalle opere di una Sigrid Hunke, ad esempio.

Risaputo, infatti, come Mussolini si proclamasse "spada dell'islam" o come Hitler simpatizzasse per il Gran Muftì di Gerusalemme, ma tutto questo andrebbe inquadrato in un'ottica di alleanze e di strategie politiche, tese a solleticare sollevazioni nel mondo islamico colonizzato dagli anglo-francesi, più che a legittimare gli influssi musulmani sul nostro continente. Il discorso vale anche per le famose SS volontarie balcaniche di fede islamica, che si inserivano nell'intricato panorama politico dei Balcani nel secondo conflitto mondiale. Pare che lo stesso Führer elogiasse l'islam come religione guerriera e maschia.

Vuoi per queste faccende, vuoi per l'attuale ruolo che certo islam ricopre in Medioriente nella lotta contro l'imperialismo giudeo-americano, sta di fatto che diversi "camerati", per così dire, vedono di buon occhio la religione maomettana e, quasi, ne auspicherebbero un'espansione europea a pieno regime per salvare gli Europei dal vuoto pneumatico di questi cagionato dalla barbarie postmoderna, culminante nel più bieco relativismo valoriale. Sembra che a questi personaggi sfugga del tutto un particolare (per modo di dire) fondamentale, nella questione in oggetto: l'estraneità totale dell'islam nei confronti dell'Europa e il fatto incontrovertibile che la stragrande maggioranza degli individui di fede musulmana siano originari di Paesi extraeuropei. Ma i nostri amici glissano, innamorati persi della natura guerriera dei maomettani; certo, come se la guerra non fosse stata centrale presso i nostri virili, solari e patriarcali avi indogermanici (e romani) o come se l'Europa medievale e moderna, ancorché cristianizzata, si fosse dimenticata della maniera in cui si adoperano le spade.

Diamine ragazzi, se il sottoscritto vedesse nel monoteismo abramitico una seria occasione di riscatto per la stessa Europa si terrebbe stretto il cattolicesimo, emendandolo dalla componente cristiano-giudaica e mantenendo in piedi l'impalcatura romana e tradizionalista; la Chiesa, al di là di tutto, è certamente intrisa di elementi squisitamente europei, di origine gentile, oltre ad essere da due millenni presente in Europa, mentre l'islam è del tutto esotico, estraneo, desertico oserei dire, figlio puro del mondo mediorientale e praticato come detto da genti allogene. Fortunatamente, la logica del meno peggio non mi riguarda, e me ne guardo bene dal santificare il cristianesimo cattolico in funzione islamofoba, perché sarebbe comunque ridicolo contrapporre all'islam una religione sua sorella, al pari del giudaismo.

La difesa del mondo musulmano come baluardo tradizionalista, da parte di un identitario europeo, fa acqua da tutte le parti ed è sinceramente assurda alla luce della natura completamente esotica del credo di Maometto. Se uno ha sensibilità identitaria e tradizionalista, in chiave europea, mica può pensare di difendere la sua visione delle cose sbandierando l'islam come soluzione agli attuali problemi culturali dell'Europa! Non si può pensare seriamente di fronteggiare il mondialismo, che passa anche per l'immigrazione di massa di islamici verso l'Europa, usando a mo' di clava la religione di questi stessi migranti, una religione storicamente avversaria del nostro continente e della nostra cultura, estranea ancor più del cristianesimo nei nostri riguardi! E guardate che qui l'islamofobia fallaciana non c'entra assolutamente nulla: ho il massimo rispetto per quegli sciiti che contrastano imperialismo americano, atlantismo e sionismo con la loro tradizione religiosa che si fa milizia, e che oltretutto combattono lo stesso fondamentalismo islamico che diventa terrorismo funzionale agli Americani per destabilizzare il Vicino Oriente.

Però, cari signori, per farsi rispettare dagli altri bisogna imparare innanzitutto a rispettare sé stessi ed è impensabile rinunciare alla nostra gloriosa tradizione anche religiosa, spirituale e metafisica per abbracciare culti esotici incompatibili con quella che è l'Europa. Ovviamente tale tradizione non è quella della Chiesa o del cristianesimo in genere (e men che meno dell'ebraismo, chiaramente) ma è quella indoeuropea, gentile, greco-romana, una tradizione che può rivivere e mantenere solido il legame atavico col mondo ariano esclusivamente in una religione civica di gusto mazziniano che sappia fondere gli aspetti etnonazionalisti con quelli mistici e metafisici, grazie al nostro inestimabile retaggio spirituale. Caspita, siamo i figli prediletti di Roma, come possiamo ignorare questo per avventurarci lungo sentieri impervi alla ricerca di improbabili succedanei del cristianesimo cattolico oggi morente, una religione già di per sé aliena e prodotto, principalmente, delle spinte ereticali dell'ebraismo?

Sappiamo bene come il cattolicesimo romano sia intriso di gentilità romana distorta, di tradizione pagana (un'etichetta usata in senso dispregiativo dai seguaci del Galileo ma che, in un certo senso, ha un che di positivo, di genuino, di rustico e non "globalizzato" come vorrebbe la fede cristiana, sinonimo di gentile e di etnico), riecheggiante gli antichi culti dei nostri padri ma rimane qualcosa di spurio e pervertito, piegato ad uso e consumo dei rabbini crociati e delle loro astruserie universalistiche. Sarebbe assai più logico e sensato riprendere in toto la tradizione romana riallacciandosi a quanto appartiene per davvero al nostro spirito, al nostro sangue, al nostro suolo natio. Non si ferma la desertificazione dell'Europa con dottrine imbevute di tale deserto: non si batte il relativismo moderno con l'assolutismo giudeo-cristiano che nasconde dietro i dogmi tutte le sue fallacie, e tanto meno con l'eresia di quello che è musulmanesimo ancor più esotico della religione del falegname nazareno.

Non condivido dunque in nessun modo le tendenze controproducenti di quei "camerati" che strizzano l'occhio all'islam credendo possa rappresentare una soluzione alla tremenda crisi spirituale e valoriale di questa Europa avvelenata dall'americanizzazione; personaggi che, magari, si dicono razzialisti, etnonazionalisti e anti-immigrazionisti ma che con le loro derive islamiste - spesso frutto di psicosi giudeofobe - non si rendono evidentemente conto di come si apprestino a sdoganare la presenza di milioni di allogeni musulmani. Rendendosi dunque complici della bomba mondialista rappresentata dagli esodi afroasiatici verso l'ex fortezza europea. Né ebraismo, né cristianesimo, né islam, tre teste del medesimo moloc monoteista, antico assaggio di ciò che oggi è il mondialismo, che trae linfa vitale da queste stesse tre fedi e dalla loro perniciosa portata fideistica anti-identitaria e anti-tradizionalista.

Ave Italia!


AQUILA IN AURO TERRIBILIS ∼ Tradizione ghibellina e tradizionalismi guelfi – (2^ parte) Piero Fenili

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federicoII

Bisogna spegnere la tracotanza

più che l'incendio.

Eraclito

Il punto di vista limitato ed exoterico, proprio, come abbia­mo visto, del tradizionalismo guelfo, comporta necessariamente una visione incompleta e distorta della vera natura delle forze agenti nella storia e conduce ad un grave travisamento del vero significato degli accadimenti storici.

Già Evola aveva ammonito a non confondere il punto di vi­sta tradizionale con quello semplicemente cattolico: « Così nel complesso può dirsi senz'altro che chi oggi crede di essere un uomo della Tradizione per rifarsi al semplice cattolicesimo si ferma invero a mezza strada, non ha sguardo per i primi anelli della concatenazione delle cause e, soprattutto, pel mondo delle origini e dei valori assoluti » (1).

Proprio tale difetto di "sguardo per i primi anelli della con­catenazione delle cause" ha condotto vari autori guelfi a scrive­re opere che, fondandosi sulle concezioni teocratiche papali, for­niscono interpretazioni della storia dell'Occidente, ed in partico­lare dell'Italia, gravemente devianti e quindi severamente critica­bili. Purtroppo, la mancanza fino ad oggi di un'adeguata reazione ghibellina ha permesso a tali opere di acquistare un certo alone di autorevolezza e di ottenere una non trascurabile diffusione an­che negli ambienti di cultori di studi tradizionali.

Vale dunque la pena di considerare, in rapida e sintetica rassegna, alcune delle opere più significative di tal genere di let­teratura guelfa, per segnalare al lettore le false premesse dalle quali si disnoda il discorso guelfo sulla storia, non privo di una apparente coerenza, nonchè di una certa capacità di seduzione nei confronti di persone dotate di una mentalità tradizionale non suf­ficientemente vigile ed addestrata.

Possiamo quindi prendere le mosse dal libro Rivoluzione e Contro-Rivoluzione (2) dello scrittore cattolico brasiliano Plinio Corréa de Oliveira, che rivela chiaramente, già nelle prime pagi­ne, i limiti della concezione guelfa della storia. L'autore, infatti, indica nella decadenza del medioevo il momento dell'avvio del processo rivoluzionario (ovvero sovversivo ed antitradizionale, secondo una terminologia che preferiamo) che travaglia l'Occi­dente (pp. 65-66).

Il punto di vista ghibellino, invece, si spinge ben più lonta­no nell'individuare le cause della crisi dell'Occidente, risalendo almeno fino all'epoca in cui si consumò l'immane tragedia del declino e della caduta dell'Impero Romano d'Occidente, al quale venne a sostituirsi, nel corso dei secoli, un assetto politico inna­turale ed instabile, centrato sulla teocrazia papale.

L'analisi ghibellina si sposta dunque, ben oltre il medioevo, fino allo studio delle cause che determinarono la crisi dell'Impe­ro Romano d'Occidente, tra le quali non può tacersi l'indeboli­mento causato dall'atteggiamento dei cristiani, che un noto stori­co così descrive: « Ma mentre inculcavano le forme di un'obbe­dienza passiva, rifiutavano di prendere parte attiva all'ammini­strazione civile e alla difesa militare dell'Impero... Questa indo­lente o anche colpevole noncuranza del bene pubblico li espone­va al disprezzo e ai rimproveri dei pagani, che spesso domanda­vano quale sarebbe stato il destino dell'Impero, attaccato da ogni parte dai barbari, se tutti avessero adottato i pusillanimi senti­menti della nuova setta » (3). Certamente vi furono tra i cristia­ni posizioni variamente differenziate, ma resta il fatto che essi, nel complesso, non dettero all'Impero il giusto sostegno di cui abbisognava da parte di tutti i cittadini in un'epoca di grande dif­ficoltà e pericolo. Quindi sarà bene che i guelfi, prima di interro­garsi sulle cause del tramonto del c.d. Sacro Romano Impero medievale, si interroghino su quelle del declino dell'Impero vero, quello antico. E non possono addurre a scusa che il monoteismo cristiano non poteva adattarsi a sostenere un Potere politeista e pagano, come era quello imperiale romano. Gli stessi Ebrei, in­fatti, non meno rigorosi dei cristiani nella adorazione esclusiva dell'unico Dio, seppero trovare con l'Autorità imperiale un ragio­nevole modus vivendi, fondato su reciproche, non pregiudizievo­li concessioni.

Così gli Ebrei giuravano fedeltà all'Imperatore, sia pure con una formula che non urtava la loro fede; celebravano, seppure in modo particolare, tutte le feste imperiali; sostituivano ai sacri­fici all'Imperatore le preghiere nelle sinagoghe, rivolte a Jahvè per suo conto; adempivano alla prosternazione in sua presenza; gli dedicavano le sinagoghe. In tal modo essi non si sottrassero al culto dell'Imperatore e non ne furono dispensati, essendo sol­tanto concesso loro di praticarlo in forme speciali che non urta­vano la loro religione (4).

Quindi un modus vivendi con l'Autorità imperiale pagana da parte di una religione monoteistica era senz'altro realizzabile e grava pertanto sui cristiani la responsabilità di essersi resi colpe­voli, agli occhi dei cives romani, di lesa maestà del Principe e del Popolo Romano. Questa sovversione, che intaccava le basi stesse della civiltà, fondate sull'Impero Romano, sfugge del tutto alle prospettive guelfe di Plinio Corréa de Oliveira.

Parimenti gli sfugge il significato profondo, esoterico del­l'Umanesimo e del Rinascimento, che egli accusa di "ammirazio­ne esagerata, e non di rado delirante, per il mondo antico", di avere relegato "il soprannaturale... in secondo piano", di avere introdotto un "tipo umano, ispirato ai moralisti pagani" esaltan­te in definitiva, pertanto, "l'orgoglio e la sensualità, nel cui sod­disfacimento consiste il piacere della vita pagana" (5). I limiti di questa prospettiva balzano agli occhi. Lo scrittore brasiliano nul­la dice dei valori altamente positivi dell'Umanesimo e del Rina­scimento: l'avere rivendicato la dignità spirituale dell'uomo di contro alla degenerazione in senso averroistico dell'aristotelismo medievale, che negava l'immortalità dell'anima (6); la riscoperta e lo studio amoroso dei classici antichi, che fanno la gloria della filologia rinascimentale; l'introduzione integrale e la diffusione del platonismo, che costituisce la metafisica per eccellenza del­l'Occidente, baluardo indistruttibile e perpetuo contro ogni pre­varicazione materialistica. Tutto questo per l'autore brasiliano non conta, laddove ad uno sguardo ghibellino risultano evidenti i meriti dell'Umanesimo e del Rinascimento, che sottrassero al­l'oblio e riportarono alla luce un inestimabile patrimonio di co­noscenze tramandate dall'Antichità (7). Fu proprio nel rinnovato, favorevole clima del Rinascimento che alcune correnti iniziatiche dell'Antichità, improntate ad una spiritualità regale e solare, che non avevano cessato di scorrere invisibilmente dietro il velame dei simboli e delle allegorie, poterono più incisivamente manife­starsi. Tale fu il caso dell'Ermetismo, al quale si deve l'ultima af­fermazione, in Europa, di una conoscenza qualitativa del co­smo (8). E non può tacersi in questa sede, che contro tale cono­scenza, ultimo residuo della sapienza tradizionale, si scatenò un attacco proprio da parte di un religioso cattolico, il padre Marin Mersenne, dell'ordine dei Minimi, amico del piatto razionalista Cartesio, fautore di una concezione quantitativa, meccanica e di­sanimata della natura (9). In tal modo venivano spianate le vie a tutte le follie e le prevaricazioni della scienza moderna.

Ma sono gli stessi presupposti limitati e limitanti, dai quali parte lo scrittore brasiliano, che viziano le prospettive della sua visione e la confinano all'interno del perimetro del tradizionalismo guelfo. Egli infatti considera la Rivoluzione (cioè la sovversione) rivolta innanzitutto contro la cristianità medioevale, che sarebbe stata "la realizzazione, nelle condizioni inerenti ai tempi ed ai luoghi, dell'unico vero ordine tra gli uomini, ossia della ci­viltà cristiana" (p. 86). E, a sostegno del suo assunto, cita un passo dell'enciclica Immortale Dei di Leone XIII, in cui, tra l'al­tro, si esalta la Cristianità medievale come l'epoca in cui "proce­devano concordi il Sacerdozio e l'Impero". Tale visione, invero, ci sembra alquanto idilliaca, considerando appunto le furibonde lotte tra guelfi e ghibellini che caratterizzarono tanta parte di quell'epoca. A parte ciò, è proprio l'equazione: "unico vero ordine tra gli uomini = civiltà cristiana" che ci lascia oltremodo perples­si e dubbiosi. Infatti, oltre a non vedere perché non possano es­sere "vero ordine tra gli uomini" le civiltà cinese, indiana, maya, ecc., nei confronti delle quali è discutibile che la civiltà cristiana si sia acquisita delle reali benemerenze, crediamo che sia del tut­to impossibile sostenere che essa storicamente abbia rappresenta­to il regno dell'Ordine. Per restare in ambito cattolico e senza spingere lo sguardo fino all'epoca della Riforma e delle guerre di religione, ci sembra che, oltre alle già accennate lotte tra guelfi e ghibellini, anche le crociate contro gli eretici, il tribunale dell'Inquisizione, i roghi, il nepotismo, le scomuniche, gli an­tipapi, gli scismi, le lotte per le investiture, i regicidi, sono, tan­to per citare a caso, segni sicuri di una civiltà assai poco ordi­nata e cristiana soltanto di nome (10).

Di tutti questi sconquassi l'Italia fu costretta a sopportare il peso maggiore, perché su di essa si esercitò l'illegittimo pote­re temporale dei papi, con il bel risultato che, finanche in quel XIX secolo che vedeva le Potenze europee protese al dominio del mondo, il guelfo Metternich si poteva permettere il lusso di de­finirla una "semplice espressione geografica".

Malgrado ciò, vi è ancora chi rimpiange, per l'Italia, il pe­riodo pre-unitario della divisione e della soggezione allo stra­niero ed al Papato. La condanna, in quanto "rivoluzionario", del processo di unificazione d'Italia, è infatti la tesi che fa da sfondo al saggio di Giovanni Cantoni, intitolato L'Italia tra rivoluzione e controrivoluzione, che funge da introduzione al libro dello scrit­tore brasiliano.

In esso, il Cantoni non manca di pronunciarsi su due temi che, insieme ad altri, caratterizzano l'ideologia guelfa: la pretesa estinzione della Tradizione Classica e la critica all'Umanesimo ed al Rinascimento.

In ordine al primo punto, egli rimprovera alla Rivoluzione italiana di avere, per mezzo del fascismo, provato a « rianimare il cadavere di una classicità che può essere attinta soltanto nel suo permanere vitale nel cattolicesimo, oppure è semplice ens ratio­nis, una realtà concettuale aperta a tutti gli usi e sterile per ognu­no » (p. 24). A questa tesi dobbiamo opporre che la Tradizione Classica, al contrario, si è perpetuata, sia pure a livello esoteri­co, in modo del tutto indipendente e separato dal cattolicesimo, come verrà dimostrato a tempo e luogo. E lo stesso Cantoni si avvicina al punto proprio quando crede di negarlo, poiché il sem­plice ens rationis cui egli si riferisce è, in realtà, una Idea eterna nella Mente divina, e quindi non suscettibile di alcuna fine.

In merito al secondo punto, il Cantoni esalta senza esita­zioni la "sconfitta" che la Contro-riforma ha "provvidenzialmen­te inflitto" anche all'Umanesimo ed al Rinascimento. Al che noi opponiamo che, in realtà, per l'Italia quella "sconfitta" segnò il doloroso trapasso dalla splendida civiltà umanistica e rinasci­mentale, rinnovatrice della Classicità, allo squallore dell'Italia vivacchiante sotto il dominio spagnolo.

Passiamo infine al punto ove, conforme ai canoni dell'ideolo­gia guelfa, il Cantoni condanna come sovversivo il processo di unificazione d'Italia, con Roma quale capitale, promosso e soste­nuto dal Regno di Sardegna: « La Rivoluzione si trasforma così da "francese" in "italiana"; diviene dunque "nazionale", facen­do forza sul Piemonte e sulla sua Casa regnante, e di entrambi si serve come strumenti, sicché il Piemonte, che conta la maggio­re presenza protestante di tutta la penisola, ne diventa la testa di ponte, dalla quale porta a termine il disegno unitario e sovversivo che culmina con la breccia di Porta, Pia » (p. 12; il corsivo è nostro). A parte il fatto che non ci risulta alcun apporto incisivo dei protestanti al processo di unificazione d'Italia e che, comun­que, la "maggiore presenza protestante" non ci turba affatto, sem­brandoci invece segno di un regale e superconfessionale spirito di tolleranza, del genere di quello che, mutati i tempi e le circostanze, respirò nel regno di Federico II, ci sembra giunto il momen­to di scrivere alcune parole chiare sull'Italia preunitaria tanto rimpianta dai guelfi.

L'Italia raggiunse la propria unità ed indipendenza (sancite perfino da quel diritto naturale cui i guelfi si rifanno ogni mo­mento) soltanto a stento e tardivamente, a causa della prevarica­zione papale consistita nell'avere tagliato la penisola in tre, per la cupidigia di regnare sulla parte mediana di essa, con il c.d. Sta­to della Chiesa. E' una cosa risaputa da tutti fin dalle scuole me­die e che soltanto i guelfi fingono di ignorare e sperano che sia ignorata. Citiamo quindi, a sostegno della nostra affermazione, un brano tratto da un testo di storia per le scuole medie superio­ri, per dimostrare che non v'è bisogno di scomodare testi acca­demici e specialistici per attingere una verità che tutti conoscono o dovrebbero conoscere. Così si riassume la situazione determina­tasi in seguito alla morte di Enrico VI di Hohenstaufen: « Dopo di ciò, lo Stato della Chiesa costituì un complesso compatto di terre dalla Romagna al Lazio meridionale, attraverso le Marche e l'Umbria; il che ebbe due conseguenze importantissime: diede al Papato una solida base per difendere la sua indipendenza po­litica; separò nettamente l'Italia meridionale dall'Italia settentrionale.­ Da questo momento il Papato, per tutelare il suo Stato e quindi la sua indipendenza, sarà tratto ad agire in senso con­trario alla riunione del Sud con Nord, e quindi a opporsi all'uni­tà d'Italia » (11).

Tale fu la causa della divisione dell'Italia in più staterelli, che, in numero di sette, ancora esistevano alla vigilia dell'unifica­zione avvenuta nel secolo scorso. Per difendere questa situazione innaturale, che esso non era in alcun modo legittimato a provo­care, come subito proveremo, il Papato, tra l'altro, non esitò a condurre una lotta feroce contro la nobile dinastia degli Staufen, lotta che costò il logoramento e l'amara fine di Federico II, la morte in battaglia di Manfredi, la prigionia perpetua di Enzo, la morte sul patibolo di Corradino. Da allora, l'Italia rimase sostan­zialmente sempre la stessa, sempre divisa, mai unita, e fu opera sacrosanta di giustizia, nel secolo scorso, porre fine a quello sconcio senza troppo sofisticare sul numero di protestanti esistenti in Piemonte, o sulle formalità d'ingresso del Re d'Italia in Roma, attuato, per colpa del Papa, non pacificamente attraverso una delle tante porte, bensì attraverso una breccia aperta a cannonate.

E veniamo al dunque. Il papato non era legittimato a regna­re su terre d'Italia e tanto meno, come conseguenza, ad ostacola­re od impedire lo sviluppo unitario della sua storia, per le se­guenti ragioni :

  1. Cristo ha detto: « Date a Cesare quello che è di Cesare » (Matteo, XXII, 17-21; Marco, XII, 14-17; Luca, XX, 22-25). L'Italia e Roma appartengono a Cesare. Spettava dunque ad un Principe italico, e non al Papa, di governarle.
  2. Cristo ha detto: « Il mio regno non è di questo mondo » (Giovanni, XVIII, 36). Dunque il Papa, vicario di Cristo, non po­teva regnare in terra e tanto meno sull'Italia, che appartiene a Cesare.
  3. Il Papa è capo di tutti i cattolici e non soltanto dei catto­lici italiani. Non poteva quindi regnare su quest'ultimi, perché, in caso di conflitto di interessi tra cattolici italiani e stranieri, o doveva prender partito per gli italiani, con grave ingiustizia per gli altri cattolici, o prendeva partito per gli altri, con grave ingiu­stizia verso gli italiani. E non poteva nemmeno porsi "al di sopra delle parti", perché chi fa questo non può, come è invece dovere di un Principe, identificarsi con la sua stirpe. Il fatto è che gli interessi del papato non coincidevano e non possono coincidere, se non occasionalmente, con quelli dell'Italia, ed esso è costretto a sacrificare gli interessi di quest'ultima ogni qual volta essi debbano cedere il passo a quelli più generali del­la chiesa cattolica. Pertanto, sono sommamente degni di commi­serazione quei guelfi che seguono ansiosamente l'indirizzo di ogni nuovo pontificato, sperando che esso sollevi e non accresca i mali d'Italia, in ciò del tutto simili a quei botoli che spiano il loro padrone, per scorgere in tempo se la sua mano getti loro un boccone e una sassata.
  4. Infine, occorre sottolineare che il Papa non poteva in alcun modo rappresentare per intero la tradizione dei popoli italici. La tradizione del papato risale all'Antico Testamento, quella degli Italici all'Eneide. Gli Italici, anche se convertiti al cattolicesimo erano (e restano) il popolo dell'Eneide, e non dell'Antico Testamento. Il Papa dunque poteva esserne il capo religioso, ma non governarli, perché governare tradizionalmente un popolo significa farlo in nome della sua tradizione, che, nel caso degli Italici, risale ad epoca ben anteriore all'avvento del cristianesimo.

Quindi il disegno unitario, culminato con la breccia di Porta Pia, non fu sovversivo, come ritengono i guelfi, bensì, considerandolo nella sua realistica essenzialità storica, giusto e tradizionale, anche se si attuò in ritardo e con dolorose lacerazioni. Per immaginarsi un diverso, più armonico quadro, basti pensare all'immensa possanza unificatrice che si sarebbe molto prima sprigionata se, invece che il Papa, si fosse trovata a regnare su Roma ed il Lazio qualche antica famiglia principesca romana, ad es. i Colonna. Nulla, primo o poi, avrebbe resistito al fatale Potere di una legittima Signoria romana. Ma il papato difese sempre ge­losamente il suo usurpatore dominio sull'Urbe, che fu tale da provocare la severa condanna del Guicciardini: « Non si può dire tanto male della corte romana che non meriti se ne dica di più, perché è una infamia, uno esempio di tutti e' vituperi ed obbrobri del mondo » (12). Le cose non migliorarono certo nel corso dei secoli, se perfino nel secolo scorso il mite ed equilibrato mons. Francesco Liverani, prelato domestico e protonotario della Santa Sede, definiva il governo del Segretario di Stato Cardinale Anto­nelli nei seguenti termini: « Il governo del Cardinale Antonelli è cattivo, non già per manco di leggi, d'instituzioni, di codici e di esempli di antico valore, ma per baratteria moderna ». (13). Per attuare il suo malgoverno, il Cardinale Antonelli si servì, secondo l'usato costume, dei ben noti metodi nepotistici. Precisa mons. Liverani al riguardo: « Ma presso di noi, autore della legge che toglieva ogni barriera all'irrompere dell'incettamento e della baratteria fu il medesimo cardinale Antonelli che ne coglierebbe i frutti colla sua famiglia: fra i magistrati che sono sopra l'annona fu tosto intromesso il conte Luigi Antonelli, fratello del cardinale e conservatore di Roma, rinfrancato e sorretto da buona masna­da di barattieri, monopolisti, incettatori ed endicamoli scelti, sem­pre dal suo fratello segretario di Stato e cardinale, all'officio di Consiglieri municipali e magistrati »; inoltre « Governatore della Banca Romana fu tosto eletto il conte Filippo Antonelli, altro fra­tello del cardinale segretario di Stato, stipato d'interminabile ca­terva di mugnai, fornai, panettieri, oliandoli, pizzicagnoli, dro­ghieri, macellai, fittaiuoli e quant'altro faceva mestieri per serra­re il commercio e chiuderlo ad ogni leale e legittimo traffico ed industria » (14). Come meravigliarsi, dunque, se un lord Russel, citato da mons. Liverani (15), alla seduta della Camera dei Co­muni del 3-5-1861 poté definire il governo pontificio come "pes­simo e peggiore del turco" ? Eppure vi sono ancor oggi guelfi che osano additarlo come modello di Stato tradizionale. E, sembra in­credibile, vi sono ancor oggi guelfi che, malgrado abbiano avuto in casa propria maneggioni del calibro del cardinale Antonelli, mossi da odio levantino per la figura di guerriero occidentale ed italico del generale Garibaldi, vindice di un antico Popolo calpestato in nome di pretesti falsamente religiosi, hanno la tracotan­za e la faccia tosta di annoverarlo tra i "personaggi poco puli­ti" (16), egli che passò la vita nell'indigenza, per il rifiuto di trarre vantaggi materiali dalle sue disinteressate imprese guerresche.

Del resto, la tracotanza e la sfacciataggine sono una caratte­ristica pressoché costante della pubblicistica guelfa, che si ri­scontra tale e quale anche in coloro che sono i maitres à penser dei guelfi contemporanei. Se prendiamo infatti quello scrittore, idolatrato dai guelfi di casa nostra e d'oltr'Alpe, che risponde al nome poco augurale di J. Crétineau-Joly, troviamo la stessa arro­gante ottusità che caratterizza l'essenza antioccidentale ed anti­italica della ideologia guelfa. Egli, infatti, trattando delle vicen­de risorgimentali, non riesce a scorgere altro che diabolici complotti e perfida sovversione nel sacro, legittimo e naturale sfor­zo degli Italiani di darsi uno Stato unitario e di riappropriarsi della loro Capitale tradizionale. Eppure si tratta della stessa per­sona che avrebbe certamente strillato come un'oca spennata in difesa della sua gallica patria, se per astratta ipotesi, il papa aves­se deciso di trasportare la propria corte a Parigi, magari con l'in­tenzione di estrometterne il governo francese! Ma l'ideologia guel­fa gli oscura il comprendonio ed egli, sfidando il ridicolo, fra le stucchevoli immagini di cui costella la sua opera antiitalica, ci ammannisce anche un "nobile" ritratto del cardinale Antonel­li! (17).

La medesima tracotanza e sfacciataggine guelfa si estrinse­ca abitualmente mediante l'aberrante atteggiamento mentale che consiste nel notare una pagliuzza nell'occhio altrui, senza vedere il trave che si ha nel proprio. Così i guelfi sono severissimi, ad esempio, nel criticare il liberalismo che, per bocca di Cavour si esprimeva con la formula "libera Chiesa in libero Stato" (anche noi siamo critici di tale formula, ma per ragioni opposte, poiché la corretta massima ghibellina suona: "libera Chiesa in Stato so­vrano"); ma non si avvedono, o fanno finta di non avvedersi, dei massicci contributi che dalle loro file sono stati offerti al disor­dine generale dei tempi. Prendiamo ad esempio il caso di un re­cente pontificato.

Giovanni XXIII, infatti, nel discorso pronunciato 1'11 otto­bre 1962, in occasione della solenne apertura del concilio ecu­menico vaticano II, enunciava il seguente principio, invero non tanto tradizionale: « Nell'esercizio quotidiano del nostro mini­stero pastorale ci feriscono talora l'orecchio suggestioni di per­sone, pur ardenti di zelo, ma non fornite di senso sovrabbon­dante di discrezione e di misura. Nei tempi moderni esse non vedono che prevaricazione e rovina; vanno dicendo che la no­stra età, in confronto con quelle passate, è andata peggiorando; e si comportano come se nulla abbiano imparato dalla storia, che pur è maestra di vita... A noi sembra di dover dissentire da codesti profeti di sciagura, che annunziano eventi sempre infau­sti, quasi che incombesse la fine del mondo ». Come si vede, i guelfi non hanno bisogno di affannarsi a rintracciare nella let­teratura di ispirazione liberai-massonica i lineamenti della ideo­logia progressista, avendone un lampante esempio dell'insegna­mento che promanava dal vertice stesso della piramide cattolica. Lo stesso Papa, poi, poco dopo, nella lettera enciclica Pacem in terris dell'11 aprile 1963, sulla scia del suo imprudente ottimi­smo, non si peritava di lanciarsi in spericolate affermazioni circa i rapporti che i cattolici debbono tenere con i rappresentanti di false dottrine, tra le quali, in posizione di spicco, rientra certo qualsiasi forma di materialismo ateo. Così si esprimeva l'enci­clica: « Va altresì tenuto presente che non si possono neppure identificare false dottrine filosofiche sulla natura, l'origine e il destino dell'universo e dell'uomo, con movimenti storici a fina­lità economiche, sociali, culturali e politiche, anche se questi movimenti sono stati originati da quelle dottrine e da esse hanno tratto e traggono tuttora ispirazione. Giacché le dottrine, una volta elaborate e definite, rimangono sempre le stesse; mentre i movimenti suddetti, agendo sulle situazioni storiche incessante­mente evolventisi, non possono non subirne gli influssi e quindi non possono non andar soggetti a mutamenti anche profondi. Inoltre chi può negare che in quei movimenti, nella misura in cui sono conformi ai dettami della retta ragione e si fanno interpre­ti delle giuste aspirazioni della persona umana, vi siano elemen­ti positivi e meritevoli di approvazione? » (par. 84). Non paga di avere, con tali capziose e discutibilissime distinzioni, indebolito la capacità di resistenza morale del mondo cattolico, l'enciclica faceva di più, prospettando addirittura la possibilità di incontri pratici con le forze dell'errore: « Pertanto, può verificarsi che un avvicinamento o incontro di ordine pratico, ieri ritenuto non op­portuno o non fecondo, oggi invece lo sia o lo possa divenire do­mani. Decidere se tale momento è arrivato, come pure stabilire i modi e i gradi dell'eventuale consonanza di attività al raggiun­gimento di scopi economici, sociali, culturali, politici, onesti e utili al vero bene della comunità, sono problemi che si possono ri­solvere soltanto con la virtù della prudenza, che è la guida delle virtù che regolano la vita morale, sia individuale che sociale » (par. 85). Purtroppo la virtù della prudenza fece proprio difet­to al detto papa nell'enunciare principii così pericolosi, tanto è vero che essi aprivano la strada alla tendenza ai compromessi storici, che a circa un ventennio di distanza angoscia ancora l'Italia di oggi. La quale Italia, secondo un'antica consuetudine, si trova ancora una volta a fare da corpus vile alle iniziative curia­li, delle quali è la prima a pagare lo scotto, fino al giorno almeno in cui un rinnovato, sacro e possente Potere italico porrà un ar­gine definitivo, una volta per tutte, a siffatti pericoli.

E non si può nemmeno addurre, per tentare di scusare le pericolose affermazioni del detto papa, la giustificazione della sua ingenuità e semplicità di carattere. A parte il fatto, invero, che « ingenuità » e « semplicità », in siffatti vertici di responsa­bilità costituiscono vere e proprie colpe, noi non crediamo che, malgrado certi suoi atteggiamenti populistici e bonari in « pro » delle masse, quel papa fosse un ingenuo ed un semplice. Egli infatti seppe dare prova di grande capacità e sottigliezza quan­do, dal 1925 al 1934, fu delegato apostolico nei Balcani, cioè in una delle zone più « difficili » d'Europa, ed altrettanto fece qua­le amministratore apostolico del vicariato di Costantinopoli dal 1935 al 1944, con funzioni di rappresentante della Santa Sede presso i governi greco e turco (tradizionalmente rivali), riuscen­do a venire a capo di situazioni complesse e ad assicurare i buo­ni rapporti del Vaticano con quei governi. E allora? Attendiamo che i guelfi ci dimostrino la natura « controrivoluzionaria » del­le affermazioni di papa Giovanni, oppure, se non ci riescono (co­me è certo), che abbiano almeno il pudore di tacere, invece di andare in giro con il lanternino a cercare la « rivoluzione » in casa altrui. Si preoccupino piuttosto del modo di sanare la con­traddizione che sussiste tra la loro visione della storia e quel­la manifestata, al vertice della gerarchia, da papa Giovanni. Infat­ti sono possibili, al riguardo, soltanto due soluzioni: o ha ragio­ne papa Giovanni, ed allora i vari esponenti del guelfismo reazio­nario si trovano automaticamente ad essere nell'errore e pertan­to occorre ricordar loro il perseverare diabolicum; oppure hanno ragione loro e torto papa Giovanni, e non si comprende allora come possano chiedere di affidarsi ad una istituzione di vertice che ha potuto così clamorosamente (ed erroneamente) contrad­dirli.

Lasciamo a loro questi dilemmi. Per quanto ci riguarda, pre­cisiamo che non abbiamo la memoria corta e quindi non potreb­be essere sufficiente qualsiasi cambiamento in meglio della po­litica vaticana a farci dimenticare i danni che, nel passato, essa ha arrecato all'Italia. Dobbiamo inoltre prendere atto che i guelfi, diffondendo le loro ideologie tendenti a disgregare il senso libero, fiero, indipendente ed unitario del nostro destino di anti­co Popolo, finiscono, coscienti o incoscienti, con l'affiancarsi di fatto a quanto intendono dare il calcio dell'asino al nostro Paese, già prostrato da una grave sconfitta e da un lunghissimo dopo­guerra di asservimento ai vincitori ed ai loro obbedienti rap­presentanti nostrani. Se essi insisteranno nel voler mettere la religione contro la patria, saranno i primi responsabili, e non dovranno meravigliarsene, se un giorno la patria, per difender­si, dovrà mettersi contro la religione.

Terminiamo così il nostro rapido excursus sulla distorsione del tradizionalismo guelfo, che riguarda l'Italia centrale. Nel se­guito del nostro articolo ci occuperemo delle altre deviazioni, che da essa dipendono strettamente: quella del tradizionalismo guelfo, di stampo austriacante, relativo all'Italia settentrionale e quella del guelfismo spagnolesco e borbonizzante, concernente il Mezzogiorno.

Gherardo Donoratico (2-continua)       (1) Julius Evola, Rivolta contro il mondo moderno, Milano, 1951, p. 467. (2) Plinio Corréa De Oliveira, Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, Pia­cenza, 1972. (3) Edward Gibbon, Decadenza e caduta dell'Impero romano, vol. 1, Roma, 1973, p. 476. (4)Nansen Defendi (a cura di), Gli Ebrei sotto la dominazione ro­mana, Messina-Firenze, 1974, pp. 53-57. (5)Plinio Corréa De Oliveira, op. cit., pp. 66-67. (6)Sul tema della dignità dell'uomo nel Rinascimento, cfr. Alessandro Klein, La dignità dell'uomo nel pensiero del Rinascimento, Torino, 1976. (7)Auzusto Buck, L'eredità classica nelle letterature neolatine del Rfflascimento, Brescia, 1980. (8)Julius Evola, La Tradizione ermetica, Bari 1948, pp. 25-29. (9)Frances A. Yates, Giordano Bruno e la tradizione ermetica, Bari 1969, pp. 465-477— (10) Sulla sovversione guelfa nei secoli cfr. in genere Natale Addarnia­no Chiesa e Stato dalle origini del cristianesimo ai patti lateranensì, Ro­ma, 1969, e La chiesa e l'omicidio politico (tirannicidio), Roma, 1969. (11) Pietro Silva, Corso di storia, I, Milano-Messina, 1968, p. 222. (12) Considerazioni intorno ai Discorsi del Machiavelli sopra la prima Deca di Tito Livio. XII, citato da N. Addamiano, Chiesa e Stato, , p. 706. (13) Francesco Liverani, Il Papato, l'Impero e il Regno d'Italia, Firen­ze, 1861, p. 47. (14) Ibid., pp. 68-69. (15) p. 47. (16) II Rogo, Supplemento ad "Excalibur", n. 2/1979, p'. 8. (17) Jacques Crétineau-Joly, L'Eglise Romaine en face de la Révolu­tion, Teme II, Paris, 1976, pp. 432-433.

moneta

  Pubblichiamo col consenso dell'autore e con l'aiuto dell'amico Massimo Chiapparini Sacchini le quattro parti del presente saggio uscito per la storica rivista Il Ghibellino (1979 - 1983). Questa seconda parte era compresa nel NUMERO 2-3 (febbraio 1981 e.v.)

AQUILA IN AURO TERRIBILIS ∼ Tradizione ghibellina e tradizionalismi guelfi – (3^ parte) – Piero Fenili

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Il grande Re ghibellino Vittorio Emanuele
II di Savoia, effigiato con in capo la Corona
di Ferro, emblema del Regnum Italicum.

 

Francesco Giuseppe fu una delle figure più ripugnanti dell'epoca... Ezra Pound

 

Lo studio della sovversione guelfa nell'Italia centrale, risoltosi, sul piano storico, nell'illegittimo potere temporale del Papato, po­tere che il grande dantista Gabriele Rossetti definì "vecchia cancre­na giusto all'ombelico", ci conduce ad esaminare in breve i riflessi che quel sovvertimento ebbe nel Settentrione, spostando oltralpe il baricentro del c.d. Sacro Romano Impero ed assoggettando l'Italia del Nord ad inammissibili ingerenze straniere, durate fino agli inizi del nostro secolo.

Il vizio guelfo d'origine del c.d. Sacro Romano Impero, sotto il profilo storico, è a tutti noto, tanto che in questa sede basta farvi soltanto cenno. L'incoronazione ad imperatore di Carlo Magno, av­venuta nel giorno di Natale dell'anno 800 ad opera del papa Leone III pose, per il modo in cui venne effettuata, un'assurda ipoteca guelfa su quell'impero, facendone un organismo "cattolico" finché si vuole, ma certamente assai poco o null'affatto "romano". Il papa, infatti, non aveva alcuna legittimazione a conferire la potestà' impe­riale romana, essendo unicamente il capo di una religione di origi­ne palestinese, divenuta lecita in Roma soltanto in virtù di un editto imperiale.

Ma, in questa ricerca dedicata allo studio dei tradizionalismi guelfi, più che le vicende storiche del c.d. Sacro Romano Impero, che pur conobbe generosi quanto in definitiva inutili tentativi di rettificazione del suo vizio di origine (ad opera di Sovrani della sta­tura di un Ottone III di Sassonia e, soprattutto, di un Federico II di Svevia), ci interessa specialmente considerare quelle formulazioni dottrinali che si propongono di fondare idealmente e tradizional­mente la ragion d'essere di quell'impero cattolico. Tra esse, in Ita­lia, occupa una posizione di spicco l'opera di Attilio Mordini, per la vastità dell'impianto culturale e per la profondità dell'impegno mo­rale che l'autore vi profuse, tanto che non vi è praticamente oggi presso di noi alcun cultore del c.d. Sacro Romano Impero, dal pun­to di vista "tradizionale", che ad essa non faccia riferimento.

È necessario pertanto che ci occupiamo dei numerosi errori di prospettiva contenuti in detta opera, esaminandola dal punto di vi­sta della metafisica imperiale classica, unico fondamento di ogni le­gittimo ed autentico ghibellinismo.

Occorre quindi premettere, per comprendere la natura e i limi­ti della visione del Mordini, che egli si pose da una prospettiva reli­giosa e confessionale, quindi strettamente confinata nel dominio dell' exoterismo, laddove l'idea imperiale possiede una indiscutibile radice esoterica, presupponendo la dottrina della Unità trascenden­te delle Tradizioni. Piaccia o non piaccia, questa fu la dottrina effet­tiva dell'Impero classico, che adottò appunto il simbolo solare, evo­cando l'Astro diurno, che i vari popoli dell'Impero illumina e riscal­da in egual misura, prescindendo dalla diversità dei relativi culti religiosi.

La dottrina imperiale classica dell'Unità trascendente delle Tradizioni venne enunciata con grande chiarezza dall'Imperatore e Pontefice (Archiereus) Giuliano, che così si espresse, in polemica con l'esclusivismo monoteista della tradizione giudaico-cristiana: "Guardate invece, di nuovo, le dottrine che han corso presso di noi. Dicono i nostri che il Creatore è comun padre e re di tutti, ma che, pel rimanente, ha distribuito le nazioni a Dei nazionali e cittadini, ciascuno dei quali governa la propria parte conformemente alla sua natura" ((Augusto Rostagni, Giuliano l'Apostata - Saggio critico con le operette politiche e satiriche tra­dotte e commentate, Torino, 1920, p. 309.)). Conseguenza di tale impostazione è che alla tradizione giudaico-cristiana non compete alcun particolare privilegio nei confronti delle altre tradizioni. Così infatti ironizza Giuliano: "Mo­sè dice che il Creatore del mondo ha eletto il popolo ebreo, veglia esclusivamente su di esso, di esso si preoccupa, ad esso rivolge tut­ta intera la sua attenzione. Quanto agli altri popoli, come e da quali Dei siano governati, di ciò Mosè non fa nessuna questione: troppo, forse, gli sembra che anche essi godano il sole e la luna"... "E alla fine mandò a loro [agli Ebrei] anche Gesú. A noi nessun profeta, nes­sun crisma, nessun maestro, nessun messo di questa sua tardiva be­nevolenza, che doveva un giorno estendersi anche a noi! Egli lascia per miriadi, o, se volete, anche solo per migliaia di anni, in una tale ignoranza, schiavi, come voi dite, degli idoli, tutti i popoli dall'Oriente all'Occidente, dal Settentrione al Mezzogiorno, ad ec­cezione di una piccola schiatta stabilitasi da neanche due mila anni in un solo angolo della Palestina" ((Ibid., pp. 306 e 308.)).

La concezione del Mordini è diametralmente opposta a queste prospettive della metafisica imperiale classica, ciò che lo pone au­tomaticamente al di fuori del vero ghibellinismo, che in quella metafisica ha le sue radici ed il suo fondamento. Ecco come il Mordini espone la sua concezione rigidamente cattolico-confessionale, che privilegia la tradizione ebraica nei confronti delle altre: « Israele è dunque popolo di Dio, perchè la sua storia è mito vissuto prima di tutto in senso letterale. Per gli altri popoli della terra continua, e continuerà fino all'avvento del Cristianesimo, la distinzione tra mi­to e storia, tra l'espressione mitica della verità metafisica nella pa­rola e nel simbolo, da un lato, e l'accadere dei fatti, dall'altro; tra l'arte e la scienza. Qualche volta, come ad esempio con la guerra e la distruzione di Troia, anche per i gentili il mito e la storia coinci­dono; ma si tratta solo di brevi incontri tra il senso letterale del mi­to e la realtà, si tratta solo di momenti in cui la verità metafisica e la concretezza dei fatti si congiungono quali meravigliosi pegni nel­la promessa della Redenzione finale.

Per Israele, invece, tale coincidenza tra il senso letterale del mi­to e la concretezza della storia è continua e perenne, dalla vocazio­ne di Abramo da Ur fino all'elezione dei Dodici, dalla manifestazio­ne del Roveto ardente del Sinai alla Trasfigurazione del Tabor; in altre parole, da Abramo all'Incarnazione di quel Cristo che è prima ancora che Abramo fosse. Per Israele la stessa vita si fa arte nell'as­sunzione del mito; è la vita che dovrà scorrere nelle vene del Cristo, è la stessa vita che dovrà pulsare in quel sangue che sarà prezzo di Redenzione nel mondo e riscatterà le genti e i popoli dalla morte del peccato alla vita eterna » (Attilio Mordini, Il mito primordiale del Cristianesimo quale fonte perenne di metafisica, Milano, 1976, pp. 15.16. Sorprende come, con siffatte premesse filoebraiche (che peraltro sono le stesse dell'ortodossia cattolica), vi sia chi tra i mordiniani e tra i cattolici tradizionalisti in gene­re, faccia ostentazione di un certo antisemitismo).

Prendiamo atto che, secondo la visione riaffermata dal Mordi­ni, al nostro "latin sangue gentile" fu riservato di avere una storia sacra soltanto a "momenti", laddove per gli ebrei ciò avvenne pe­rennemente e di continuo.

Orbene, noi ribadiamo la nostra distanza da una simile visione, che privilegia la tradizione ebraica nei confronti di quella classica in genere e italica in particolare, visione che tuttavia coincide con il punto di vista religioso cattolico, al quale Mordini aderì secondo quella che fu una sua insindacabile scelta. Però, da un punto di vi­sta rigorosamente "imperiale" e quindi autenticamente ghibellino, non possiamo esimerci dal fare due osservazioni nei confronti della concezione del Mordini:

  1. essa, rispecchiando il punto di vista exoterico di una partico­lare religione, il cattolicesimo, appartiene all'ambito del tradizio­nalismo, il quale sta alla Tradizione nello stesso rapporto in cui la parte sta al Tutto;
  2. inoltre, in quanto privilegia la tradizione ebraica nei con­fronti di quella classica, non è in alcun modo legittimata a fornire enunciazioni o argomentazioni intorno all'essenza dell'Imperium, che affonda le sue radici nella Tradizione Classica, alla quale inte­ramente appartiene ((L'Imperium è una Realtà precristiana. L'Impero di Augusto (così come quello di Traia­no, Adriano, Giuliano, ecc.) non poteva discendere da Cristo per il semplice motivo che si trattava di un'Autorità sacrale non cristiana. Questa ovvia constatazione basta a mostrare i limiti della concezione imperiale (e quindi ghibellina) esposta nel numero speciale della rivista EXCALI­BUR, I Fati dell'Impero (Roma, 1979). Detta pubblicazione si propone di racchiudere in nove "scarni principi" la visione del mondo ghibellina, ma la lettura del primo di essi è sufficiente a denotare che si è al di fuori di ogni autentica prospettiva esoterica inerente alla metafisica impe­riale classica. Esso infatti enuncia che "La funzione imperiale e quella sacerdotale sono comple­mentari. La funzione di entrambi gli Ordini promana dall'identica Persona divina, perciò il Papa è il Vicario di Cristo Sacerdote e l'Imperatore Vicario di Cristo Re" (p. VI). Come si vede, tale con­cezione è applicabile soltanto al c.d. Sacro Romano Impero e non certamente all'antico Impe­rium romano. Per noi il vero Imperium è quest'ultimo, mentre per il Mordini, come vedremo, è l'Impero Cattolico.)).

Del resto, lo stesso Mordini mostra di avere in vista un'altra co­sa, quando parla d'Impero, che non l'Imperium dei Romani. Infatti, sfuggendogli la dottrina esoterica dell'Unità trascendente delle Tradizioni, scambia per sincretismo la Sintesi pantheonica imperia­le romana, della quale non coglie l'essenza superreligiosa e vera­mente universale, cadendo così nell'errore tipico di ogni tradiziona­lismo religioso. Ecco come egli enuncia il suo errore: « E Roma, centro del mondo, raccoglieva nel suo Pantheon i simulacri di tutte le divinità straniere, tutti gli dei di quei popoli che al suo Impero si andavano man mano ordinando. Ma non si trattava ancora di vera unità, non si trattava della sintesi vera e cattolica, bensì di sincreti­smo » (Attilio Mordini, Il Tempio del Cristianesimo - Per una retorica della storia, Torino, 1963, 37). In tal modo, per il Mordini, « L'Impero dei Cesari, Impero del sincretismo, non fu dunque il vero Impero Romano, ma solo anelito di sintesi, di vera unità e di vero Impero. Il vero Impero Ro­mano è quello di Carlo Magno, fondato sulla Verità di Pietro che, nelle catacombe, nel Latium, ha operato l'incontro del Verbo incar­nato con la Tradizione precristiana » (Ibid.Attilio Mordini, Il Tempio del Cristianesimo - Per una retorica della storia, Torino, 1963, 37). Questo significa parlare chiaro e sarà quindi bene tener presente, per evitare confusioni ter­minologiche che vanno a tutto vantaggio della parte guelfa, che ogni qualvolta i mordiniani parlano di "vero" Impero Romano si ri­feriscono a quello di Carlo Magno, nato da una usurpazione papale, quello che si potrebbe, con buona ragione, definire ironicamente come l'impero delle guardie svizzere (Che altro pensare di un Impero che tranne qualche sporadica, onorevole eccezione, non ha mai osato, pur dicendosi "Romano", rivendicare la sua naturale Sede, Roma?).

Dunque, per il Mordini, il vero Impero romano è quello fondato sulla verità di Pietro, che nelle catacombe ha unito il Verbo incar­nato alla Tradizione precristiana. Egli ritiene che: « Qualcosa di nuovo è accaduto nelle catacombe; non soltanto ora si battezzano individui romani e incirconcisi, ma si battezza Roma e il mondo ariano nelle più antiche tradizioni, solo che Roma riconosca nei suoi miti i segni del Cristo che doveva venire, del Dio ignoto che si fa finalmente riconoscere Salvatore e vittorioso ». (Attilio Mordini, Il Tempio del Cristianesimo, ecc., 30). Conveniamo con il Mordini che nelle catacombe è avvenuto qualcosa di impor­tante, soltanto che dubitiamo che ciò sia stato un fatto positivo, al di là di quelli che possono essere i benefici connessi con un messag­gio di redenzione, in un dominio soltanto religioso ed exoterico. In­fatti, nelle catacombe, non solo si verificò, come dice il Mordini, il battesimo di Roma e del mondo ariano nelle sue più antiche tradi­zioni, cioè, in altre parole, l'innesto di una tradizione semitica su di una tradizione indoeuropea, ma qualcosa di ben più grave e radica­le, cioè la sostituzione della Storia sacra di un ceppo di popoli non semitici, quello italico, con la Storia sacra di genti semitiche. Da al­lora, infatti, la Storia sacra degli Italici non sarà più quella dei Latini, dei Tirreni, dei Liguri, dei Siculi e degli altri popoli dell'Eneide, libro sacro della Tradizione italica, scritto dall'Iniziato Virgilio, ben­sì quella che narra le vicende degli Israeliti, dei Moabiti, degli Idu­mei, dei Madianiti e delle altre genti dell'Antico Testamento.

Francamente, non è questa una cosa che ci riempie di giubilo. Nella concezione cattolica del Mordini, invece, il trapianto assume una connotazione positiva: « Il seme è gettato nella catacomba, e il frutto ne sarà la Chiesa come istituzione organica e gerarchica, co­me corpo mistico risorto, come Tempio di cui Cristo sarà al tempo stesso costruttore e pietra angolare » (Ibid). Prendiamo atto, dunque, che, per il Mordini, il Tempio non è altro che la Chiesa che emerge dalle catacombe. Per il vero ghibellinismo, invece, il Tempio è solo quello che accoglie tradizioni diverse intorno all'Unità trascenden­te dell'Assoluto, Tempio di cui si ha un'immagine visibile nel Pan­theon di Roma ed un'eco medioevale nel mito del Prete Gianni, per­sonaggio sicuramente ben distinto e diverso dal papa del cattolice­simo.

Del resto, che nella visione mordiniana l'Impero si riduca ad es­sere una mera estrinsecazione della Chiesa, è lo stesso Mordini a dircelo. Mentre nella originaria concezione imperiale classica, che si mantenne perfino nel cristiano Impero Romano d'Oriente, la Chiesa ebbe esistenza nel più vasto ambito dell'Impero, nella visio­ne del Mordini esso sussiste in seno alla Chiesa, di fronte alla quale sfuma e si dilegua la sua legittima, autonoma ed originaria fisiono­mia: « Si è scritto molto sulle relazioni tra stato e Chiesa nel medioe­vo ad opera di autori moderni, ma non si è ancora compreso a suffi­cienza che nell'ordinamento medievale non v'era dualità tra stato e Chiesa come se si fosse trattato di due enti diversi. In realtà non esi­steva lo stato; v'era solo la Chiesa, unico gregge sotto un solo pasto­re ma con due diverse autorità e due diverse gerarchie, la gerarchia del clero e la gerarchia civile. Era appunto l'ordinamento civile a chiamarsi Impero; ma Imperium significa solo comando, autorità; una virtù dunque, non una vera e propria società quale è la Chiesa, vale a dire tutta l'organizzazione spirituale, civile e materiale della Cristianità cattolica » ((Ibid., p. 87.)). In proposito ci limitiamo ad osservare che, storicamente, quanto affermato dal Mordini può anche essersi verificato in ordine alle vicende del c.d. Sacro Romano Impero (e nemmeno sempre). Ma, lungi dal vedervi, come fà il Mordini, l'es­senza dell'Imperium, noi ve ne scorgiamo soltanto la parodia. Si tratta in 'definitiva della ben nota concezione guelfa che finisce, in ultima istanza, con il subordinare (direttamente o indirettamente) l'Impero alla Chiesa e quindi al capo supremo di quest'ultima, il pa­pa. Questa visione guelfa non è priva di risvolti territoriali. Infatti, coerentemente con la premessa, il Mordini così può concludere: « E se Roma era la sede dei Papi, era al tempo stesso la vera capitale dell'Impero » ((Ibid.)). Infatti, nella prospettiva guelfa, essendo il Papa, in ultima istanza, il capo dell'Impero (in quanto capo della Chiesa), è sufficiente che egli abbia sede in Roma, perchè tale sede divenga automaticamente anche la sede dell'Impero. Questo spiega perchè i guelfi non siano stati minimamente turbati dal fatto che le corti e le cancellerie del c.d. Sacro Romano Impero abbiano avuto sede dap­pertutto (ad Aquisgrana, a Madrid, a Vienna) fuorché a Roma. A lo­ro bastò ed avanzò che fosse il Papa, capo di tutto, a risiedere a Ro­ma. Questo errore è possibile, tra l'altro, perchè la prospettiva guel­fa ignora o tace che esiste una precisa liturgia imperiale e che tale precisa liturgia presuppone l'esistenza di un Palatium, all'interno del quale essa si svolge (come avvenne a Costantinopoli per l'Impe­ro Romano d'Oriente) e che un Impero sedicente romano che non ha il suo Palatium in Roma (come deve avvenire per motivi di geogra­fia sacra tradizionale) usurpa il nome romano e dell'Impero Roma­no è una semplice caricatura!

Il mancato riconoscimento, da parte del Mordini, della dignità autonoma, originaria ed irrinunciabile dell'Impero, non gli permet­te di cogliere il "segreto" della politica ghibellina degli Staufen, di­retta ad affermare l' Imperium quale potestà che non ammette limi­ti politici o territoriali di sorta. ((E' noto ad esempio, che Federico II si propose di rivendicare la massima autonomia dell'Impero nei confronti della Chiesa. Su tal punto cfr. A. De Stefano, L'idea imperiale di Federi­co II, Parma, 1978, cap. III, passim.)). E, nella scia di questa incom­prensione, egli giunge perfino a giustificare, sia pure come dura ne­cessità, la politica filo-angioina del papato, che costituì certamente la più grave e prevaricante ribellione guelfa all'Autorità imperiale: « Fu duramente necessario per il Papato chiedere l'aiuto del Re di Francia contro la casa di Svevia; e con tale appello ha inizio quel compito di difesa del Santo Seggio cui la Francia adempirà ripetutamente nel corso della storia fino ai nostri tempi » (Attilio Mordini, Il Tempio del Cristianesimo, p. 94). Fino a che, completiamo noi, ad un Vittorio Emanuele II riuscì di compiere ciò che i guelfi avevano impedito a Federico, Manfredi e Corradino. Ma su questo punto ritorneremo tra poco.

Prima infatti di giungere al punto della incomprensione, che il Mordini condivide con il resto della pubblicistica guelfa, del pro­cesso di unificazione dell'Italia attuato nel secolo scorso, vale ac­cennare ad altri due punti di vista, che il Mordini con detta pubbli­cistica ha in comune.

Innanzitutto, nel Mordini non v'è parola di un possibile autono­mo perpetuarsi della Tradizione Classica dopo l'avvento del Cristia­nesimo. Per lui, si è visto, l'assemblea dei Numi riuniti nel Pan­theon romano è soltanto sincretismo: « E della sintesi cattolica, quel sincretismo era soltanto la falsa copia demoniaca; falsa copia di cui il Verbo si serve come di uno strumento a preparare le nazio­ni all'Incarnazione del Figlio; falsa copia che l'avvento della vera ef­fige, della vera sintesi del Cristo, dovrà gettarsi come superflua, co­me loglio nel fuoco » (Ibid., p. 37). A ciò non si può che rispondere che con le serene e ferme parole del platonico pagano Giorgio Gemisto Pleto­ne, vissuto quattordici secoli dopo l'Incarnazione, il quale affermò, intorno agli Dei, "innanzitutto che esistono" ((Giorgio Gemisto Pletone, Riassunto delle dottrine di Zoroastro e di Platone, riportato ne "Il Ghibellino", nn. 2-3, p. 22) e quindi non sono sicuramente svaniti nel nulla con l'avvento del cristianesimo. Per quanto riguarda poi il significato dell'Incarnazione sul piano gene­rale, ci limitiamo a riferire la valutazione che ne dà il Mordini in un inquietante passo, nel quale espone le sue riflessioni al riguardo. Dapprima vi è una premessa di vago sapore antroposofico, nella quale il Mordini afferma che « Dopo l'Incarnazione, invece, assi­stiamo all'affermazione di civiltà atee e materialistiche e ciò che prima era regolato da forze misteriose, forse dagli angeli, oggi è la­sciato alla responsabilità dell'uomo che, da servo, è stato chiamato ad esser figlio di Dio e quindi ad essere libero » ((Attilio Mordini, Il Tempio del Cristianesimo, , p. 22.)) (davvero non riusciamo a capire come Pitagora e Buddha, vissuti prima di Cristo, possano essere considerati dei servi!). Il Mordini prosegue dunque nel suo ragionamento circa le cause dell'avvento del materialismo e del progresso tecnico (omettiamo di trascrivere i passi, per esigenze di spazio, rinviando il lettore al testo del Mordini) e giunge quin­di a questa allarmante conclusione: « Questo materialismo è stato possibile- solamente dopo che il Verbo s'è fatto toccare da mani umane; ma soprattutto è stato possibile quando popoli interi si so­no inginocchiati, per secoli, davanti alle Specie materiali del pane e del vino quale materiale presenza della Sua carne e del Suo sangue sulla terra » (Ibid., p. 23). Lasciamo al Mordini la responsabilità di tali affer­mazioni, che peraltro ci interessano marginalmente, interessandoci più da vicino quanto egli dice a proposito della Tradizione sapien­ziale classica. A riguardo occorre constatare ancora una volta la sua incomprensione, che lo conduce a non cogliere l'essenza vera, esoterica e classica, del Rinascimento.

Già la sua premessa ci appare fallace: « Così da una Grecia de­vota al suo Olimpo, alla sua assemblea di esseri divini ordinata at­torno al Padre Giove, da una Grecia solare, muove il pensiero di Ari­stotele, la sintesi più grandiosa che il mondo classico abbia mai espressa » (Ibid., p. 75). Questa affermazione non corrisponde a verità, per­chè la Tradizione sapienziale ellenica, tramandatasi più tardi a Co­stantinopoli in piena continuità linguistica e culturale, ha conside­rato, per bocca dei suoi ultimi esponenti, da Proclo a Psello ed a Pletone, che nella "sintesi più grandiosa" concorrono sia Platone che Aristotele, essendo comunque il primo, e non il secondo, in posi­zione di preminenza. E non è neppur vero, come afferma il Mordini, che « Senza l'Incarnazione di Cristo l'aristotelismo sarebbe finito sugli ultimi resti dell'Impero romano antico, mentre nell'Incarna­zione del Verbo trova il suo vero significato e la sua forma ideale. Nel dogma cristiano, e solo in quello, può conciliarsi col platoni­smo » (Ibid., p. 76). A parte il fatto che Aristotele ebbe fortuna e si perpetuò anche in ambiente islamico, e quindi al di fuori del mondo cristia­no, non si vede perché la filosofia aristotelica, che possiede in sé stessa la sua forma ideale e che ancor oggi si può studiare intelli­gentemente e con profitto al di fuori di qualsiasi riferimento al cri­stianesimo, debba attribuire a quest'ultimo le ragioni della sua so­pravvivenza! Altrettanto gratuito è poi affermare, con perentoria sicumera, che solo nel dogma cristiano l'aristotelismo può conci­liarsi col platonismo. Una siffatta conciliazione, al contrario, era già avvenuta ad opera degli ultimi filosofi pagani prima e dei filoso­fi arabi poi, quindi in contesti culturali assolutamente non cristia­ni. Ma il Mordini prosegue nelle sue affermazioni errate: « Il lievito del Vangelo, dopo aver nutrito il platonismo di vita eterna sino a farne traccia a pensatori come Agostino e Dionigi Aeropagita, ecco volgersi a fecondare l'architettura metafisica e logica di Aristote­le » ((Ibid.)). Non è affatto vero, invece, che il Vangelo abbia nutrito il platonismo di vita eterna, tanto è vero che, alle soglie del Rinasci­mento, si incontra, con Pletone, una forma raffinata e coerente di platonismo pagano, che costituisce altresì la dottrina di una orga­nizzazione esoterica facente capo a Pletone stesso. Infine, ci tedia dover ripetere che l'architettura metafisica e logica di Aristotele non ha avuto bisogno di alcuna fecondazione artificiale cristiana per essere vitale e duratura. Si è che al Mordini, chiuso negli sche­mi di una dogmatica confessionale, è sfuggito il carattere superreli­gioso di philosophia perennis che compete al platonismo-aristoteli­smo, con il secondo in posizione gerarchicamente subordinata al primo. E, parimenti, in linea con l'avversione guelfa per il Rinasci­mento, al Mordini dispiace la fortuna di Platone presso gli uomini di cultura del Rinascimento: « Troppi cristiani, fra gli uomini di cultura, sin dal XV secolo avevano preferito chiamarsi tra loro fra­telli in Platone anzichè fratelli in Cristo; e in quelle pose classicheg­gianti veniva conculcata la viva e profonda verità di una più che millenaria tradizione cristiana » ((Ibid., p. 115.)). Se il Mordini avesse colto l'es­senza esoterica, superreligiosa e superconfessionale del platoni­smo, non avrebbe dovuto rammaricarsi che i migliori spiriti del Ri­nascimento avessero preferito percorrere l'aristocratica via della conoscenza platonica anzichè la democratica via della salvezza cri­stiana. Naturalmente l'alto livello metafisico del Rinascimento de­cadde con la Controriforma, la quale, come ricorda proprio il Mor­dini, riportò "in auge Aristotele" (Ibid., p. 107. Sulla reale grandezza ed importanza di Platone dal punto di vista metafi­sico e tradizionale, rimandiamo alla III parte dell'articolo di ULTOR, che apparirà sul prossimo numero de Il Ghibellino), cioé una forma di conoscenza notoriamente inferiore al platonismo.

Ritenuto dunque che per il Mordini la Tradizione Classica si è estinta e che l'anima classica del Rinascimento rappresentò un fenomeno negativo, non rimane che da attendersi, in sostanziale con­formità alle costanti del pensiero guelfo, un analogo giudizio sfavo­revole nei confronti del Risorgimento. Ed infatti così è.

Vi sono alcuni punti di partenza errati che traggono il Mordini in inganno in ordine alla giusta valutazione del Risorgimento. Egli infatti parte dalla falsa premessa che il moto di unificazione e di in­dipendenza di Italia fosse dovuto ad una esasperazione del naziona­lismo italiano, secondo l'ottica di Metternich: « Quando la nazione veniva sopravalutata nel particolarismo nazionalistico era morbo­sa remora, e andava schernita come espressione geografica. Espres­sione geografica avrebbe dovuto chiamarsi, in tal caso, non solo l'Italia, ma la stessa Austria; ed è ben per questo che subito presentì insostenibile la situazione di un Impero, non più cattolico, non più universale, ma austriaco » (Ibid., p. 159).

Vi sono nella impostazione del guelfo Metternich, ripresa dal Mordini, alcuni gravissimi stravolgimenti della realtà. Innanzitutto l'Impero asburgico non fu mai soltanto cattolico ed universale, ma soprattutto tedesco. Esso, infatti, in epoca risorgimentale, era il di­scendente diretto di quell'Impero che già alcuni secoli prima, all'epoca di Massimiliano I, aveva assunto il titolo di Sacrum Impe­rium Romanum Nationis Teutonicae (Heiliges Rómisches Reich Teuscher Nation), ovvero, in italiano, Sacro Romano Impero della Nazione Tedesca. Esso, come annota uno storico serio ed avveduto quale il Bryce, "scendeva così a divenire una potenza puramente te­desca" (Giacomo Bryce, Il Sacro Romano Impero, Milano, 1907, p. 441.). Come si vede, il nazionalismo, con buona pace di Mordi­ni e di Metternich, non l'hanno inventato i patrioti italiani del seco­lo scorso. Si può star certi che non vi sarebbe stato bisogno né del Risorgimento né del nazionalismo italiano, se fosse esistito un Sa­crum Romanum Imperium Nationis Italicae (Sacro Romano Impe­ro della Nazione Italiana), con Capitale in Roma, naturalmente! Del resto, che nell'Impero asburgico, pur con tutti i suoi pregi di buona amministrazione e di paternalismo verso i vari popoli che lo compo­nevano, la posizione egemone fosse assicurata all'elemento tede­sco, direttamente rappresentato dalla Casa d'Austria, è provato dal­la posizione di privilegio riservata alla lingua tedesca, fatto questo chiaramente rivelatore, di quale fosse l'elemento dominante (si pen­si ad esempio alla funzione del latino nell'Impero d'Occidente, a quella del greco nell'Impero Romano d'Oriente, e dell'inglese nell'Impero Britannico). Si comprende, quindi, come il Metternich, Francesco Giuseppe, ecc. fossero tanto avversi al sorgere di un na­zionalismo italiano. Esso rappresentava infatti la minaccia più di­retta e temibile per il nazionalismo austriaco, occultato dietro il preteso supernazionalismo dell'Impero asburgico. Esattamente, pertanto, i nostri antenati si resero conto che dietro l'imponente aquila asburgica si nascondeva l'austriaca gallina, da essi giusta­mente dileggiata, e tale si rivelò infatti quando i nostri soldati le strapparono le penne dell'aquila, delle quali pomposamente si am­mantava!

E dobbiamo altresì respingere al mittente, essendo null'altro che un vituperio guelfo, l'indicazione dell'Italia, da parte del Met­ternich, quale espressione geografica. Il Mordini si sforza di stempe­rare l'oltraggio, dicendo che tale locuzione, in analoghe condizioni, sarebbe stata applicabile anche all'Austria. Non siamo d'accordo. A parte il fatto che, guarda caso, il Metternich la adoperò nei confron­ti dell'Italia, e soltanto dell'Italia, noi diciamo forte e chiaro che l'Italia non può mai essere una semplice espressione geografica, perché essa è una terra sacra, la Suturnia Tellus, come avrebbe do­vuto sapere il Metternich, se si fosse preso la briga di farsi spiegare, da qualche professore dell'Impero (se ne avesse trovato qualcuno all'altezza) il significato tradizionale dell'Italia in Virgilio ed in Dante.

Vero è che anche il Mordini ammette che l'Italia andava unifi­cata: « Gli Asburgo non si erano mai mostrati avversi alla unità d'Italia, ed auspicavano di buon grado la federazione dei principati della penisola, che permetteva di attuare il programma tracciato dal Metternich al congresso di Lubiana del '21 » ((Ibid., p. 166.)).

Ma tale "federazione", lo diciamo senza mezzi termini, sarebbe stata soltanto una caricatura dell'Unità ed una beffa all'Indipenden­za. Infatti l'Italia sarebbe rimasta sottoposta alla pesante influenza dell'Austria, alla quale avrebbe poi 'continuato direttamente ad ap­partenere il Regno Lombardo-Veneto. Inoltre, la "federazione" avrebbe compreso tra i "legittimi" Principi anche il papa, chejegit­timo non era affatto, essendo il potere temporale dei papi, come più-volte si è visto, una vera usurpazione, anticamente radicata sul falso truffaldino della c.d. donazione di Costantino, "donazione" che il Mordini considera vera quantomeno nella sostanza, ((Ibid,, p. 91. Un polemista avversario (v. l'articolo di Ottone su Il Rogo - Bollettino-Notiziario Trimestrale, Supplemento ad "Excalibur", N. 2/1979, p. 7) ha espletato un goffo tentati­vo di difesa dell'affermazione del Mordini: « Mordini... si limita a riconoscere l'esistenza di un da­to di fatto che precede di secoli il falso documento, per cui la "donatio" è "vera nella sostanza", cioé nell'effettivo potere esercitato dai Ponterfici su di un territorio... '. Il che equivale a dire che se un tale, proprietario(!) di un ettaro di terreno, si confeziona un documento falso dal quale ri­sulta proprietario di cento ettari (cioé dell'Impero di Occidente!), il documento deve ritenersi ve­ro nella sostanza, perché comunque è proprietario di un ettaro. Strane idee sul diritto di proprie­tà!)) ponendosi così in perfetta antitesi con Dante Alighieri, il quale, non avendo a disposizione elementi per dichiararla falsa nella forma (il falso ven­ne dimostrato solo qualche secolo dopo dal dotto umanista Lorenzo Valla), la contestò almeno nella sostanza (Monarchia, III, 10).

Con queste premesse guelfe si comprende come al Mordini non sia piaciuta la presa di Roma da parte dell'Esercito Italiano, la qua­le invece rappresentò un atto di somma giustizia ghibellina e v'è da rammaricarsi soltanto che sia avvenuto solo nel secolo scorso, po­nendo comunque fine, per quanto tardi, a una usurpazione plurise­colare. Infatti il Mordini così si esprime al riguardo: « È così che i bersaglieri italiani possono agevolmente impadronirsi della capita­le del mondo per farne una delle tante capitali di stato » ((Ibid, p, 171.)). Al che, per amore di giustizia e di verità, ci corre l'obbligo di rispondere e precisare: 1) che Roma non era la capitale del mondo, bensì soltan­to del mondo cattolico (non solo il mondo induista e quello islami­co, bensì anche quello cristiano-ortodosso e cristiano-anglicano, per limitarci ad alcuni esempi, hanno diverse "capitali"); 2) che Ro­ma rimase "capitale" del mondo cattolico anche dopo la breccia; 3) che se Roma, dopo la breccia, cessò di essere capitale di qualcosa, finì soltanto di esserlo di un ridicolo statarello clericale male am­ministrato ed oggetto di ludibrio da parte di tutta Europa (proprio come sta diventando oggi l'Italia, dopo un trentennio di governo da parte della democristianeria).

E con questo possiamo chiudere circa le idee del Mordini, an­che per evidenti ragioni di spazio. Prima di concludere l'argomento del tradizionalismo guelfo relativamente al Settentrione d'Italia, e passare prossimamente ad esaminare quello relativo al Mezzogior­no, resta da dire qualcosa circa un curioso fenomeno di "Asburgo-mania" ((In tal modo tale moda viene definita da Quirino Principe in un articolo, così intitolato, che fa parte di un servizio dedicato all'argomento dalla rivista "Il Settimanale", nr. 48 del 28-11­ In tale corrente si collocano il libro Amore mio uccidi Garibaldi, di Isabella Bossi Fedrigot­ti (Milano, 1980), in cui il protagonista, dal tedeschissimo nome di Fedrigo Bossi Fedrigotti, nel ri­ferire alla moglie la notizia della (presunta) vittoria austriaca contro gli Italiani a Custoza, scrive alla moglie: "Che austriaco felice sono, stasera, mia Leopoldina" (p. 68); ed il libro di Carolus L. Cergoly, Il complesso dell'Imperatore, Milano, 1979, nel quale l'autore riprende il vieto argomen­to della pretesa "supernazionalità" dell'Impero asburgico e poi, di fronte al fatto che il tedesco fosse la lingua egemone, cerca di addolcire la pillola scrivendo che trattavasi, in Italia, di "un austro-italiano con cadenze e ritmi propri dell'austro-italiano" (p. 192). Ma sempre "tedesco" era, e noi la lingua di Dante siamo educati a non posporla o mescolarla ad alcun linguaggio barbarico, per quanto possa essersi evoluto!)) verificatosi di recente in Italia, quale "moda" favorita dalle suggestioni scaturite da torbidi abboccamenti finanziari di ambienti lombardi e bavaresi. Nel flusso di tale "moda" si colloca, in posizione di spicco, il libro di Franz Herre, Francesco Giuseppe (Franz Herre, Francesco Giuseppe, Milano, 1980.)), libro che cola livore nei confronti degli Italiani. In esso si leg­ge, ad esempio che Custoza fu "lo storico campo di battaglia sul quale gli italiani sembravano aver fatto un abbonamento alle scon­fitte" (p. 210). Orbene, in riferimento alla battaglia della terza guer­ra d'Indipendenza (24-6-1866), più che di una sconfitta, ci sembra si sia trattato di inesperienza e disorganizzazione da parte del neona­to esercito unitario italiano, dato che, nello scontro, gli Italiani eb­bero 714 morti e gli Austriaci 1170. Comunque, è vero che nei con­fronti dell'Italia l'Impero austro-ungarico non fece alcun abbona­mento alla sconfitta: esso l'acquistò tutta in una volta, nella prima guerra mondiale, e cessò di esistere. Apprendiamo inoltre, dal libro di Herre, che l'imperatore Francesco Giuseppe chiamava il Re d'Italia Vittorio Emanuele II "ladro di terre e borsaiolo" (p. 175). Poichè non siamo disposti a tollerare, senza reagire, alcuna offesa, neppure se ci giunge postuma, al grande Re ghibellino d'Italia, oltre al poco lusinghiero parere su Francesco Giuseppe del grande Ezra Pound, riportato sotto il titolo, ((L'espressione di Pound si trova nel libro Jefferson and/or Mussolini, Liveright, New York, 1970, p. 83, e suona testualmente: "Franz Josef was one fo the most schifoso figures of the ..".)) trascriviamo, quale risposta alle oscure manovre guelfe dirette ad "angelicare" Francesco Giuseppe e con lui l'aquila asburgica, le sonanti terzine dedicate da Gabriele d'Annunzio all'argomento:

"...Ma uno più d'ogni altro si costerna.

Egli è l'angelicato impiccatore,

l'Angelo della forca sempiterna.

Mantova fosca, spalti di Belfiore,

fosse di Lombardia, curva Trieste,

si vide mai miracolo maggiore?

La schifiltà dell'Aquila a due teste,

che rivomisce, come l'avvoltoio,

le carni dei cadaveri indigeste..." ((La poesia di Gabriele d'Annunzio è riportata in La patria nella vita e nell'opera di Ga­briele d'Annunzio, di Paride De Bella, Quaderni di "Ricerche", Roma, 1975, p. 21.)).

Che i contenuti antitaliani del libro dello Herre non abbiano in Italia suscitato soltanto, come dovevano, una beffarda curiosità, ma spesso, come sembra, un sospiroso consenso, si spiega solo con il non trascurabile numero di servi che vivono presso di noi da quando i Romani ne importarono in quantità.

Se ci occupiamo su questa rivista di una moda, quale l' "Asbur­gomania", apparentemente innocua o comunque facilmente ironiz­zabile, ciò si deve al fatto che tale moda è andata incontro al lavorio antitaliano ripreso da alcuni ambienti filotedeschi e nostalgici dell'Impero asburgico, presenti nel Friuli-Venezia e nel Trentino-Alto Adige, gruppi che di recente hanno rialzato la testa, approfit­tando dello sconquasso in cui il guelfismo al potere ha gettato l'Ita­lia ((La "Asburgomania" spinge talvolta il suo zelo fino al culto di elementi di contorno, quali le brache di cuoio (Lederhosen) e le stelle alpine. A proposito del costume con le brache di cuoio ricordiamo di aver visto una volta la parata militare (military tattoo) al Castello di Edim­burgo, in Scozia. Edimburgo è gemellata con Monaco di Baviera e pertanto sfilavano alternate le bande scozzesi e bavaresi (quest'ultime con le immancabili brache di cuoio). Ricordando la pate­tica impressione che queste provocavano di fronte al lento, solenne, marziale e quasi romano in­cedere degli Scozzesi, non comprendiamo che cosa trovino i guelfi nel costume con le brache di cuoio, che li faccia in tal modo sdilinquire. Riguardo poi alle stelle alpine, poiché questa è una ri­vista siciliana, ci sia consentito di riportare quanto scrive uno storico militare serio e certamente non sciovinista come Piero Pieri in Italia nella prima guerra mondiale, Torino, 1965, p. 173, circa un importante fatto d'armi che coinvolse la divisione austriaca Edelweiss (stella alpina) nel no­vembre 1917: "il 26 i Siciliani della brigata Aosta respingevano gloriosamente l'attacco della divi­sione Edelweiss al Col della Berretta". Questo valga per coloro che hanno o fingono di avere la memoria corta!)).

Ci vogliamo dunque prendere il divertissement di rispondere a costoro, riportando il "Decalogo dei tricolori del Brennero", detta­to da F.T. Marinetti all'Associazione denominata "La Guardia al Brennero". Anche se molte delle idee strampalate del futurista Ma­rinetti sono assai lontane dal nostro ghibellinismo, occorre dargli atto che egli ebbe sempre altissimi l'idea e l'orgoglio della Patria italica, come traspare del resto chiaramente dal suo paradossale "decalogo".

Lo trascriviamo pertanto integralmente, quale ironica risposta a tutti gli austriacanti, anche se siamo purtroppo consapevoli che, dopo un cinquantennio di guelfismo (iniziatosi con it Concordato del 1929 e tuttora perdurante), l'Italia e gli Italiani sono decaduti ri­spetto a quelli che it Marinetti aveva in vista nel lontano 1926:

1 - Divinita dell'Italia. 2 - I Romani antichi hanno superato tutti i popoli della terra: l'ita­liano oggi e insuperabile. 3 - Il Brennero non è un punto di arrivo, ma un punto di partenza. 4 - L'ultimo degli italiani vale almeno mille forestieri. 5 - La lingua italiana è la pift bella del Mondo. 6 - I prodotti italiani sono i migliori del Mondo. 7 - I paesaggi italiani sono i più belli del Mondo. Per comprendere la bellezza di un paesaggio italiano occorrono occhi italiani, cioe occhi geniali. 8 - L'Italia ha tutti i diritti poiché mantiene e manterrà it monopo­lio del genio creatore. 9 - Tutto cio cheè stato inventato e stato inventato da Italiani. 10 - Perciò ogni forestiero deve entrare in Italia religiosamente ((Il "decalogo" marinettiano e riportato da Enzo Benedetto in Futurismo cento x cento, Roma, 1975, p. 59.)). Gherardo Donoratico (3-continua)   [caption id="attachment_20351" align="aligncenter" width="300" class="center center "]Il grande Re ghibellino Vittorio Emanuele II di Savoia, effigiato con in capo la Corona di Ferro, emblema del Regnum Italicum. Il grande Re ghibellino Vittorio Emanuele
II di Savoia, effigiato con in capo la Corona
di Ferro, emblema del Regnum Italicum.[/caption]   Pubblichiamo col consenso dell'autore e con l'aiuto dell'amico Massimo Chiapparini Sacchini le quattro parti del presente saggio uscito per la storica rivista Il Ghibellino (1979 - 1983).  
Questa terza parte era compresa nel NUMERO 4-5-6 (dicembre 1981 e.v.)

AQUILA IN AURO TERRIBILIS ∼ Tradizione ghibellina e tradizionalismi guelfi – (4^ parte) – Piero Fenili

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Se un corpo è libero solo quando esso obbedisce alla sua anima, non ad un’anima eterogenea — allora riceve un senso profondo di verità l’affermazione di Federico II, secondo la quale gli Stati che riconoscono l’autorità dell’Impero sono liberi, mentre schiavi sono quelli che alla Chiesa — esponente di un’altra spiritualità si sottomettono.
Julius Evola

Completiamo la nostra sintetica rassegna della sovversione guelfa in Italia con uno sguardo al peculiare modo di atteggiarsi di essa nel nostro Mezzogiorno.

Il regno del Sud sorse come impossibile feudo concesso ai Nor­manni dal Papato, al quale non competeva conceder feudi in Italia, bensì soltanto somministrare i riti e impartire il messaggio di una religione di salvezza; e si consolidò quindi, in uno spirito prevari­cante di rivolta alla legittima Autorità imperiale della Corte staufi­ca di Palermo, quale regno bastardo, nato dall'impuro connubio del re fellone Carlo d'Angiò con la curia papale dell'epoca, entrambi specificazioni storiche dell'allegoria dantesca del Gigante e della Prostituta (Purg. XXXII, 148-160).

Il regno del Sud, dunque, nacque e si consolidò come stato vassallo della Chiesa e quindi, per usare il duro linguaggio federiciano, fu uno stato schiavo. Come tale, era irrinunciabile compito ghibellino l'abbatterlo. Data la premessa guelfa, la conclusione ghibellina segue con la stessa intrinseca necessità di un teorema matematico. Il compito di liberare l'Italia dall'intollerabile vassallaggio del Sud nei confronti del Papato, fallito dai Principi della Casa staufica, per una serie di circostanze avverse, fu raggiunto, molti secoli dopo, dal condottiero Garibaldi, che lo conquistò nel nome del re ghibellino Vittorio Emanuele II di Savoia. Il re guelfo Ferdinando II di Borbone, invece, malgrado le sollecitazioni dei suoi fedeli, non volle mettersi a capo del movimento unitario nazionale per ri­spetto al Papa ((Più esattamente egli rispose che non accettava la corona d'Italia "per non sapere che co­sa fare del Papa" (in: VITTORIO GLEIJESES, La storia di Napoli, Napoli 1974, p. 765.)). Con tale atteggiamento egli si mostrò perfetta­mente coerente con le "tradizioni" guelfe del suo regno. Regno guelfo, dunque, da eliminare, come è stato fatto, quale corpo estra­neo alla struttura unitaria della Tradizione Italica, intollerabile proiezione della Teocrazia usurpatrice sul territorio sacro della Sa­turnia Tellus.

Che poi a ciò si sia giunti troppo tardi (per colpa della curia pa­pale e dei suoi vassalli) e quindi con tutti gli effetti traumatici che comporta il somministrare in grave ritardo un farmaco necessario, è cosa che non tocca l'assoluta esattezza del principio: un regno vas­sallo della Chiesa non aveva in Italia ragione né diritto di esistere.

Ma v'é di più. La curia papale, volendo, contro la politica imperia­le degli Staufen, un regno del Sud diviso e separato dal resto dei possedimenti imperiali dell'Italia del Nord, attuò la separazione del Settentrione dal Mezzogiorno d'Italia, i cui effetti negativi si no­tano ancor oggi, ma le cui cause la parte guelfa cerca di fare dimen­ticare.

Si impone quindi una riflessione di fondo. Roma, unificando le antiche e diverse genti italiche, ebbe nei loro confronti un effetto aggregante. La curia papale, separandole ed allontanandole eserci­tò su di loro una efficacia disgregante. Essa si pose quindi, nella sto­ria d'Italia, come l'Anti-Roma per eccellenza. E poiché se pensiamo all'Anti-Roma il pensiero non può non correre a Cartagine, la politi­ca temporale guelfa ed antievangelica del papato attraverso i secoli fu in qualche modo simile a quella di una Nuova Cartagine nel suo avere ostacolato lo sviluppo della storia nazionale italiana.

Riteniamo di aver fornito sufficienti "chiavi" per la interpreta­zione, lo smascheramento e la condanna degli interessi guelfi e di­sgreganti che si celano dietro l'artificioso "revival" borbonizante al quale da qualche tempo si assiste.

Non sarà tuttavia inutile, per l'utilità dei lettori, analizzare ra­pidamente i testi dottrinali ai quali fanno riferimento quanti danno appoggio a questa ennesima insidia guelfa alla unità della Tradizio­ne Italica.

Viene innanzitutto in considerazione, per il livello di pensiero che la ispira e la formazione culturale che la nutre, l'opera di Fran­cisco Elias de Tejada. Questo scrittore spagnolo non fu guelfo per temperamento, ché anzi mostrò di appartenere interamente, per il suo sentire, alla tradizione monarchica delle Spagne, la quale, all'occorrenza, non fu affatto tenera con il papato, come dimostra la brutale vicenda del sacco di Roma del 1527. Egli fu quindi il tipo, di monarchico cattolico tradizionalista iberico ed incarnò, nella vi­ta e nelle opere, la bella figura dell'hidalgo.

Questo fu il suo pregio ed il suo limite. Infatti, la mancanza di alcuni essenziali punti di riferimento ghibellini e romani ha fatto sì che la sua opera, non guelfa nelle intenzioni, sia in realtà da collo­carsi interamente nell'ambito della pubblicistica guelfa.

Troviamo infatti, anche nel de Tejada, il caratteristico errore che pone tutta l'impostazione guelfa al di fuori della vera Tradizio­ne Italica: il disconoscimento del perenne mistero imperiale e quin­di superreligioso di Roma, e del perpetuarsi nei secoli, fino ai no­stri giorni, della Tradizione Classica che lo custodisce. Da questo svisamento della verità essenziale discendono i vari errori contenu­ti nella concezione dottrinale del de Tejada.

Nel considerare la sua opera prendiamo quindi le mosse da un suo scritto fondamentale, "La monarchia tradizionale" ((Francisco Elias de Tejada, La monarchia tradizionale, Torino 1966.)), apparso con il sottotitolo "Il fascismo superato a destra", il quale deve esse­re apparso ghiotto all'anima guelfa di tanta parte della c.d. destra italiana, la quale, abbandonando ogni prudenziale ritegno, ha svela­to in questi ultimi anni il suo vero volto.f-2

Ecco le affermazioni di Elias de Tejada che rivelano la sua in­comprensione di fondo del "senso" della storia italica: "... Mussoli­ni vide la Tradizione italiana nel solco di quella Roma, che, per gli Italiani del XX secolo, non poteva essere altro che un remoto e ve­nerato resto archeologico" ((Ibid, p. 12.)); "L'equivoco del fascismo, riducente la Tradizione italiana alla chimera dorata e morta di una tradizione romana evanescente..." ((Ibid, 12-13.)); "Accorrere a Roma cercando resuscita­re un paganesimo più che morto..." ((Ibid, 25.)); "... sogno della resurrezione della tradizione pagana di Roma ..." ((Ibid, 25.)). Come si vede, sono espressioni dalle quali risulta che la verità della continuità perenne della Tradizione romana classica all'interno della storia d'Italia è ignorata, misconosciuta, considerata equivoco, sogno, tentativo ne­cromantico ((Arturo Reghini è di diverso avviso, quando afferma: "Vogliamo solo attestare con la no­stra opera l'esistenza e l'azione della tradizione iniziatica romana...", IGNIS, Gennaio 1929, p. 5.))).

Chi ci segue sa che questa Rivista non risparmia al fascismo pe­santi critiche e severi giudizi. Ma esso, almeno, malgrado fosse in­triso di guelfismo, non giunse mai a dichiarare formalmente estinta la Tradizione Classica, come invece si ricava dalle affermazioni del de Tejada. Il suo libro, pertanto, più esattamente avrebbe dovuto recare come sottotitolo "Il fascismo superato in guelfismo". Tanti equivoci sarebbero stati allora evitati.

Da questo fondamentale errore guelfo di prospettiva nasce il disconoscimento, da parte del de Tejada, del profondo significato positivo, per la storia d'Italia, dei due grandi momenti storici nei quali maggiormente rifulse l'incrollabile fedeltà della parte miglio­re della sua stirpe alla Tradizione classica: il Rinascimento e il Ri­sorgimento.

Così per quanto riguarda il Rinascimento, il grande e nobile sforzo di Niccolò Machiavelli di riaccendere negli Italiani il ricordo del loro passato "romano" è considerato "una chimera umanistica, e non il programma concreto che era naturale sperare dal suo reali­smo politico. Il dolore d'Italia s'ammanta di irrealizzabile sogno. Come l'Alighieri risolse la sua passione italiana nella formula dell'Impero d'Occidente, Niccolò Machiavelli risolve la sua nell'impossibile resurrezione della Roma morta mille anni fa" ((F. Elias de Tejada, Il Risorgimento nella tradizione italiana, in: Per una cultura giusnaturalista, Palermo 1981, p. 63 (il corsivo è nostro).)). È proprio questo l'errore capitale del de Tejada: Roma non muore, per­ché, platonicamente, è un'idea eterna nella Mente di Dio ed è massi­mo titolo di gloria del Rinascimento l'avere riportato alla luce quel­la sapienza platonica che costituisce il naturale involucro e soste­gno di questa e di altre verità tramandate dalla Tradizione classica. Ma di questo nel de Tejada non v'è, né può esservi cenno.

Sfugge al de Tejada la profonda nobiltà insita nella fedeltà del­le aristocrazie italiche al retaggio di Roma antica, fedeltà che si tradusse nel Rinascimento in un religioso amore posto nella riscoper­ta e nello studio delle antichità classiche, vissuti come un rinnovato contatto con le radici più profonde della propria anima e del pro­prio sangue; e, nel Risorgimento, nella precisa volontà di restaura­re, nella Penisola, quell'unità politica e statuale delle genti italiche che Roma aveva realizzato e che era andata perduta con il tramonto del mondo antico. La Tradizione italiana, quindi, contrariamente a quanto pensa il de Tejada, è inscindibile dalla Tradizione romana, la quale non è affatto "evanescente" né costituisce una "chimera dorata e morta" ((F. Elias de Tejada, La monarchia tradizionale, pp. 12-13.)). Essa è, al contrario, ben viva, come sanno i guelfi che se la trovano sempre di fronte ogni qual volta passano il limite che essa riconosce loro.

Non una parola vi è nel de Tejada circa la tenace e prevaricante opposizione esercitata dalla curia vaticana all'unità politica delle genti della Penisola, unità rispondente ad un elementare diritto na­turale che nemmeno i guelfi possono disconoscere. Ed è curioso che il de Tejada, pur avendo notato tale mostruosa anomalia, non ne identifichi la causa, che pure è nota. Scrive infatti il de Tejada: "Nella penisola iberica fu possibile un processo di unificazione culminato nel 1580, mentre in Italia una serie di ostacoli impedisce l'attuazione del processo unitario, anche nella forma iberica di fe­derazioni personali o reali" ((F. Elias de Tejada, Il Risorgimento, ecc., p. 73 (il corsivo è nostro).)). Eppure non ci voleva molto ad in­dicare nella prava volontà di conservare il proprio potere tempora­le, da parte della curia vaticana, l'essenza di quella serie di ostacoli dei quali il de Tejada riconosce l'esistenza. E quindi è soltanto pa­tetico l'accenno del de Tejada alla ipotesi che avrebbe visto realiz­zarsi l'unità d'Italia intorno al Regno di Napoli: "l'unità d'Italia in­torno al trono del Regno avrebbe potuto realizzarsi in accordo con la struttura propria della Monarchia Cattolica; cioé alla maniera di una federazione nell'ambito della quale ogni componente avrebbe conservato la propria personalità politica e culturale, senza pregiu­dizio per l'unione di tutti nelle imprese comuni" ((Ibid., p. 67.)). Il vizio di tale ragionamento consiste infatti nel trascurare la vera natura del Re­gno di Napoli quale stato vassallo del Papato, risalente alle poco limpide origini del patto stretto dal papa Urbano IV con il re fellone Carlo d'Angiò. Come poteva un regno schiavo (la dura espressione, lo abbiamo visto, è dell'Imperatore Federico II) ribellarsi contro il suo padrone? E il suo padrone, il papato, aborriva da ogni forma di Stato unitario della Penisola italiana, che prima o poi avrebbe po­sto sul tappeto la "questione romana" ed avrebbe guardato a Roma come alla sua capitale naturale, considerando la cessazione del po­tere temporale dei papi come un evento, oltre che giusto, altrettan­to naturale.

Certo, un'Italia debole e divisa ha fatto il gioco delle altre Po­tenze europee, che hanno trovato la via libera su tale lato. Non sor­prende quindi che il de Tejada, sincero amico dell'Italia, ma pur sempre celebratore della potenza della grande confederazione mo­narchica delle Spagne, si faccia dell'Italia una idea femminea, ve­dendola "dolce come una sposa, graziosa come una sirena, sottile come un brusio discreto e fervidamente appassionata come una preghiera risonante nell'alba di un giorno di battaglia" ((F. Elias de Tejada, La monarchia tradizionale, p. 8.)) (in altre parole, la bella che sta in chiesa a pregare, mentre il suo uomo va in battaglia). Oppure quando le riserva soltanto il ruolo di bottega d'arte, laddove, criticando Mussolini, afferma che egli "Non vide che la penisola italiana, durante gli ultimi 7 secoli, aveva disimpe­gnato il ruolo, che, nell'orbe classico, corrisponde alla Grecia: il culto del bello e non l'arte della guerra, l'essere vivaio di poeti ed artisti, preferire nuove conquiste nell'arte a nuove conquiste di ter­re" ((Ibid., p. 12.)). Vien da pensare che davvero Spagnoli, Francesi, Inglesi, Olandesi, Portoghesi dovrebbero accendere ceri quotidiani davanti alle effigi dei Papi che, usando la potentissima arma della religione nei confronti di un popolo, l'italiano, di pie tradizioni, lo hanno divi­so e mortificato nella sua anima storica, che era pur sempre un'ani­ma imperiale. Se si pensa a quello che riuscirono a compiere le Re­pubbliche Marinare italiane, piccole e per di più in acerrima lotta tra loro, si deve pensare che la flotta militare di un'Italia che fosse stata unita nel XV secolo avrebbe dominato i mari ed oggi, con ogni probaoilità, si parlerebbe italiano in India come in America!

Occorre infine dire che, così come è sfuggito ad Attilio Mondini ((v. Il Ghibellino, Dicembre 1981, pp. 17-18.)), il de Tejada non sembra rendersi conto che, affinché vi sia ege­monia di un popolo sugli altri, e quindi un nazionalismo occulto di esso, non occorre certo la presenza di una ideologia nazionalistica apertamente e dichiaratamente conclamata. Basta che, di fatto, vi sia l'egemonia di una stirpe sulle altre. Quindi non ci convince il de Tejada quando si dice avversario del nazionalismo, ma poi esalta la grande confederazione monarchica delle Spagne, comprendente il Regno di Napoli, cioé una buona parte dell'Italia. Proviamo a rove­sciare i termini della questione: anche noi ci dichiariamo avversari del nazionalismo, però proponiamo una grande confederazione mo­narchica delle Italie, comprendente anche la Spagna, retta da un Imperatore avente il trono in Italia! Crediamo che nessun naziona­lista italiano abbia mai osato vagheggiare un sogno "nazionale" co­sì ambizioso. Eppure i titoli storici non mancano: la Spagna fu pro­vincia romana, tanto che in un suo borgo, Italica, fondato da Scipio­ne Africano, ebbe i natali l'Imperatore Trajano, colui che condusse il nostro Impero alla massima espansione! Non crediamo che ad Elias de Tejada sarebbe piaciuto l'idea si indurre la Spagna a far parte delle Italie! Stranamente dovrebbe essere sempre l'Italia a fa­re le spese, rinunziando alla sovranità su ampie parti del suo terri­torio, a favore delle pretese "tradizionali" (non nazionalistiche, per carità) di filoiberici, austriacanti, ecc. Non si immaginerà certo che gli Italiani, benché frastornati da quindici secoli di chiacchiere pseudoteologiche e pseudogiuridiche guelfe, siano tanto ingenui da accettare simili punti di vista!

Concludiamo con Elias de Tejada, trattando in breve della sua posizione critica nei confronti della lingua italiana, che egli chiama "idioma toscano coltivato artificialmente da caste di letterati" e "toscano straniero" ((F. Elias de Tejada, La monarchia tradizionale, pp. 14.15. Una delle fissazioni ricorrenti della pubblicistica guelfa è l'avversione nei confronti della lingua italiana. Già alcuni anni fa, sul­la rivista "Solstitium" del Centro di formazione tradizionale "Julius Evola", qualcuno era giunto a magnificare la possanza dello spagnolo "yo", contrapponendola alla debolezza dell'italiano "io" (!).

La misura è stata tuttavia colmata dallo scritto di un polemista guelfo del quale questa rivi­sta si è già occupata (cfr. di Ezzelino, Del "Rogo" e d'altro, sui nn. 0 e 1 de "Il Ghibellino"). Sul nr. 2/1979 del "Rogo", infatti, il guelfo Ottone (metallo, peraltro, assai facile da piegare), criticando l'articolo di Jacopo da coreglia Ghibellinismo dantesco e Tradizione italica (Arthos, aprile 78 gennaio 79) contenente, tra l'altro, una esaltazione dell'idioma italico, definito da Dante volgare illustre, forniva di esso una "originale" interpretazione, definendolo "la lingua parlata dal volgo", con palese intento denigratorio. Eppure sarebbe bastato che, anziché farsi accecare dai suoi umori antitalici, fosse andato a leggere quanto scrive al riguardo il Guénon, con esattezza fi­lologica e profondità di ermeneutica tradizionale: "L'essenziale, qui, è di sapere cosa intende Dante con l'espressione volgare illustre la quale può sembrare strana o addirittura contradditto­ria se ci si attiene al senso ordinario delle parole, ma diventa comprensibile se si tien conto che per lui volgare è sinonimo di naturale: cioé la lingua che l'uomo impara direttamente per trasmissione orale (come il bambino, che dal punto di vista iniziatico rappresenta il neofita, apprende la propria lingua materna), vale a dire, simbolicamente, la lingua che serve da veicolo alla tradizio­ne, e che, sotto questo rapporto, può identificarsi con la lingua primordiale e universale" (Rivista di studi tradizionali, n. 31, luglio-dicembre 1969, p. 101). Come si vede siamo ben lontani dalla ot­tonata definizione di "lingua parlata dal volgo". Ma anche per chi non intendesse seguire così, lontano il Guénon, rimarrebbe il fatto che "volgare" significa "naturale" e, soprattutto, che l'idioma italiano è una lingua aristocratica, perché si formò a corte, nella reggia federiciana di Palermo. Così questa nostra lingua asciutta, signorile ed elegante, che nacque in Sicilia, fu giova­ne in Toscana ed è divenuta matura con l'apporto di tutte le genti d'Italia, è, fra le lingue vive più belle e nobili del mondo, forse la prima, come molti stranieri non stentano a riconoscere.

Resta da appurare perché Ottone ce l'abbia tanto con essa e quale altro idioma, in definitiva, le preferisca. Forse il tunisino?

A quanto pare, ciò che è toscano non riscuote le simpatie della stampa guelfa. In proposito menzioniamo l'articolo di Gabriele Fergola, Ma gli italiani chi sono?, apparso su il CONCILIATO­RE, dicembre 1975. In esso spira una singolare ostilità verso la Toscana, nella quale si vede, tra l'altro, "l'Etruria che rinasce ancora con Galileo, il negatore del tradizionale sistema tolemaico, in polemica con la Roma non più dei Cesari ma dei Papi" (volevamo ben dire!). Non è nostro com­pito svolgere una difesa d'ufficio della terra di Marsilio Ficino e di Arturo Reghini, oltre che, naturalmente, di Dante Alighieri. Ci basta citare il passo di un autore, che non dovrebbe essere sgradito al Fergola, dal quale risulta che la moderna Etruria, sul piano dello stile, non si è poi, al momento della prova, comportata così male: "Dopo la fine della guerra un ufficiale americano, a chi gli chiede quale città italiana gli sia piaciuta di più, risponderà: « Firenze, perché è l'unica cit­tà dove ho veduto degli italiani che hanno avuto il coraggio di spararci addosso «Malaparte de­dicherà un'indimenticabile pagina della « Pelle » alla descrizione della fucilazione di franchi tira­tori e franche tiratrici fiorentine, ragazzi e ragazze di quindici o sedici anni che muoiono beffan­do i loro carnefici e gridando: « Viva Mussolini! ». E l'unica pagina pulita e luminosa in quel libro così tetramente sudicio e opaco, l'unica nella quale il nome italiano esca onorato" (Adriano Ro­mualdi, Le ultime ore dell'Europa, Roma 1976, p. 20).)), che a torto si sarebbe sostituito al napoletano. Egli dimentica, infatti, che la lingua italiana è idioma che nac­que alla corte siciliana di Federico II, quindi lingua aristocratica e patrimonio comune di tutti gli italiani, e niente affatto "toscana", come bene insegnò Dante nel "De vulgari eloquentia". Che poi i grandi trecentisti toscani (Dante, Boccaccio e Petrarca) l'abbiano innalzata a vette sublimi è un dato storico che nulla ha a che vedere con pretese egemoniche regionali od altro. Di fatto, la lingua puris­sima dei grandi trecentisti si pone in rapporto di continuità con la lingua della Scuola Siciliana e non con qualsiasi dialetto italiano, napoletano o di altra parte. Ogni stirpe che abbia un destino comu­ne (e se non lo ha, a rigore, non è "stirpe", ma accozzaglia di etnie) ha anche un comune linguaggio e il de Tejada è costretto implicita­mente a riconoscerlo laddove ricorda che finché rimase in piedi l'ideale del primato italiano di Napoli (fino alla fine del XVI secolo) ci si servì in quel regno del "toscano" (cioé dell'italiano). Oppure si preferisce un'Italia priva di un linguaggio comune, nella quale un napoletano debba ricorrere al vocabolario per leggere un giornale triestino, e viceversa? Ci sembra di sognare a dover sprecare tempo ed inchiostro per dover confutare, nell'anno di grazia 1982, simili assurde ipotesi.f-3

Anche in casa guelfa, tuttavia, le opinioni non sempre collima­no. Non se la prende con il "toscano" lo scrittore Carlo Alianello, che tra l'altro dimostra di maneggiare con perizia la lingua italiana, ma si dimostra fautore dei Borboni, cosa che avrebbe fatto inorridi­re Elias de Tejada. Intendiamo riferirci al libro "La conquista del Sud", del quale non ci saremmo occupati, data la scarsa consisten­za storica delle tesi esposte, se esse non fossero state presentate in uno stile suggestivo che può far sempre colpo sulla mentalità da perpetui emarginati del sottobosco della c.d. destra italiana, sem­pre in caccia di sconfitte storiche nelle quali stemperare l'amaro dei propri fallimenti individuali. Diciamo "scarsa consistenza stori­ca" delle tesi sostenute dall'Alianello, unicamente perché egli attin­ge prevalentemente ad autori "di parte guelfa", come egli ha in un caso l'onestà di dichiarare apertamente (a pag. 138, a proposito del libro del cavalier Farnerari "Della monarchia di Napoli e della sua fortuna"), oppure addirittura ad opere di Anonimi, come nel caso delle citatissime "I napoletani al cospetto delle nazioni civili" e "Cronaca degli avvenimenti di Sicilia, dall'aprile 1860 al marzo 1861". Sarebbe un po' come se si volesse scrivere un libro antiborbonico fondandosi sul libro, realmente esistente, di Anonimo, I de­litti della famiglia Borbone dacché regna nelle due Sicilie (1734-1860). Cenni cronologici, Asti, Raspi 1860.

Fatta questa premessa, il libro offre soltanto l'interesse di un pamphlet guelfo, scritto bene ma intriso dei soliti errori che la par­te guelfa ripropone oggi, nell'ignoranza generale, come punti di vi­sta nuovi ed anticonformisti, ma che in realtà ripetono vecchie ub­bie con una monotonia che rasenta il tedio. Così troviamo il "pio" Re Ferdinando II, che avrebbe potuto "mettersi a capo del movi­mento unitario. Ma non volle, per rispetto al Papa" (p. 31; come vo­levasi dimostrare!); un Re che rivela ancora una volta la bieca intol­leranza guelfa, quando ha il potere, decretando: "L'unica religione dominante nello Stato sarà la Cattolica, Apostolica, Romana; e non vi sarà tolleranza di altri culti" (p. 46; il bravo vassallo del papa ci tiene a far bene il suo lavoro!); il trasparente rimpianto per la "glo­ria" che avrebbe baciato il generale borbonico tedesco Von Moe­chel se avesse "schiacciato, dentro e sotto Palermo, Garibaldi e i Garibaldesi" (pp. 68-69; purtroppo, per lui, il von Moechel fu bacia­to dalla sconfitta nella battaglia del Volturno); la jattura di non avere posseduto, i Borbonici, i moderni cannoni rigati all'assedio di Gaeta, cannoni posseduti invece dagli odiati Piemontesi (p. 75; ma allora, dov'era la tanto vantata superiorità del Regno di Napoli nel progresso tecnologico ?); il "coraggioso" Re Francesco II di Borbo­ne che, a differenza di Vittorio Emanuele III di Savoia, non fuggì dalla sua capitale (p. 98; e da chi avrebbe dovuto fuggire? Non ave­va certamente alle calcagna i nazisti, bensì soltanto il buon Vittorio Emanuele II, che non gli avrebbe torto un capello) ((Le suggestioni dell'Alianello, ancorché fondate su prospettive storiche errate e prive di un reale fondamento tradizionale, non sono rimaste prive di una certa eco. A parte i polpettoni te­levisivi con cattivi ufficiali dei bersaglieri muniti di berretti con improbabili piume color verde pisello, tanto graditi alla cultura radical-chic che scorge nelle tematiche guelfe un ghiotto stru­mento per rendere la situazione italiana ancor più confusa e ingovernabile di quanto già lo sia, si possono anche leggere imprudenti affermazioni. Così Carlo Terracciano, nella presentazione del libro di Otto Rahn, Crociata contro il Graal, 1979, accosta "Il colonialismo piemontese nel mezzo­giorno d'Italia" alla infame e sanguinosa crociata cattolica contro i Catari della Francia del Sud. E non si accorge che è vero esattamente l'opposto. L'abbattimento del regno di Napoli da parte italiana non fece che vendicare la civiltà cortese e "trovadorica" del Sud federiciano e svevo, di­strutta dalla crociata cattolica voluta dal papa Urbano IV e dal fellone Carlo d'Angiò.)); il lamento per il sacrilegio dei Piemontesi, che incamerarono "mense vescovi­li, le terre e i beni delle disciolte congregazioni religiose" (p. 127; peccato che non vi sia stata sottomano una falsa donazione di Co­stantino per dimostrarne la proprietà); e così via. Sul finire del li­bro l'Alianello si pone la fatidica domanda sul perché vi fu "tradi­mento in massa di generali, di alti ufficiali, della flotta" (p. 225). Giusta domanda, perché in effetti le forze militari borboniche avrebbero potuto schiacciare, con la loro potenza immensamente superiore, i garibaldini appena sbarcarono in Sicilia. Vorremmo az­zardare una risposta pedestre alla domanda di Alianello: forse per­ché avevano le tasche piene de "lu Re", de "lu Papa" e di un assetto della Penisola arcaico ed ingiusto, che spaccava in pezzi l'Italia, perpetuando antiche divisioni escogitate dalla libidine di potere temporale di teologastri falsari.

Con questo facciamo il punto. La confutazione dei monotoni er­rori guelfi ci è venuta a noia e speriamo che l'abbia a noia anche il lettore, il quale saprà rispondere con un salutare sbadiglio ogni qualvolta si imbatterà nelle trite argomentazioni di "borbonici", "papalini", "asburgici", "filoispanici", ecc. Almeno tutti gli scritti che abbiamo citato hanno la dignità dell'intelligenza e della cultura e quindi meritano il rispetto che sempre si deve alle manifestazioni del pensiero. Nessun rispetto merita invece la trista schiera di quella feccia di emarginati e falliti che, in preda alla Schadenfreude, al piacere di tutto insozzare, si scaglia contro la Patria italica, alla quale vorrebbe negare Unità ed Indipendenza per sostituirle, secon­do i suoi gusti da servi, con una soggezione a potentati stranieri. Il suo disegno è fallito fortunatamente sul nascere. Ma ne abbiamo preso buona nota, almeno per contare quanti, presso di noi, hanno lo stesso nostro passaporto pur discendendo in linea retta dai nu­merosi schiavi punici, teutonici, gallici ecc. che i nostri padri Ro­mani ebbero l'imprudenza di trapiantare nella Penisola.

Di una cosa comunque siamo certi. Per quanto si adoperino questi squallidi neoguelfi di borgata, al soldo del loro padrone di sempre, non riusciranno mai a mistificare, come desiderano, il sa­cro simbolo dell'Aquila Romana. L'Aquila Romana, ci ricorda Dan­te (Epistola VI, 12) è un'aquila in auro terribilis, un'aquila terribile in campo d'oro, e l'oro in cui si manifesta è il cielo aureo della meta­fisica imperiale classica. La quale, per analogia, ha bisogno, per es­sere contemplata, di intelletti acuti ed intrepidi, di intelletti aquili­ni. Si sia pur certi, quindi, che là ove tale metafisica è assente, l'Aquila Romana, sacra a Giove, non vola. Volerà forse qualche al­tro pennuto, che non ci riguarda e non ci interessa.

Gherardo Donoratico

Pubblichiamo col consenso dell'autore e con l'aiuto dell'amico Massimo Chiapparini Sacchini le quattro parti del presente saggio uscito per la storica rivista Il Ghibellino (1979 - 1983).

Questa quarta parte era compresa nel Numero 7-8 (ottobre 1982 aprile 1983 e.v.)  

I FABI E LA TRADIZIONE ANNALISTICA – Stefano Arcella

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SOMMARIO: 1. La protostoria repubblicana come storia di gentes: apporti culturali e funzioni politiche. — 2. Il “problema Fabio Pittore” nelle interpretazioni della storiografia contemporanea: criterio della verosimiglianza e limiti di una interpretazione della “vulgata” in chiave encomiastica. — 3. Fabio Pittore e la clades Cremerensis: la funzione della deformazione della storia. — 4. Q. Fabio Massimo: un nuovo rapporto tra “pubblico” e “privato” nella prassi politica e nell’esperienza religiosa. — 5. Il culto pubblico di Venus Erycina e il suo legame con la gens Fabia. — 6. Il culto pubblico di Mens e la sua connessione con la cunctatio di Q. Fabio Massimo. — 7. Q. Fabio Pittore e l’oracolo di Delfi. La relazione di questa ‘tradizione’ con la leggenda delle origini troiane dei Romani. Intento “patriottico” e riscatto politico della gens Fabia.

  1. — È stato giustamente osservato che “nei primi secoli della repubblica la storia di Roma è storia di gentes, e solo molto più tardi si può parlare di una « storia di famiglie »(1), riferendosi al monopolio del potere che le gentes esercitano sia sul piano delle cariche magistratuali e della formazione del Senato che su quello delle attribuzioni sacerdotali e della composizione dei principali collegi religiosi pubblici(2), la cui funzione è strettamente connessa con la determinazione dell’indirizzo politico dello Stato(3), ma anche con l’enucleazione della cultura romana(4) e, in particolare, con la historia quale categoria culturale(5).

La tradizione storiografica romana affonda, infatti, le sue radici nel sostrato dell’annalistica pontificale(6) alla cui formazione non furono estranei, secondo alcuni studiosi, interessi gentilizi in chiave encomiastica(7).

Tale influenza delle gentes nella formazione dell’annalistica pre-letteraria permane e si sviluppa nella successiva fase dell’annalistica letteraria(8), della quale Fabio Pittore è considerato uno dei promotori(9).

L’approfondimento del rapporto tra i Fabi e l’annalistica è finalizzato a chiarire le motivazioni culturali e politiche, nonché le modalità narrative, in base alle quali i Fabi rappresentano se stessi, i loro comportamenti, la loro storia, nel contesto generale di quella repubblicana.

  1. — Il problema Fabio Pittore è di centrale importanza fin da quando è sorta una scienza critica della storia di Roma(10), poiché coinvolge l’attendibilità delle tradizioni sulla storia romana più antica. Le più recenti interpretazioni di questo annalista divergono notevolmente tra loro nel valutare la portata del suo contributo alla formazione della tradizione storiografica romana.

La valorizzazione in senso razionalistico di Fabio Pittore operata da A. Momigliano(11) — che scorge nell’opera di questo annalista il primo sforzo di comprensione intellettuale della storia di Roma — contrasta con l’interpretazione di A. Alföldi il quale considera Fabio Pittore responsabile non solo dei primi falsi della tradizione, ma della “vulgata” in sé e per sé, dal momento che, dopo di lui, la storia romana, fino alla seconda guerra punica, non avrebbe subìto rilevanti modifiche(12).f-2

Due tesi diverse che però, secondo alcuni, avrebbero in comune l’esclusione dell’annalistica pontificale dalla tradizione storiografica e, quindi, dal problema delle falsificazioni(13).

Il successivo attenuarsi delle tendenze ipercritiche in merito alla storia di Roma arcaica e a quella della più antica Respublica(14)ha orientato verso una revisione di questa impostazione, stabilendo un rapporto diverso, di maggiore continuità ed affinità, fra gli annali pontificali e la prima annalistica letteraria.

Già il Mazzarino riconosce che determinate alterazioni della protostoria repubblicana non sono attribuibili a Fabio Pittore(15), ma vanno spiegate nel quadro della più antica elaborazione pontificale, animata da intenti nazionalistici, in una prospettiva « romanocentrica ».

Fabio Pittore si inserirebbe, dunque, creativamente — ossia apportando a sua volta ulteriori falsificazioni — nel filone annalistico, in cui sarebbe già presente il momento della deformazione della storia per scopi politici. Più specificamente, il Mazzarino attribuisce a Fabio varie falsificazioni(16) fra le quali quella della clades Cremerensis(17), che sarebbe stata elaborata per offuscare la memoria del dies Alliensis, in ordine al quale Fabi avevano una precisa responsabilità storica.

Tale lettura è plausibile, poiché la memoria del dies Alliensis e dell’incendio gallico permane in tutta la tradizione; esso era un evento così cruciale e drammatico nella storia di Roma da non poter essere rimosso, ma solo temperato dal ricordo di un evento di segno opposto.

Viene, tuttavia, da chiedersi se la proposta avanzata dal Mazzarino sia davvero esauriente. La versione di Diodoro dimostra, anzitutto, che il falso è tale solo nella misura in cui amplifica il ruolo dei Fabi(18). Se inoltre il sacrificio dei Fabi assume un carattere esemplare, ossia fornisce un modello di comportamento destinato a divenire una costante nella tradizione di questa gens(19)è pur vero che la narrazione di questo evento, col disastroso esito militare che ne consegue, invalida il bellum privatum, quale procedura idonea a garantire la « salus reipublicae ». E dal punto di vista di una tradizione encomiastica non è certo un risultato brillante.

L’intento encomiastico non sembra esauriente per spiegare le ragioni del formarsi di una tale tradizione sui Fabi(20). Ai vari orientamenti storiografici considerati è comune un canone metodologico che consiste nel discernere, all’interno della tradizione, gli episodi verosimili e quindi attendibili da quelli riconducibili a falsificazioni, stabilendo, ove possibile, di quali eventi siano una anticipazione, quali interessi devono soddisfare e le circostanze in cui il falso si è formato.

Questo indirizzo metodologico, pur avendo indubbiamente contribuito in modo decisivo all’approfondimento della più antica storia di Roma, è stato oggetto di critiche, poiché, secondo alcuni studiosi, esso non spiegherebbe quale messaggio culturale sia eventualmente racchiuso nei falsi e perché essi si siano formati in relazione ad una certa gens anziché ad un’altra(21).

È un problema sul quale già il Durnézil aveva soffermato la sua attenzione, sia pure con una interpretazione discutibile, che trascura di considerare le ragioni per le quali gran parte dei personaggi della protostoria repubblicana recano il nomen di gentes storiche.

« La risposta più usuale è ammettere che una gens potente — scrive al riguardo — o un autore ad essa devoto abbia messo … il suo nome in onore. L’ipotesi è facile, a volte plausibile — così quando si tratta dei Fabi — a volte gratuita »(22). E conclude considerando questo problema «una difficoltà superficiale» e, come tale, trascurabile.

Ora, poiché i nomina gentilicia che caratterizzano questi personaggi, sono uno dei più rilevanti collegamenti fra proto-storia e piena storia repubblicana, trascurare il senso e il motivo di tali denominazioni postula una separazione fra livello storico e livello leggendario, laddove, invece, i due profili sono molto più intrecciati e interdipendenti di quanto lo stesso Dumézil non voglia far apparire(23).

Le ragioni di tali presenze gentilizie nella protostoria repubblicana e in quella di età più avanzata sono riconducibili all’influenza che le gentes, grazie ai pontefici del loro lignaggio e poi a scrittori «di famiglia» — hanno esercitato sulla redazione annalistica fin dalle sue origini(24).

La preesistenza delle gentes rispetto alla civitas e alla familia(25) consente di spiegare, anche sulla base delle risultanze epigrafiche(26), la presenza dei nomina gentilicia fin da alcune vicende della Roma regia (emblematico è il caso degli Orazi e dei Curiazi). Eppure, nonostante tali acquisizioni scientifiche, restano diversi problemi aperti.

Va osservato che proprio Fabio Pittore — nonostante le critiche mossegli da Alföldi — non attribuì alcun ruolo alla sua gens in età regia, tant’è che i Fabi appaiono nella storia di Roma solo negli anni fra il 485 e il 480 a.C., coi consolati dei fratelli Quintus, Kaeso e Marcus(27).

Il Gabba(28) ha osservato che la stringatezza delle notizie riferite da Fabio Pittore sul primo periodo repubblicano — e rilevata da Dionigi d’Alicarnasso (1.6.2) — contrasta con le accuse di falso che gli sono state mosse.

Il Montanari(29) ha evidenziato, inoltre, la persistenza dei nomina gentilicia nella tradizione, nonostante i mutamenti di mentalità che, in età più avanzata, inducono a considerare come fabulae episodi registrati in precedenza come facta.

Lo stesso ausilio delle risultanze archeologiche su Roma arcaica e protorepubblicana è stato recentemente ridefinito da Ampolo, ai fini di una ricostruzione della storia politica di Roma e, dunque, anche in rapporto al problema delle falsificazioni.

Egli scrive: “ … i dati archeologici … ci danno preziose informazioni sulla cultura, sull’economia e sui culti, mentre diventano spesso ambigui nel campo della storia politica e della ricostruzione degli avvenimenti “. Le risultanze archeologiche hanno un valore, secondo Ampolo, solo se si verifica una sistematica convergenza fra serie di dati provenienti da diverse discipline e non fra singoli frammenti decontestualizzati(30)

Se quindi si vuole chiarire quale tipo di contributo abbiano dato i Fabi alla tradizione storiografica romana, credo che occorra aprirsi al confronto con altre proposte metodologiche.

  1. — Fabio Pittore è contemporaneo del Cunctator e scrive i suoi Annales in greco(31), in un’epoca in cui il pericolo annibalico rende prioritaria l’esigenza di salvaguardare la civitas repubblicana e la sua unità interna(32).

È molto discusso se egli, pur essendo un attento conoscitore della cultura greca, possa o meno considerarsi un radicale innovatore della tradizione sulla storia di Roma(33).

Nel suo stile narrativo si può cogliere una tendenza realistica, l’inclinazione alla descrittività puntuale dei fatti, quale si evince, ad esempio, da un passo di Dionigi d’Alicarnasso, che ha utilizzato la minuziosa descrizione di Fabio Pittore(34) per la sua rappresentazione dei Ludi Magni. Dionigi dichiara espressamente di basarsi sull’autorità di Q. Fabio il quale « parla per conoscenza diretta »,

Descrive quindi la processione in onore degli dèi che i magistrati guidavano dal Campidoglio, attraverso il Foro, fino al « grande ippodromo ».

In questa descrizione si scorge uno stile che è stato accostato a quello dell’arte figurativa romana, quale si può osservare nel dipinto — proveniente dall’Esquilino e risalente al 200 a. C. circa — ove si rappresenta un fatto storico, in narrazione continua, in tre ordini sovrapposti di figure, concernenti due incontri tra un Q. Fabio e un M. Fannio e, infine, una scena di battaglia(35).

La produzione letteraria di Fabio Pittore nascerebbe, dunque, dall’incontro tra forme «pittorico-storiche» peculiarmente romane e motivi culturali propri della storiografia greca(36), che egli avrebbe applicato ad un materiale costituito dagli Annales pontificali ma anche dagli archivi gentilizi e, forse, dagli antichi carmina convivalia, tipici della tradizione orale(37). Peculiarmente romano è, dunque, il materiale sul quale lo scrittore si basa ed accanto al quale si può, forse, individuare un filone di tradizione orale — tipico delle culture arcaiche — che conserva e tramanda un insieme di leggende atemporali cui altri studiosi attribuiscono funzioni «fondanti» ed «esemplari», nel senso, cioè, che istituiscono exempla, modelli di comportamento che si traducono, poi, nella tradizione storiografica, in « costanti » dello stile di azione di questa o quella gens.

A Fabio Pittore si attribuisce, dunque, il merito di essere stato tra i primi a realizzare, in una forma letteraria che risente chiaramente dell’influenza della storiografia greca(38), l’amalgama tra materiale leggendario e notazioni pontificali sui principali avvenimenti dell’età regia e della protostoria repubblicana.

È molto controverso se la tradizione dei carminia convivalia abbia esercitato una diretta influenza sull’opera di Fabio. Momigliano(39), esclude una loro utilizzazione diretta da parte dell’annalista. Ciò non esclude, però, che egli ne abbia avuto cognizione indiretta; non vanno sottovalutate, al riguardo, le tracce che di essi si scorgono nel poema di Nevio. Anche se non sappiamo quali rapporti intercorsero tra i due, né chi dei due pubblicò per primo, non può escludersi che, proprio attraverso Nevio, Fabio abbia avuto conoscenza, magari frammentaria, di questa antica tradizione orale.

Quanto alle notazioni pontificali, occorre tenere conto del più ampio contenuto dei commentarii pontificali rispetto a quello — prettamente cronachistico — delle tabulae dealbatae.

Al riguardo, il Gabba ha osservato che la ricopiatura annua del contenuto della tabula dell’anno scaduto « avrà sicuramente comportato ampliamenti e modifiche, anche con l’impiego dello svariato materiale documentario che doveva raccogliersi presso i pontefici rispetto alle scarne annotazioni, di carattere eminentemente pratico e sacrale, registrate nelle tabulae »(40) .

E a proposito delle leggi di Numa, il Gabba, richiamando Liv. 6.1.10. -  sul recupero, dopo l’incendio gallico, delle Dodici Tavole e di « quaedam regiae leges » - ipotizza che i pontefici possano aver rielaborato testi anteriori, anche per l’influenza culturale di ambienti della Magna Grecia imbevuti di pitagorismo(41).

La più tarda pubblicazione degli Annales Maximi da parte del pontefice Q. Mucio Scevola rifletterebbe, secondo il Montanari, la complessa elaborazione, operata dai pontefici, del materiale storico romano(42), anche se è molto discussa la datazione della sezione dedicata alle origini e all’età regia(43).

La distinzione fra annalistica pre-letteraria e letteraria sembra essere, dunque, più sfumata di quanto alcuni studiosi abbiano voluto rappresentarla(44).

La stessa influenza che Diocle di Pepareto e Timeo di Tauromenio esercitano su Fabio Pittore(45), apre il problema delle fonti cui, per la storia di Roma, abbia attinto la storiografia greca. A tale proposito il Gabba ipotizza che « gli storici greci possano aver rielaborato tradizioni indigene e che, dunque, i primi annalisti letterari abbiano accolto le versioni greche in quanto ritrovavano in esse tradizioni patrie »(46). Ammettere la plausibilità di questa ipotesi vuoi dire riconoscere la continuità fra tradizione orale e tradizione scritta e ricostruire il processo formativo della tradizione, cogliendo i fenomeni di interazione, anziché cesure più o meno enfatizzate.

Da tutto ciò si deduce che l’alterazione della storia di Roma era, probabilmente, un processo già in atto da tempo nell’annalistica pontificale e che, dunque, non è prudente enfatizzare l’apporto di Fabio all’elaborazione della tradizione(47).

Il ruolo dei pontefici va inoltre collocato in una precisa cornice storica.

Essi in età regia — come risulta dalla testimonianza di Festo sull’ordo sacerdotum(48) che, in età recenziore, era un fossile del precedente ordinamento — avevano una posizione del tutto subordinata rispetto al rex e ai flamines maiores.

In età repubblicana, con la riduzione delle funzioni del rex al solo ambito sacrale(49) e la preminenza acquisita dalla triade capitolina rispetto a quella arcaica di Juppiter-Mars-Quirinus(50)i pontefici assumono quella priorità nella gerarchia sacerdotale, nonché nel campo politico (redazione degli annales e dei commentarii, preparazione del calendario che ha diretta influenza sullo svolgimento delle attività pubbliche) e in quello giuridico (formulazione dei responsa) che è un loro tratto peculiare(51).

Si tratta di un fenomeno legato alla genesi e allo sviluppo della Respublica ed è in questo contesto che va calato il problema delle falsificazioni.

L’ulteriore elaborazione ad opera dell’annalistica letteraria dalla metà del III secolo in poi — va a sua volta connessa con la laicizzazione e divulgazione del ius civile (formulari procedurali) e dei fasti, a partire dall’iniziativa attribuita all’edile Cn. Flavius nel 304 a. C.(52), nonché con l’innovazione del « publice profiteri » che Tiberio Coruncanio, pontefice massimo plebeo, introduce nella professione del giurista(53), poco più di mezzo secolo più tardi.

Se si avverte l’esigenza di divulgare e laicizzare il ius civile e di innovare la funzione del giurista, tale tendenza si manifesta anche nella concezione della tradizione annalistica, i due fenomeni essendo espressione del medesimo clima culturale tipico di una fase storica segnata - sin dal trentennio successivo all’incendio gallico - dalla graduale apertura alla plebe sia delle magistrature che dei principali collegi religiosi, con il conseguente e progressivo passaggio da una fase di egemonia patrizia a quella della formazione della nobilitas patrizio-plebea quale classe dirigente della civitas.

Ed è significativo che lo stesso Cn. Flavius edificò nel 304 a. C. un tempio alla dea Concordia, simbolica personificazione della nuova sintesi politico-sociale nel quadro della Respublica(54)così come è altrettanto significativo che il monumento bronzeo della lupa e dei gemelli, eretto a cura degli Ogulnii nel 296 a. C.(55), alludesse simbolicamente, secondo l’intuizione del Mommsen, alla diarchia consolare e, forse, all’equilibrio raggiunto fra patriziato e plebe(56).

Il nesso fra gli atti simbolici e la laicizzazione e divulgazione dello ius civile, nonché della tradizione annalistica, è il segno di questo processo storico della formazione del nuovo Stato che, superando i vecchi esclusivismi, accoglie ed ingloba le componenti sociali emergenti(57).

La tradizione sulla clades Cremerensis è stata spiegata alla luce di questo nuovo clima politico-sociale: qui il mito presenterebbe invertite le condizioni dell’esistenza che esso fonda e legittima(58). L’assunzione privatistica e volontaristica dello scontro con i Veienti da parte dei Fabi, il comportamento incauto e irruento con l’epilogo della disfatta militare, sarebbero funzionali non solo alla invalidazione del bellum privatum, ma anche e soprattutto ad affermare la preminenza e la validità delle nuove categorie del «civico» e del «pubblico», contro ogni insorgenza di tipo privatistico(59).

Il messaggio culturale racchiuso nella deformazione della storia sarebbe — secondo il Montanari — quello della integrazione di qualunque iniziativa — sia essa politica, militare o diplomatica — nella logica unitaria del nuovo Stato repubblicano, abbandonando, dunque, ogni spinta centrifuga e particolaristica(60).

È lo stesso messaggio che viene letto nella tradizione dei Fabi inviati in legazione a Chiusi, del dies Alliensis e del successivo incendio gallico(61), nonché nella narrazione della temeraria iniziativa militare di Q. Fabio Rulliano(62), nella guerra contro i Sanniti.

Se un apporto, in termini di amplificazione, è riconducibile all’opera di Fabio Pittore, esso — secondo tale orientamento — sarebbe stato funzionale alla edificazione e, soprattutto, alla legittimazione ideologica della respublica, intesa come civitas patrizio-plebea, entità politicamente preminente rispetto a singole fazioni o ai vari gruppi privati.

È sintomatico, al riguardo, che la tradizione sull’incendio gallico conservi non solo la memoria della perniciosa insorgenza privatistica dei Fabi, ma anche la figura di un plebeo, L. Albinus, che dà il suo aiuto alle Vestali per portare al sicuro, a Caere, i sacra dell’urbe e salvaguardare, quindi, l’esistenza della civitas, conformemente alla concezione religiosa romana(63). L’episodio sembra simboleggiare l’integrazione della plebe nelle strutture, nella logica e nella cultura del nuovo Stato romano(64).

La storia protorepubblicana — ma anche quella di età più avanzata — viene recuperata anche attraverso il momento della deformazione, visto non più come fuga dalla realtà e mera invenzione letteraria, ma come consapevole elaborazione di un modello culturale finalizzato alla legittimazione di una istituzione politica la cui realizzazione è il nucleo storico centrale del tessuto narrativo dell’annalistica.

In questa prospettiva, il contributo di Fabio Pittore alla tradizione storiografica romana viene visto in piena sintonia con le esigenze politiche e culturali del suo tempo(65), ossia con la necessità storica di rilanciare il senso dello Stato, la coscienza della « res-populica »(66), quale bene comune da difendere dinnanzi alla minaccia cartaginese e al conseguente senso di smarrimento e di insicurezza collettiva che si diffuse nella civitas(67).

In merito a questa lettura della tradizione, sorge, tuttavia, un dubbio: fino a che punto il filone « fabio » della tradizione esprime davvero questo senso dello Stato, della « res-populica », e non si tratta, invece, di una proiezione sulla tradizione di istanze culturali proprie ad orientamenti moderni?

Il rischio di sovrapporre congetture moderne a falsificazioni antiche è, infatti, sempre presente in sede di ricostruzione storiografica.

Occorre quindi che tale proposta interpretativa vada verificata, sul terreno di una tradizione di rilievo primario nella storia della seconda guerra punica: quella della cunctatio di Q. Fabio Massimo e quella — contestuale — di Q. Fabio Pittore inviato a Delfi.

  1. — La tradizione sulla figura e l’opera di Q. Fabio Massimo nel corso della seconda guerra punica sembra smentire, ad un primo esame, il modello di comportamento attribuito alla gens Fabia in tutta la sua storia precedente.f-3

Alla iniziativa incauta e irruenta dei suoi maiores, Q. Fabio sembra contrapporre un’esemplare prudenza nell’arte militare, fondata sulla cunctatio(68), reiteratamente criticata dai suoi concittadini, poiché facilmente confondibile con un’impostazione esitante(69),

Il suo modus agendi viene contrapposto a quello del console C. Flaminio nella battaglia del Trasimeno, per la quale Livio evidenzia che ha dedotto le notizie da Fabio Pittore.

Liv. 22.7.4: Ego, praeterquam quod nihil auctum ex vano velim, quo nimis inclinant ferme scribentium animi, Fabium aequalem temporibus huiusce belli potissimum auctorem habui.

Sulla stessa linea di rappresentazione, ad una logica privatistica che privilegia i legami gentilizi, subentra la netta subordinazione dell’interesse privato a quello pubblico, allorché Q. Fabio ostacola la carriera politica di T. Otacilius (cui è legato da vincoli di parentela) considerandolo più idoneo alle funzioni sacerdotali(70); nel 214 Fabio Massimo si oppone, infatti, alla nomina di T. Otacilius a console.

Liv. 24.8.11: in minore te experti T. Otacili, re sumus: haud sane cur ad maiora tibi fidamus documenti quicquam dedisti.

Liv. 24.8.17: Si consul esses, dictatorem dicendum exemplo maiorum censeremus, nec tu id indignari posses, aliquem in civitate romana meliorem bello haberi quam te.

Analogamente, al momento del culto gentilizio si affianca e prevale la pietas verso le divinità cittadine.

Se si seguisse un’interpretazione puramente encomiastica di questa tradizione, si sarebbe indotti a credere che la connotazione « civica » di Q. Fabio Massimo, sia stato un ulteriore espediente narrativo di Fabio Pittore per equilibrare il ricordo di altre infauste iniziative dei Fabi.

È un aspetto, questo, da non rimuovere ma occorre verificare se tale tradizione non sia riconducibile anche ad altre motivazioni.

Analizziamo, dunque, il modo in cui Q. Fabio affronta il problema religioso, legato alla crisi politico-militare.

La lettura di Livio risulta, al riguardo, molto illuminante.

Fabio accusa il console Flaminio di « neglegentia caerimoniarum auspiciorumque » ed afferma la necessità preliminare di consultare la volontà divina, attraverso l’esame dei libri Sibillini da parte dei decemviri.

Tale lettura dei « fatales libri » comporta il rinnovo del voto a Marte, perché non compiuto « rite », la celebrazione dei Ludi Magni in onore di Juppiter, il voto di due aedes alle dee Mens Venus Erycina, nonché una supplicatio e un lectisternium e, infine, il voto di un ver sacrum(71).

Se vengono osservate le prescrizioni sacerdotali inerenti ad antichi riti di origine pre-civica, quali il ver sacrum, con un atteggiamento chiaramente conservatore, è anche vero che questi culti vengono celebrati in una prospettiva di difesa dello Stato e integrati con nuovi culti civici, per fronteggiare la crisi della « pax deorum », del precedente e ormai inadeguato rapporto con le divinità cittadine.

Tale valenza religiosa del conflitto viene evidenziata da Livio già per la precedente fase del consolato di C. Flaminio.

Liv. 21.63.6: non cum senatu modo, sed iam cum dis immortalibus C. Flaminium bellum gerere.

La crisi della pax deorum non è dovuta soltanto alla negligenza del console Flaminio rispetto ai doveri religiosi; è proprio quel tipo di pax ad essere messo in discussione dalle artes di Annibale e da quella che Livio, sarcasticamente, definisce la « fides » punica.

I rituali disposti dal senato in occasione di ogni battaglia, non hanno, infatti, fino a quel momento, sortito alcun esito positivo(72).

Il mondo punico viene rappresentato come l’antitesi di tutto ciò che è tipico della cultura romana.

Liv. 21.4.9: Nihil veri, nihil sancti, nullus deum metus, nullum ius iurandum, nulla religio.

Le artes di Annibale sono dunque quelle della fraus, della impietas, del dolus e del mendacium che Livio, già nel primo libro, aveva qualificato come « minime romane »(73).

E’ evidente che Livio - e le fonti cui egli attinge - propone in questo caso una contrapposizione dialettica fra tali peculiarità del mondo punico e la Fides romana, la guerra divenendo lo scontro fra due culture, con l’attribuzione a Roma di tutte le connotazioni positive.

E credo sia indubbio l’apporto che Fabio Pittore — quale contemporaneo del Cunctator — diede per il formarsi di tale tradizione storiografica(74).

È in relazione a questa impostazione « patriottica », che credo vada definito il senso dei nuovi culti introdotti sotto la dittatura di Fabio Massimo, quale risposta alla crisi globale del sistema romano.

  1. — Il primo dato da cogliere concerne l’associazione dei culti di Venus Mens: si tratta di votare le aedes di due nuovi culti e il carattere innovativo di entrambi è l’elemento comune, oltre ad una omogeneità funzionale che sarà, forse, più chiara in seguito(75).

La Venere di Erice era una dea comune a molte culture del Mediterraneo. Essa era venerata dai Greci e dai Sicani, ma anche dai Punici(76), Ciò indurrebbe a scorgere in questa dea un elemento di unione fra i vari popoli ma, in realtà, essa era oggetto di feroci contese(77). Le fonti testimoniano i violenti combattimenti sostenuti durante la prima guerra punica per la conquista della rocca ove era ubicato il santuario della dea(78). Al di là del profilo militare, resta aperto il problema del recupero della dea alla cultura romana.

Non è casuale che la dea fosse romana « ab origine », rimuovendo quindi il suo precedente carattere interetnico ed escludendo quindi un processo di acquisizione fondato sul rito della evocatio, che avrebbe presupposto il passaggio da una situazione precedente (la dea estranea ai Romani) ad una nuova collocazione (la dea diventa romana).

Si ricorre quindi a una fictio, che trova riscontro nella tradizione letteraria, allorché Virgilio(79) espone nei suoi versi la leggenda delle origini troiane della dea quale αἴτιον del suo culto a Roma.

La dea è quindi connessa alla leggenda delle origini troiane del popolo romano, tema questo che si avrà modo di incontrare nuovamente. Venere viene chiamata in causa per favorire la vittoria su Annibale: nel sistema religioso di Roma essa è costantemente associata al tema della vittoria(80), come si evince dalle testimonianze epigrafiche e numismatiche.

In quel momento, particolarmente difficile, della guerra annibalica, la votazione della aedes Venus Erycina ha la specifica funzione di integrare il sistema cultuale -  fondato su Juppiter — con la venia, la grazia elargita dalla dea(81).

Alla « fortuna » di Annibale e alla « fides » punica non è sufficiente contrapporre il vecchio sistema religioso: occorre che esso sia rigenerato attraverso il recupero di rituali arcaici (ver sacrum) sui quali innestare nuovi culti. La ritualità arcaica conferisce garanzia di regolarità al sistema, mentre i culti nuovi attualizzano il retaggio religioso tradizionale e lo adeguano alle mutate necessità storiche.

Tutto ciò ha una precisa relazione con la gens Fabia, avendo il suo precedente storico nella consacrazione della aedes Venus Obsequens da parte di Q. Fabius Gurges.

Liv. 10.31.9: Eo anno Q. Fabius Gurges, consulis filius, aliquot matronas ad populum stupri damnatas pecunia multavit, ex quo multaticio aere Veneris aedem, quale prope Circum est, faciendam curavit.

Venus Obsequens Venus Erycina erano connesse rispettivamente, alle festività — loro dedicate — dei Vinalia rustica e dei Vinalia priora. Collegate fra loro sotto il profilo calendariale, erano in stretto rapporto con Juppiter, il cui flamen interveniva nel rito della vendemmia(82). Alla comunanza col dio capitolino si aggiunge il comune tema della vittoria, come si evince dalla testimonianza di Servio.

Serv. ad Aen. 1.720: dicitur Obsequens Venus, quam Fabius Gurges post peractum bellum samniticum ideo hoc nomine consecravit, quod sibi fuerit obsecuta.

Si può quindi cogliere una costante relazione tra i Fabi e la dea Venus quale datrice di vittoria.

La tradizione annalistica ha voluto, con questa costruzione narrativa, tramandare l’immagine di una gens « vincente », ma solo in quanto si integra in una logica di culti pubblici al servizio dello Stato.

Che un àugure come Q. Fabio Massimo abbia potuto influire sulla stesura di questa tradizione da parte di Fabio Pittore, è cosa probabile, tenuto conto del carattere squisitamente religioso di questa autorappresentazione della gens Fabia. Ed è altrettanto verosimile la sensibilità a questo tema di un uomo come Fabio Pittore, che la critica moderna ha definito « pedantescamente pio ».

L’analisi va ora completata soffermandosi sul culto di Mens e sui rapporti. con Venus e la gens Fabia.

  1. — L’origine del culto della dea Mens è controversa. Alcuni sostengono la tesi della sua provenienza greca(83), altri quella della matrice italica della dea(84).

In mancanza di dati sicuri, credo che l’unica via percorribile sia quella di identificare la radice etimologica del nome.

Mens deriva dalla radice « men » che designa il principio pensante, ma anche l’intelligenza e l’intenzione(85).

Alla stessa famiglia linguistica appartengono il sostantivo mensura e il verbo metiri (=misurare),

Mens designa quindi l’attitudine a misurare, a cogliere i limiti e, in relazione alla cunctatio, a scandire il tempo in ritmi e in cicli, sapendo discernere i momenti propizi da quelli infausti per il compimento di una determinata azione(86).

Mens è collegata linguisticamente anche al verbo mentiri e al sostantivo mendacium, che esprime l’idea di una riserva mentale e, dunque, di un contrasto fra intenzione e dichiarazione che si verifica mentalmente prima ancora della manifestazione di volontà. Ed è proprio il mendacium, con l’efficacia ingannatrice che gli è propria, una delle peculiarità che Livio attribuisce ad Annibale.

Questa dea è quindi, sul piano della psicologia religiosa, il più efficace antidoto per neutralizzare la minaccia punica, integrando le preesistenti fides pietas, che altrimenti sarebbero affiancate da metus, come si evince dalla testimonianza di. Ovidio:

Ovid. fasti 6.241-246: Mens quoque numen habet: Mentis delubra videmus/vota metu belli, perfide Poene, tui./Poene, rebellaras, et leto consulis omnes,/adtoniti Mauras pertimuere manus./Spem metus expulerat, cum Menti vota senatus/suscipit, et melior protinus illa venit.

La dea è, quindi, un forte elemento di stabilizzazione, sul piano della psicologia collettiva(87) e si connette, pertanto, alla funzione di Juppiter Stator, che dà la vittoria, salvando e stabilizzando la Respublica(88).

La funzione stabilizzatrice di Mens implica anche la collocazione definitiva di Venus Erycina nel sistema religioso romano, frenando la sua venia, potenzialmente dispersiva(89).

Altro legame rilevante è quello con Fides, documentato dalle risultanze epigrafiche fino alla tarda età imperiale(90)Fides è, a sua volta, connessa al Giove capitolino, come risulta dalla testimonianza di Cicerone(91).

Dall’insieme di queste testimonianze sembra, dunque, emergere una configurazione civico-statuale della dea Mens grazie a un suo legame costante con divinità quali Fides Juppiter.

Tutto ciò ha una diretta rilevanza per cogliere il nuovo indirizzo politico dei Fabi nonché la funzione di Fabio Pittore.

La tradizione annalistica — e Fabio Pittore in prima linea — elabora la figura del Cunctator come l’incarnazione non solo di qualità come la prudenza temporeggiatrice, ma anche di valori religiosi (fides e pietas) e civici (preminenza della Respublica sugli interessi privati) ai quali Mens Venus appaiono strettamente connesse. Tutto il precedente modello di comportamento dei Fabi viene trasformato, assumendo una impronta civico-statuale.

È però legittimo chiedersi fino a che punto tale costruzione narrativa sia funzionale ad enfatizzare valori civici repubblicani e sia, quindi, animata da un intento civico-patriottico, tenuto conto che l’opera di Fabio Pittore, essendo scritta in greco, era destinata anche ad un pubblico straniero, quello italiota, ed aveva quindi una funzione spiccatamente propagandistica, più o meno riconosciuta dalla storiografia moderna(92).

Resta in altri termini, il dubbio che dietro questo fervore civico-patriottico, si celi comunque un intento encomiastico in favore della gens Fabia e, quindi, un proposito di riabilitazione della sua memoria storica.

E questo dubbio apre un interrogativo, sul piano della ricostruzione storiografica: fino a che punto i due intenti, quello civico-patriottico e quello encomiastico-gentilizio, sono compatibili fra loro? E in che misura le due diverse letture di questa tradizione possono integrarsi? A tali interrogativi si può tentare di dare una risposta attraverso un’attenta lettura della tradizione sulla missione a Delfi di Fabio Pittore.

In questa vicenda vi è, infatti, un singolare esempio di identità fra l’annalista e il protagonista diretto di una vicenda politico-militare. Ed è quindi molto illuminante osservare come Fabio si rappresenta.

  1. — La missione di Fabio Pittore si colloca immediatamente dopo la battaglia di Canne, quando l’incertezza e lo smarrimento collettivo raggiungono il loro culmine e più viva è quindi l’esigenza di una protezione sovrannaturale(93). La scelta di consultare l’oracolo di Delfi non è casuale.

Siamo alla fine di un secolo segnato dall’apertura di Roma ai sacra peregrina(94) e dalla forte affermazione, già risalente al V secolo, del culto apollineo(95), com’è anche dimostrato dalla prescrizione del ver sacrum, tratta dai libri Sibillini di cui riferisce Liv. 22.9.7-10(96),

Le testimonianze sulla missione delfica sono in Livio, Plutarco e Appiano(97). Livio riferisce il contenuto del responso oracolare — che prescrive, fra l’altro, di estinguere la « lascivia » — e narra il viaggio di ritorno di Fabio Pittore, incoronato del lauro, ininterrottamente, fino a Roma.

La decisione di inviare a Delfi proprio Fabio Pittore è, evidentemente, connessa con la sua conoscenza della lingua e della cultura greca(98). Da questa tradizione emerge il rilievo dato alla personalità di Fabio, non solo in quanto rappresentante di Roma, ma anche nella sua specificità di uomo pius, animato da quel fervido senso religioso che già la tradizione attribuisce al Cunctator(99) nonché agli antenati della gens Fabia(100).

L’esaltazione del personaggio non si esaurisce, comunque, nel profilo religioso. È Fabio che, in virtù della sua conoscenza del greco, traduce ai Romani il responso oracolare.

È, dunque, grazie a lui, che Roma può decifrare la via della salvezza e della vittoria. La sua mediazione culturale costituisce un passaggio obbligato.

L’infausta memoria dei Fabi inviati quali legati a Chiusi e responsabili della violazione dello ius fetiale(101)sembra qui riequilibrata attraverso la figura di un Fabio il quale, mediatore fra Roma e l’oracolo delfico, ricorrendo alle sue risorse più tipiche — la pietas e la formazione culturale — sì adopera per consentire alla civitas il superamento della crisi in cui è precipitata.

Risulta, in tale contesto, molto sintomatico che l’oracolo delfico esorti i Romani ad astenersi dalla lascivia, ossia dalla superbia irreligiosa(102).

È un tema analogo a quello che compare in Liv. 22.9.7.40, allorché stigmatizza la « neglegentia caerimoniarurn auspiciorumque » del console C. Flaminio nonché la sua « temeritas atque inscitia »; sono quindi i Fabi che insegnano ai Romani a riscoprire il valore della pietas quale presupposto della salvezza militare e politica della Respublica.

L’accusa di lascivia suona inoltre polemica verso quei dirigenti politici e militari che hanno ostacolato l’unificazione cittadina perseguita — o almeno propagandata — dal gruppo del Cunctator(103)E, secondo la proposta di autorevoli studiosi, la traduzione del termine greco ὔßρις col latino lascivia potrebbe essere stata già presente in Fabio Pittore(104).

È difficile non vedere in tutto ciò un intento di autorappresentazione celebrativa dei Fabi: un intento che, da Fabio Pittore, si tramanda nelle testimonianze di fonti più tarde(105).

Questo scopo elogiativo si coordina con altri aspetti che emergono dalla lettura delle fonti. È Livio, infatti, a parlarci del doppio sacrificio umano, deciso dal Senato per fronteggiare l’ostilità annibalica. Un rituale eccezionale per la religio romana, del quale non può sfuggire la contestualità con la missione di Fabio Pittore. Già da altri è stato affrontato il problema del nesso che intercorre fra questi vari episodi(106).

Il sacrificio dei Galli ha un senso più facilmente intuibile in quanto essi sono nemici di Roma, con evidente riferimento all’incendio del 389/387(107), ma anche all’incendio gallico del tempio delfico del 279 a. C.(108).

Più difficile da decifrare è il sacrificio di un greco e una greca, per il quale il Momigliano ha proposto una lettura legata alla leggenda delle origini troiane dei Romani: i Greci, quali nemici dei troiani, sono anche nemici di Roma e, come tali, vengono sacrificati(109). E il D’Ippolito ha osservato, al riguardo: « Bisogna dedurne che l’Apollo delfico veniva consultato in quanto dio troiano, ostile ai Greci »(110). La missione delfica di Fabio Pittore si collegherebbe, così, al retaggio mitico sull’origine del popolo romano. Un retaggio già conosciuto in ambiente etrusco almeno sin dal V secolo — come sembra dimostrato dalle statuette fittili rinvenute in territorio veiente e raffiguranti Enea che porta sulle spalle il padre Anchise(111) — e, in ambiente latino nel IV secolo, come si evince dalla iscrizione al Lar Aeineia rinvenuta presso l’antica Lavinium(112). Esso è presente, come è noto, già nei Bellum Poenicum di Nevio(113) e negli Annales di Fabio Pittore, sia pure con alcune varianti(114).

Se questa ricostruzione è plausibile, viene da chiedersi cosa rappresenti, dunque, la tradizione sulla missione delfica se non una enfatizzazione della identità storico-mitica del popolo romano, colta nella sua specificità rispetto al mondo greco e, più in generale, rispetto ai popoli stranieri che connotavano l’orizzonte politico romano.

Roma, dopo la guerra con Pirro, la conquista dell’Italia meridionale e la prima guerra punica, si afferma come nuova potenza emergente nel bacino del Mediterraneo, si confronta con altri popoli, con altre culture ed avverte la necessità storica di assumere una più chiara consapevolezza della propria identità, anche allo scopo di poter meglio assimilare e rielaborare gli apporti culturali stranieri. Il recupero del patrimonio leggendario diviene, dunque, un’esigenza vitale per potersi orientare nelle scelte e nei rapporti anche in sede politica e religiosa.

Ciò ha, evidentemente, una precisa funzione di rafforzamento della coesione interna della civitas: ravvivare lo spirito patriottico, mediante un richiamo alle origini mitiche, contribuisce a fronteggiare il pericolo annibalico.

E la divulgazione, attraverso l’annalistica letteraria, di questa identità storico-mitica, ha anche una funzione propagandistica rispetto ai popoli di lingua e cultura greca dell’Italia meridionale, ai quali occorre proporre una rappresentazione accettabile di Roma, in un momento storico in cui opere, come quella di un Filino di Agrigento, introducono nel mondo siceliota e italiota una storiografia di orientamento filo-cartaginese(115).

Se si considera che questo tema mitico delle origini troiane del popolo romano è connesso col culto di Venus che compare puntualmente nella tradizione in rapporto a figure di spicco della gens Fabia, è possibile coordinare il profilo civico-patriottico con gli aspetti encomiastici rilevati nella tradizione sulla missione delfica di Fabio Pittore e scorgere come la narrazione sia animata da una intima e coerente logica.

La riabilitazione dei Fabi è indubbiamente un intento presente nella costruzione narrativa, ma esso sembra complementare a quello patriottico ed alla asserita preminenza del momento pubblico rispetto agli interessi privati.

I Fabi sembrano riscattarsi dalle infauste imprese loro attribuite, ma solo in quanto collocano la loro azione politica e militare in una logica di difesa dello Stato e trasformano la loro pietas in un contributo destinato a privilegiare il momento statuale rispetto ad istanze gentilizie divenute ormai secondarie.f-4

La ricerca storiografica(116) ha già ampiamente evidenziato i rapporti di alleanza che intercorsero, fra il IV e il III secolo, fra i Fabi ed alcune delle più potenti famiglie plebee, fra le quali gli Ogulnii(117)che ebbero un ruolo di primo piano nel processo di formazione della nuova nobilitas patrizio-plebea(118) e nell’accoglimento della leggenda di Romolo(119).

Il Toynbee ha acutamente osservato come sia stato proprio in virtù di queste alleanze, che i Fabi conservarono un ruolo di primo piano in un momento storico di transizione dell’assetto politico-sociale(120).

Alleandosi, di volta in volta, con questa o quella famiglia plebea, essi riuscirono a non farsi travolgere dal declino del monopolio patrizio delle magistrature e dei collegi sacerdotali(121).

Ragioni generali di quadro storico inducono quindi a ritenere che la nuova logica politica dei Fabi vada letta in una prospettiva più realistica. Essa privilegia un concreto equilibrio politico-sociale, fondato sulla lenta e graduale integrazione della plebe nell’assetto costituzionale dello Stato e, quindi, su una nuova classe dirigente — la nobilitas patrizio-plebea — della quale la conclamata preminenza della « res populica » rispetto a spinte centrifughe e privatistiche — costituisce l’espressione ideologica. E il monumento bronzeo della lupa e dei gemelli, eretto dagli Ogulnii è, forse, la rappresentazione simbolica di questo equilibrio tra i due ordini(122) e va quindi vista non solo come opera d’arte, ma come momento di lettura simbolica e mitica delle origini della città(123).

È all’interno di questo disegno politico di un nuovo assetto statuale e, in definitiva, di una reale unificazione cittadina, che si compie la riabilitazione della memoria storica dei Fabi.

La narrazione di Fabio Pittore su Fabio Massimo e sulla propria missione delfica è un significativo contributo per coniugare il momento civico-patriottico con quello encomiastico-gentilizio.

Il documento originale Note
1. G. FRANCIOSI, Storia di ‘ gentes’ e storia di famiglie. Una messa a punto storico-cronologica, in Ricerche sull’organizzazione gentilizia romana 2 (1988) 3 ss.; ID., Sepolcri e riti di sepoltura delle antiche ‘ gentes ‘, in Ricerche 1 (1984) 7 ss. E’ di rilievo fondamentale, in questi saggi, l’esame del rapporto tra il lento declino dell’organizzazione gentilizia e l’affermarsi, all’interno di essa, a partire dal III secolo, dei gruppi familiari che la trasformano dall’interno. Tale ricostruzione è tuttora oggetto di dibattito tra gli studiosi, alcuni dei quali sottolineano il rapporto che intercorre, ad esempio, fra Quintus, Kaeso Marcus Fabius — consoli consecutivamente tra il 485 e il 477 a. C. — che Livio indica come fratres. Risulterebbe, pertanto, difficile distinguere la storia di una famiglia da quella di una gens. Il problema merita, indubbiamente, un approfondimento che postula uno studio specifico. Credo, comunque, che l’ipotesi della ‘ storia di gentes’ sia una base importante per fare luce sui rapporti fra l’organizzazione gentilizia e l’evoluzione dell’ordinamento della Repubblica. Per le fonti sui Fabi, consoli dal 485 al 477, v. Liv. 2.41.12; 42.2; 42.7; 43.11. Per Ia letteratura sul tema, v. infra, ntt. 27 e 28.
2. Sui collegi religiosi pubblici v, D. SABBATUCCI, Religione romana, in Storia delle religioni (1960) 23 ss., 42 ss.; A. PASTORINO,  La religione romana (1973) 86 ss.; G. DUMÉZIL, La religione romana arcaica (tr. 1977) 473 ss., 492 ss.; S. MAZZARINO, Il pensiero storico classico  2 (1983) 255 s.; ID., Dalla monarchia allo stato repubblicano (1992) 55 ss. Per il collegio degli auguri v., in particolare, P. CATALANO, Contributi allo studio del diritto augurale 1 (1960) passim. Sul monopolio gentilizio dei collegi pubblici v. F. DE MARTINO, Storia della costituzione romana 12 (1972) 143; V. ARANGIO – RUIZ, Storia del diritto romano (rist. 1983) 49 ss.; G. FRANCIOSI, Storia di ‘ gentes ‘ e storia di famiglie  5 ss.
3. Sul rapporto tra questi collegi — in particolare il pontificato — e la direzione della vita politica della civitas, v. F. DE MARTINO, Storia della costituzione romana12.135 ss.; S. MAZZARINO, Il pensiero storico classico 2.225.
4. D. SABBATUCCI, Lo Stato come conquista culturale (1975) 94 ss.
5. L’influenza dei pontefici sulla formazione del pensiero storico romano è approfondita da D. SABBATUCCI, Lo Stato 98 ss., nonché da E. MONTANARI, Mito e storia nell’annalistica romana delle origini (1990) 63 ss. Da rilevare che Cicerone assumeva gli Annales Maximi pontificali quale sola documentazione attendibile per la storia di Roma arcaica. Due notizie egualmente leggendarie, quella dell’augure Atto Navio in Cic. de div. 1.17.33. e quella del pitagorismo di Numa Pompilio in Cic. de rep. 2.15.28-29, vengono la prima ammessa e la seconda respinta sulla base, rispettivamente, della loro inclusione ed esclusione negli Annales Maximi, che Cicerone menziona espressamente nel passo citato del de republica. Sulla concezione romana della storia e í suoi rapporti col retaggio culturale etrusco v. M. SORDI, Il mito troiano e l’eredità etrusca di Roma (1989)  9 ss., 77 ss.
6. E. MONTANARI, Mito e storia 47 ss.
7. A. ALFÖLDI, Early Rome and the Latins (1965) 123 ss.; S. MAZZARINO, Il pensiero storico classico 2.245 ss.; A. MOMIGLIANO, Linee per una nuova valutazione di Fabio Pittore, in Storia e storiografia antica (1987) 275 ss.
8. Sull’annalistica letteraria v. J. HEURGON, L’interprétation historique de l’historiographie latine de la République, in BAGB. 2 (1971) 219 ss.; E. RAWSON, The First Latin Annalist, in Latomus 35 (1976) 689 ss.; J. POUCET,  Les orígines de Rome. Tradition et histoire (1985) 231 ss.; E. MONTANARI, Mito e storia 14 ss., 38 ss.
9. S. MAZZARINO, Il pensiero storico classico 2.246 ss.; A. MOMIGLIANO, Linee per una valutazione 280 ss.; E. MONTANARI, Mito e storia 52 ss.
10. S. MAZZARINO, Il pensiero storico classico 2,245; A. MOMIGLIANO; Linee per una valutazione  275 ss.;  E. MONTANARI, Mito e storia 45 ss. I frammenti di Fabio Pittore sono raccolti e ordinati da H. PETER, Historicorum Romanorum Reliquiae2 1 (1967) 5 ss, da confrontare con F. VON JACOBY, Die Fragmente der Griechischen Historischer 3 C (1958) 809 s. Nettamente diverse sono le posizioni di Peter e Jacoby sul problema del “ doppio Fabio ”, in relazione alla paternità di una redazione in latino degli Annales di Fabio Pittore. Credo che sul tema l’interpretazione più accettabile sia quella del Momigliano, Linee per una valutazione 277, il quale evidenzia giustamente come “ nessun antico sembri preoccuparsi dell’esistenza di due opere annalistiche, l’una in greco, l’altra in latino, sotto il nome di Fabio Pittore ”. La tesi dei due Fabi è difesa da F. MÙNZER, sv. Fabius Pictor, ín PW. 6 (1909) 1843. SuI tema v. A. MOMIGLIANO, Linee per una valutazione 277 nt. 4 e lett. ivi. Sui rapporti di Fabio Pittore con la storiografia greca v. F. D’IPPOLITO, Sulla giurisprudenza medio-repubblicana (1988) 39 ss., 62 ss. e lett. ivi.
11. A. MOMIGLIANO, Linee per una valutazione  275 ss.
12. A. Alföldi, Early Rame 123 ss. Sulla teoria “ panfabiana ” di Alföldi v. i rilievi critici di D. Musti,  Tendenze della storiografia romana e greca su Roma arcaica, in QUCC. 10 (1970) 21 ss.
13. E. MONTANARI, Mito e storia 46, che riprende e sviluppa l’orientamento del SABBATUCCI, Lo Stato 61 ss., 83 ss., sulla funzione dell’annalistica pontificale.
14. E. MONTANARI, Mito e storia 47 ss. Cfr. R. M. OGILVIE,  A Commentary on Livy Books, 1-5 (1970) 415 ss,, il quale, ad esempio, considera attendibile la notazione del terremoto del 461 a. C. (Liv. 3.10.6), sulla base di riscontri nelle fonti greche. Sul superamento delle posizioni ipercritiche v. S. MAZZARINO, Dalla monarchia allo Stato repubblicano 167 ss.
15. S. MAZZARINO, Il pensiero storico classico 2.245. “ Si può e si deve dire — scrive il Mazzarino — che la storiografia letteraria comincia con Fabio Pittore, ma non si può dire che il pensiero storico pre-letterario dei Romani cominciasse senz’altro al tempo di Gneo Flavio e degli Ogulnii”. Più oltre (p.250) l’a. sostiene che invenzioni come il dies Cremerensis non sono riconducibili a tradizioni familiari ma alla tabula dei pontefici e agli annali pontificali.
16. Sui. Ludi Magni v. S. MAZZARINO, Il pensiero storico classico 2.71 ss. Sul dies Cremerensis v. ID., Il pensiero storico classico 2.247 ss.; R. M. OGILVIE, Le origini di Roma (tr. 1984) 118 ss.
17. S. MAZZARINO, Il pensiero storico classico 2.247 ss. Per le fonti in Dio-doro, v. F. CASSOLA, Diodoro e la storia romana, in ANRW. 2.1 (1982) 725 ss.
18. Sulla testimonianza di Diod. 11.53.6 v. F. CASSOLA, Diodoro 750 ss., il quale sostiene che la fonte di Diodoro è male informata sulla tradizione fabia e concorda quindi col Mazzarino sul carattere non fabiano della fonte medesima.
19.

Cfr. E. MONTANARI, Nomen Fabium (1973), ora in Roma. Momenti di una presa di coscienza culturale (1976) 99 ss., 123 ss., 164 ss.; ID., Mito e storia 23 s. Sul valore “ fondante ” del mito, ossia la sua attitudine a istituire “exernpla” v. M. ELIADE, Le mythe de l’éternel rétour. Archétypes et répétítion (1949) passim; ID., Trattato di storia delle religioni (tr. 1977) 156 ss., 164 ss.; R. PETTAZZONI, Verità del mito, in SMSR. 21 (1947-48) 104 ss.

20. Per la tradizione sulla clades Cremerensis v. Liv. 2.50.1-11; Dion. 9.15-22; Diod. 11,53.6; Ovid. fasti 2.193-242.
21. Riprendo, a questo punto dell’analisi, il problema già posto dal MONTANARI, in Mito e storia 20 ss. e già affrontato dall’a, in Identità culturale e conflitti religiosi nella Roma repubblicana (1988) 60 nt. 140. Cfr. l’introduzione di D. SABBATUCCI a E. MONTANARI, Nomen Fabium 11 ss,
22. G. DUMÈZIL, Mythe et épopée 3 (1973) 301.
23. Un esempio illuminante di interazione fra livello mitico e livello storico è dato dalla vicenda di Orazio Coclite su cui ci informa Lív. 2.10.2-10. A. BRELICH [Tre variazioni romane sul tema delle origini (1976) 46 ss.] ha dimostrato come il tipo Cocles si sia enucleato nel quadro di un modello mitico comune alla κοινή greco-etrusco-italica. Esso corrisponde all’italico caeculus, all’etrusco Cacus, al greco κύκλοψ, per una serie di analogie morfologiche. Il Brelich ha dimostrato che questo tema mitico poté riattualizzarsi nella storia di Roma, nella figura di L. Cecilio Metello che, secondo la tradizione, perse la vista nell’incendio del tempio di Vesta nel 241 a. C., allorché stava tentando di salvare il Palladium (Cic. pro Scaur. 48). L’episodio è chiaramente leggendario, ma non è affatto leggendario il ruolo sacerdotale di questo personaggio che ascese al pontificato massimo. Il Sabbatucci (Lo Stato 45 ss.) ha visto in tale leggenda non un mero intento encomiastico in favore della famiglia dei Caecilii, ma un tentativo di legittimazione del pontificato massimo plebeo. V. anche E. MONTANARI, Coclite, in Enciclopedia Virgiliana 1 (1984) 830 s.; ID., Ceculo, ibidem 719 s.
24. Sulle presenze gentilizie nella storia protorepubblicana v. G. FRANCIOSI, Preesistenza della gens  e ‘nomen gentiliciuin’ 17 ss.; ID. , Storia di ‘ gentes’ e storia di famiglie 3 ss. J. HEURGON, L’interprétation historíque 224 ss.; E. MONTANARI, Mito e storia 23.
25. G. FRANCIOSI, Clan gentilizio e strutture monogamiche. Contributo alla storia della famiglia romana’ (1989) 239 ss.; In., Preesistenza della `gens’ e ‘nomen gentilicium’ 8 SS.
26. TLE. 65; 471. V. sul terna G. FRANCIOSI, Preesistenza della gens  e ‘nomen gentilicium’  6 nt. 11; A. RUGGIERO, Mito e realtà nella vicenda storica della « gens Fabia », in Ricerche 1.259 ss. e, in particolare 263 s.
27. Liv. 2.41.12; 42.2.43.11. Cfr. E. MONTANARI, Nomen Fabium 85 ss.; In., Mito e storia 22
28. E. GABBA, Considerazioni sulla tradizione letteraria sulle origini della repubblica, in  Les origines de la République romaine (1966) 140 nt. 4; D. Musn, Tendenze 21 s., il quale restituisce maggiore rilevanza alle tradizioni storiografiche sia anteriori che successive a Fabio Pittore.
29. E. MONTANARI, Mito e storia 23.
30. C. AMPOLO, La città riformata e l’organizzazione centuriata. Lo spazio, il tempo, il sacro nella nuova realtà urbana, in Storia di Roma 1 (1988) 204 s. Come esempio della metodologia proposta  l’Ampolo si sofferma sull’affresco della tomba François di Vulci, le cui scene racchiudono — pur nella cornice leggendaria della simmetria figurativa fra episodi e personaggi della guerra di Troia ed episodi di combattimenti fra città etrusche e laziali — elementi di storicità, identificati attraverso il confronto con le risultanze epigrafiche e le fonti letterarie. Su ciò v. anche J. HEURGON, Le coupe d’Aulus Vibenna, in Mél. J. Carcopino (1966) 515 ss.; C. AMPOLO, Gli Aquilii del V secolo e il problema dei Fasti consolari più antichi, in PP. 30 (1975) 410 ss.; M. PALLOTTINO, Il fregio di Vibenna e le sue implicazioni storiche, in La tomba François di Vulci (1987) 226 ss.; L. MINIERI, Un caso di diaspora gentilizia: gli Aquili tra Vulci e Roma, in Ricerche 1.198 ss.
31.

Cic. de div. 1.43; Dion. 1.6.2, Di una versione latina degli Annales di Fabio Pittore riferiscono Cic. de leg. 1.6 e Geli. 5.4.3. Sul rilievo culturale della scelta di Fabio Pittore di scrivere i suoi Annales in greco v. A. MOMIGLIANO, Linee per una valutazione  276 ss. Sul problema del “ doppio Fabio ” v. retro, nt. 10.

32. V., al riguardo, le analisi di A. J. TOYNBEE, L’eredità di Annibale 2 (tr. 1983) 239 ss. Cfr. E. MONTANARI, Nomen Fabium 199 ss., per le implicazioni di ordine più strettamente storico-religioso. Per le conseguenze della minaccia annibalica sulla psicologia collettiva dei Romani e i loro orientamenti religiosi (con particolare riguardo al culto bacchico) v. G. FRANCIOSI, Clan gentilizio 24 ss. Il Momigliano (Linee per una valutazione  276) osserva che Fabio Pittore cerca di dare un ordine e un senso alla tradizione dí Roma, in un momento storico in cui Roma è in pericolo. Sotto tale aspetto, si può sostenere la complementarietà fra il ruolo letterario di Fabio Pittore e quello politico-militare del Cunctator: entrambi si pongono il compito di restituire ordine ad una civitas che vive una profonda crisi, ma è un ordine rinnovato nei suoi contenuti.
33. Cfr. E. MONTANARI, Mito e storia 52. Per la conoscenza della cultura greca da parte di Fabio Pittore v. A. MOMIGLIANO, Linee per una valutazione 276.
34. Fr. 16 Peter (= Dion. 7.71.1).
35. V. E. LA ROCCA, Fabio o Fannio. L’affresco medio-repubblicano dell’Esquilino come riflesso dell’arte “rappresentativa” e come espressione di mobilità sociale, in DArch. 2.1 (1984) 31 ss.
36. Sul rapporto dialettico fra la cultura romana e quella greca in Fabio Pittore v. S. MAZZARINO, Il pensiero storico classico 2.71 ss.; A. MOMIGLIANO, Linee per una valutazione 276; E. MONTANARI, Mito e storia 54 ss., il quale ridimensiona il valore dell’uso della lingua greca in Fabio Pittore, osservando che Dionigi non mostra un particolare interesse per questa prima letteratura annalistica in lingua greca. Tale posizione è solo parzialmente accoglibile; se è vero che Dionigi non considera attendibile Fabio Pittore quanto a precisione cronologica e a veridicità dei fatti narrati, tuttavia lo considera autorevole come fonte per le cerimonie religiose.
37. Sui carmina convivalia v. A. ROSTAGNI, Storia della letteratura latina 1 (1964) 45 ss. e bibl. ivi.
38. V. S. MAZZARINO, Il pensiero storico classico 2,104, 262.
39. A. MOMIGLIANO, Linee per una valutazione 287;

A. ROSTAGNI, Storia della letteratura latina 1.115 (sul rapporto con la tradizione dei carmina convivalia), 120 (sul mito troiano).

40. Cfr. E. GABBA, Considerazioni 153; E. MONTANARI, Mito e storia 48 ss.
41. E. GABBA, Considerazioni 150 ss.; E. MONTANARI, Mito e storia 48 ss. Cfr. E. PAIS, Storia di Roma3 1 (1923) 288.
42. Secondo il MONTANARI, Mito e storia 68 ss.; il fr. 4 Peter (=Gell. 4.5) non è una mera notazione cronachistica ma esprime una elaborazione molto articolata dei dati da parte deí pontefici. Su ciò v. B. W. FRIER, Libri annales pontificum maximorun, the origins of the annalistic tradition (1979) 56 ss. Tale frammento, unitamente alla mole degli Annales Maximi (80 libri) nella loro redazione definitiva, lascia ragionevolmente ipotizzare che essi riportassero per esteso il materiale degli archivi pontificali: verbali delle sedute, atti del collegio, istruzioni sui rituali, registrazioni calendariali, nonché, forse, le varie versioni di uno stesso evento. Su ciò v. E. GABBA, Considerazioni 53 ss,
43. E. GABBA, Considerazioni 151 s.
44. E. MONTANARI, Mito e storia 50 ss.
45. Sul rapporto tra Fabio Pittore e Diocle di Pepareto v. A. MOMIGLIANO, Linee per una valutazione 282, ove modifica in senso positivo su Diocle la precedente posizione espressa in JRS. 33 (1943) 102, ora in Secondo contributo alla storia degli studi classici (1960) 403. Sul tema v. anche S. MAZZARINO, Il pensiero storico classico 2.65; E. GABBA, Considerazioni 140 s. e bibl, ivi. Su Timeo di Tauromenio v. A. MOMIGLIANO, Atene nel III secolo a.C. e la scoperta di Roma nelle storie di Timeo di Tauromenio, in Storia e storiografia antica 97 ss.; E. GABBA, Considerazioni 86 ss,; K. MEISTER, La storiografia greca (tr. 1992) 169 ss.
46. E. GABBA, Considerazioni 154 s.
47. E. MONTANARI, Mito e storia 68 ss
48. Fest. sv. Ordo sacerdotum (L. 299); cfr. al riguardo le osservazioni del MAZZARINO, Dalla monarchia allo stato repubblicano 57 ss.
49. Sul rex sacrorum v. P. DE FRANCISCI, Primordia civitatis (1957) 492 ss.; G. DUMÉZIL, La religione romana arcaica 32, 108 ss.; S. MAZZARINO, Il pensiero storico classico 256; ID., Dalla monarchia allo stato repubblicano 57 ss.; D. SABBATUCCI, La religione di Roma antica 15 ss. Per il profilo mitologico della regalità romana arcaica v. A. BRELICH, Tre variazioni romane 102 ss.
50. Sulla triade capitolina v. G. DUMÉZIL, La religione romana arcaica 255 ss. e bibl. ivi. Sulla triade arcaica v. ID., Juppiter-Mars-Quirinus 1 (tr. 1955) 46 ss.; ID., La religione romana arcaica 137 ss. e bibl. ivi.
51. Secondo C. GIOFFREDI, Rex, praetores e pontifices nella evoluzione dal regno al regime consolare, in BCAR. 71 (1943-45) 129 ss., i pontefici durante il regnum non sarebbero stati dei sacerdoti ma solo dei consiglieri del rex. Essi sarebbero divenuti sacerdoti solo dopo la riduzione del rex all’ambito sacrale. Contra G. DUMÉZIL, La religione romana arcaica 109 ss. Sulla evoluzione del sacerdozio romano v. S. MAZZARINO, Dalla monarchia allo stato repubblicano 55 ss., che sottolinea il carattere arcaico del sacerdozio del rex mentre la preminenza dei pontefici nel campo delle funzioni sacerdotali è strettamente legata alle trasformazioni politico-costituzionali della Respublica.
52. S. MAZZARINO, Il pensiero storico classico 2.244 ss. L’a. osserva che i fasti — esposti sulla tabula dealbata — sono calendario ma implicano anche una cronologia e la loro pubblicazione postula un rinnovamento del pensiero storico nel senso della sua divulgazione e della sua laicizzazione. Tale processo non significa, però, che “ Roma crei un pensiero storico dal nulla”.
53. V., al riguardo, le osservazioni di F. D’IPPOLITO, I giuristi e la città (1978) 47 ss.
54. Liv. 9.46.6; Plin. n.h. 33.1 (6) 19. V.J. CAGE’ ‘Hersilia’ et les ‘Hostilii’ in AC. 38 (1959) 255 ss.; E. MONTANARI, Il mito degli Orazi e Curiazi (1972), ora in Roma Momenti di una presa di coscienza culturale 63. Già nel 367 a.C. un tempio alla dea Concordia era stato votato dal console Camillo ed è significativa la concomitanza di tale scelta religiosa con le riforme costituzionali di quell’anno. Per le fonti: Plut. Cam. 42; Ovid. fasti 1.639 ss. Cfr. A. MOMIGLIANO, Camillus and the Concorde, in CQ. 36 (1942) 11 ss.; E. MONTANARI, Mito e storia 40, 87 ss.
55. F. D’IPPOLITO, Gli Ogulnii e il serpente di Esculapio, in Ricerche 2.157 ss.
56. TH. MOMMSEN, Die Remuslegende, in Gesammelte Schriften 4 (1906, rist. 1965) 1 ss.
57. G. FRANCIOSI, Preesistenza della ‘gens’ e ‘nomen gentilicium’ 8 ss.
58. D. SABBATUCCI, Lo Stato 56 ss.; E. MONTANARI, Identità culturale 51 ss.; In., Mito e storia 42.
59. E. MONTANARI, Nomen Fabium 84 ss.
60. E. MONTANARI, Nomen Fabium 257 ss.; In., Mito e storia 82 ss. Sulla funzione culturale della deformazione della storia v. D. SABBATUCCI, Lo Stato 23 ss., 41 ss.; E. MONTANARI, Identità culturale 60, ove l’a., tra l’altro, scrive: “ Quand’anche nuove scoperte archeologiche modificassero in toto l’immagine delle origini propostaci dalla elaborazione annalistica, le suddette tecniche potrebbero aiutarci a capire perché i pontefici e, dopo di loro, gli annalisti e gli storiografi, avvertissero l’esigenza di alterare, senza sostanziali discordanze, la memoria di quelle origini ”. Le tecniche cui l’A. si riferisce sono quelle di decifrazione delle fonti in chiave antropologica. V. anche ID., Mito e storia 20 ss.
61. Sul dies Alliensis v. Liv. 5.38.1-10. La legazione Fabiana a Chiusi è in Liv. 5.35.5. La narrazione dell’incendio gallico è in Liv. 5.42.8-10. Che siano proprio i Fabi ad essere inviati in legazione a Chiusi non è certo casuale, tenuto conto delle loro origini e delle loro clientele chiusine. Al riguardo v. TLE. 65; 471; CIL. 11.2202a; 2208. Cfr. S. MAZZARINO, Il pensiero storico classico 2.247; E. MONTANARI, Nomen Fabium 113, 149 ss.; A. RUGGIERO, Mito e realtà 262 ss. C. AMPOLO, La nascita della città, in Storia di Roma 172 ss. Sulla tradizione dell’incendio gallico va notato che Polyb. 2.18.1 ss.; 22.45, riferisce di una guerra tra Galli e “ Romani e i loro alleati ” e del successivo sacco di Roma, senza menzionare il ruolo dei Fabi. Non può, però, sfuggire il carattere alquanto sommario della narrazione, che si comprende ove la si inserisca nel contesto che le è proprio, ossia i primi due libri delle storie di Polibio che hanno una impostazione deliberatamente introduttiva e riepilogativa di tutta la storia romana anteriore alla 2^ guerra punica, come si evince da Polyb. 1.3.1; 3.10; 13.1; 14.1. Lo storico greco si limita a riassumere le linee essenziali della storia romana fino al III sec. a. C., poiché il suo obiettivo prioritario è quello di narrare in modo approfondito le vicende che si collocano fra il 216 a. C. e il periodo di cui è contemporaneo. Ciò è tanto più plausibile, ove si consideri che, per Polibio, Fabio Pittore non è attendibile, essendo “ in una situazione simile a quella degli innamorati ” (Polyb. 1.14.2).
62. L’iniziativa militare di Q. Fabio Rulliano è in Liv, 8.30.1-13. 11 ruolo di questo personaggio è simmetrico - con inversione di caratteristiche -  a quello del Cunctator, tanto da lasciar ipotizzare una precisa costruzione narrativa di modelli tipici. Sul tema v. E. MONTANARI, Mito e storia 23, 24 nt. 51, 83.
63. Plut. Cam. 22.4; Liv. 5.40.9-10. Cfr. M. SORDI, I rapporti romano-ceriti e l’origine della civitas sine suffragio (1960) 49 ss., che identifica il Lucio del fr. 568 Rose di Aristotele con il L. Albinus della tradizione romana; J. GAGE', Le chariot d’Albinius et le transfert des sacra au temps de l’invasion gauloise à Rome, in Homm. J. Bayet (1964) 214 ss.; S. MAZZARINO, Il pensiero storico classico2.251.
64. Cfr. D. SABBATUCCI, Lo Stato 101 ss.; 171 ss.
65. E. MONTANARI, Mito e storia 51 ss.
66. D. SABBATUCCI, Lo Stato 171 ss.
67. G. FRANCIOSI, Clan gentilizio 24 ss. e bibl. ivi.
68. Liv. 22.12.6-11; Plut. Fab. Max. 5.2. Per l’etimologia V. A.WALDE – J. B. HOFFMANN, Lateinisches etymologisches Wörterbuch (1954) sv. Cunctor; A. ERNOUT – A. MEILLET, Dictionnaire étymologique de la langue latine, sv. Cunctor. Cfr. E. MONTANARI, Nomen Fabium  218 s.
69. Liv. 22.12.6; Plut. Fab. Max. 5.3.
70. Liv. 24.8.1-20; Plut. Fab. Max. 4.5. Su questi passi cfr. E. MONTANARI, Nomen Fabium 191 ss.
71. Liv, 22,9.7-10; Fest.-Paul. sv. Ver sacrum (L. 519). Per un’analisi del rituale v. G. FRANCIOSI, Clan gentilizio 117 ss.
72. Sulla “fides punica” Liv. 30.30.27. Sulla “ fraus punica” Liv, 22.48.2, 26.17.15, 27.33.10, 30.22.6.
73. Liv. 1.53.4.
74. Polyb. 1.14.1 aveva rilevato l’atteggiamento filo-romano di Fabio Pittore e ne aveva preso le distanze. Sul ruolo di Fabio Pittore durante la II guerra punica v. E. MONTANARI, Mito e storia 50 ss.; F. D’IPPOLITO, Sulla giurisprudenza 33 ss.
75. Liv 22.9.7-10; 22.10.9.
76. Diod. 4.83.1; Polyb. 1.55.7-9; Strabo 6.272; Cic. pro Q. Caecil. 17.55. Cfr. R. SCHILLING, La réligion romaine de Vénus (1953) 234 ss.; S. MOSCATI, I Fenici e Cartagine (1972) 538 ss.; E. MONTANARI, Nomen Fabium 210 ss.; D. ROUSSEL, Les Siciliens entre les Romains et les Carthaginois à l’époque de la première guerre punique (1970) passim.
77. Liv. 21.41.6 ss.; Polyb. 1.58.2; Diod. 24.1.10; Zonar. 8.16. cfr. G. DE SANCTIS, Storia dei Romant2 3 (1907) 173 ss.
78. E. MONTANARI,  Nomen Fabium 21 ss.
79. Verg. Aen. 5.759 ss.; Serv. ad Aen. 1.720: … est (Venus) et Erycina, quam Aeneas secum advexit. V. al riguardo, M. Sordi, Il mito troiano 17 ss.
80. In CIL. 10.7257 — risalente al 20 d.C. — I’Apronius Cassianus rende grazie alla dea per una vittoria riportata sui Numidi. Sulle monete impresse dai Considii nel 60 e nel 40 a. C., la dea del monte Erice è coronata di alloro e di un diadema; nel verso è rappresentata la dea Vittoria con la quadriga. Su tale iconografia v. G. K. GALINSKY, Aeneas, Sicily and Rome (1969) 186 ss.
81. Cic. de off. 3.29; Cfr. E. MONTANARI, Nomen Fabiunz 215.
82. G. DUMÈZIL, La religione romana arcaica 172 ss.; 496 ss.
83. G. WISSOWA, Religion und Kultus der Römer2 (1912) 62; 314.
84. F. ALTHEIM, Römische Religionsgeschichte 1 (1931) 92.
85. A. WALDE – J. B. HOFFMANN, Lateinisches etymologisches Wörterbuch, sv. mens; A. ERNOUT – A. MEILLET, Dictionnaire, sv. mens.
86. E. MONTANARI, Nomen Fabium 221 ss.; 253.
87. E. MONTANARI, Nomen Fabium 223 ss. Cfr. J. BAYET, La religione romana (tr. 1992) passim.
88. Sul culto di Juppiter Stator v. G. DUMÈZIL, La religione romana arcaica 55, 174; D. SABBATUCCI, La religione di Roma antica 30 ss., 134.
89. V. E. MONTANARI, Nomen Fabium 214 s.
90. CIL. 3.78 (iscrizione votiva rinvenuta in Dacia ad Ulpia Traiana). La ricorrenza calendariale di Mens (8 giugno) è immediatamente successiva a quella di Dius Fidius, il 5 giugno. AI riguardo v. G. VACCAI, Le feste di Roma antica (rist. 1986) 62; D. SABBATUCCI, La religione di Roma antica 196 ss, Su Dius Fidius v. G. DUMÈZIL, La religione romana arcaica 184.
91. Cic. de off. 3.29. Cfr. le osservazioni del MONTANARI in Nomen Fabium 216 ss.
92. L’aspetto propagandistico, pur riconosciuto, è considerato secondario da A. MOMIGLIANO, Linee per una valutazione 284, mentre è più accentuato da E. GABBA, Considerazioni 164 ss. e da E. MONTANARI, Mito e storia 54. Per F. D’IPPOLITO, Sulla giurisprudenza 40, l’elemento propagandistico è solo consequenziale rispetto all’inserimento del mito nella storiografia romana.
93. Sul profilo della psicologia collettiva dopo la seconda guerra punica - e i suoi rapporti coi “ culti di evasione ” -  v. G. FRANCIOSI, Clan gentilizio 24 ss. Credo, comunque, che il fenomeno del culto bacchico rispondesse a spinte diverse da quelle che indussero alla consultazione dell’oracolo delfico. In questo caso, infatti, la nobilitas senatoria opta per un culto più congeniale alla religione ufficiale e al mos maiorum. V. al riguardo G. DUMÈZIL, La religione romana arcaica 383 ss.; 413 ss.; F. D’IPPOLITO, Sulla giurisprudenza 41; 47 ss. Per un inquadramento storico generale della situazione di Roma, durante e dopo la seconda guerra punica, v. A. J. TOYNBEE, L’eredità di Annibale 1. 367 ss.; 2. 126 ss., 458 ss.
94. Per i sacra peregrina v. F. D’IPPOLITO, Sulla giurisprudenza 52 e bibl. ivi,
95. F. D’IPPOLITO, Sulla giurisprudenza 41 ss. Cfr. G. DUMÈZIL, La religione romana arcaica 383 ss., 413 ss.
96. Sul ver sacrum v. Fest, sv. Mamertíni (L. 150); sv. Ver sacrum (L. 519). V. al riguardo G. FRANCIOSI, Clan gentilizio 138 ss. e bibl. ivi.
97. Liv. 23.11.1-6; Plut. Fab. Max. 18.3; Appian. Hann. 27.
98. A. MOMIGLIANO, Linee per una valutazione 276 ss.; F. D’IPPOLITO, Sulla giurisprudenza 37, 43.
99. V. retro, n. 4 e, in particolare, la testimonianza di Liv. 22.9.7-10.
100. Cfr. E. MONTANARI, Nomen Fabium 164 ss.
101. Liv. 2.50.11, 59.1-2, 5.46, 5.52.3. Cfr. E. MONTANARI, Nomen Fabium 99 ss., 123 ss., 152,
102. Liv. 23.11.1-6. Cfr. S. MAZZARINO, Il pensiero storico classico 2.215 ss.
103. Cfr. S. MAZZARINO, Il pensiero storico classico 2.246 ss.
104. Cfr. A. LA PENNA, Aspetti del pensiero storico latino (1978) 51; F. D’IPPOLITO,Sulla giurisprudenza 36.
105. F. D’IPPOLITO, o. u. c. 36.
106. F. D’IPPOLITO, Sulla giurisprudenza 33 ss.
107. F. D’IPPOLITO, o. o. c. 42 ss. ove l’a. riprende le considerazioni di A. MOMIGLIANO, Linee per una valutazione 277 s.
108. Liv. 5.36.5.
109. A. MOMIGLIANO, Linee per una valutazione 277.
110. F. D’IPPOLITO, Sulla giurisprudenza 42 s.
111. Sulle statuette fittili di Veio v. A. ROSTAGNI, Storia della letteratura latina 1. 20, 26 e lett. ivi.
112. Sulla iscrizione di Lavinium v. A. ROSTAGNI, Storia della letteratura latina 1. 20 ss. e lett. ivi.
113. A. ROSTAGNI, Storia della letteratura latina 1. 127 e lett. ivi.
114. Cfr. E. GABBA, Considerazioni 142; A. MOMIGLIANO, Linee per una valutazione 282, il quale pone l’accento sull’influenza esercitata da Timeo di Tauromenio non solo sui primi annalisti ma anche su autori più tardi, quali  Varrone e Cicerone. Decisiva la testimonianza di Plut, Rom. 3, sull’accoglimento da parte di Fabio Pittore della versione narrata da Diocle di Pepareto.
115. Sulla portata della narrazione storica di Filino di Agrigento e il suo rapporto dialettico con la prima annalistica romana v. E. GABBA, Considerazioni 142 ss.; F. CASSOLA, I gruppi politici romani nel III secolo a. C. (1962) 356 ss,
116. F. CASSOLA, I gruppi politici 210 ss.; A. J. TOYNBEE, L’eredità di Annibale 1. 166 ss., 396, 417 ss
117. Sulla famiglia degli Ogulnii v. F. D’IPPOLITO, Gli Ogulnii e il serpente di Esculapio 17 ss.
118. F. D’IPPOLITO, Gli Ogulnii e il serpente di Esculapio 158 ss.
119. F. D’IPPOLITO, Gli Ogulnii e il serpente di Esculapio 159.
120. A. J. TOYNBEE, L’eredità di Annibale 1.166 s., 396.
121. A. J. TOYNBEE, L’eredità à Annibale 1.417 ss.
122. TH. MOMMSEN, Die Remuslegende 1 ss.
123. FR. MÚNZER, Römiscbe Adelsparteien und Adelsfamilien (rist. 1963) 87.
    Stefano Arcella, I FABI E LA TRADIZIONE ANNALISITICA, in Ricerche sulla organizzazione gentilizia romana (a cura di Gennaro Franciosi),III, Jovene, Napoli, 1995.

Misteri antichi e pensiero vivente. Il video di Stefano Arcella

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Benzi, Arcella e Laganà

Presentazione libro 'Misteri antichi e Pensiero vivente' autore Stefano Arcella

Milano, 25 novembre 2016 presso la sede dell'ANVG

Misteri antichi e pensiero vivente. Il video di Daniele Laganà

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20161125_190310

Presentazione libro ‘Misteri antichi e Pensiero vivente’ autore Stefano Arcella

Milano, 25 novembre 2016 presso la sede dell’ANVG

 

Sul concetto in sé, su quello di Tradizione, di Micro e Macrocosmo di Manuele Migoni

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Immacolata Concezione

“Per se stessi, ai futuri padrini per i nuovi nascituri, per le nuove leve politiche che verranno, e nel giorno dell’Immacolata Concezione, un auspicio, un augurio, una benedizione”

La natura del Cristo:* Come un'anima illuminataImmacolata Concezione ancor prima di farsi carne, come acqua rigeneratrice e fuoco spirituale, non sarà poi un problema, Essere, sentire, passare, per quel che non si è; Avere, sentire, passare, per quel che non si ha; Fare, sentire, passare, per quel che non si è fatto. (non tanto sistema: solo alcune personalità soffrono ulteriormente il ritorno nell'indistinto, nella materia: nel verbo, l'umanità nasce e muore con loro.) *Khrisna, Osiride, Ermete, Orfeo, Pitagora, Gesù Sul concetto in sé, su quello di Tradizione, di Micro e Macrocosmo.

Il concetto, la condizione di Iniziato, non è necessaria preclusione delle attuali società ad esso rifacentisi, le quali, in maggioranza, ne tradiscono l'essenza, la forma, in uno spurio crogiuolo cerimonialistico, tipicamente monoteistico, o sincretistico unicamente per complicità economiche e di potere.

Un monoteismo cerimonialistico di tipo Sadduceo o Fariseo, pregno vieppiù di quegli elementi contingenti riguardanti la Romanità, che videro poi una loro prosecuzione in alcune fasce (anche qui in maggioranza) del Vaticano e/o del clero cattolico. Dal concetto di Microcosmo, unico spiraglio da cui possa realmente pensarsi una certa salvezza, attualmente questi contro-iniziati, cercheranno di cavalcare il vero cambiamento, la vera novità (Brexit, Trump, successo del No, ne sono un segnale) laddove non può parlarsi più di Europeismo, ma di Globalismo.

Consensuale sdrammatizzazione (per quanto un rito, nei suoi effetti, e comunque sia, potrebbe esser destinato a dissolversi in breve) apertura, superamento, ne sono il vero Progresso, oltre le ideologie (spesso succubi di stereotipi assolutistici), e cioè: volenti o nolenti, proprio mentre, in forma indefinita, un non meglio precisabile Belzebù - o comunque lo si identifichi - riesce a essere il proprio ospite, in virtù di ciò, vi sarà il ritorno al concetto di anima divina; è chiaro che poi, in tutto ciò, corrispondente quindi a una legge del destino, per altre forme sistemiche comparate (o Macrocosmiche) dovranno esserci dei limiti: il rischio è sempre il concetto, mi si passi il termine guenoniano, di Regno delle quantità, quindi un rischio di invasione, di scardinamento, finanche istituzionale; parla bene o correttamente (o il cosiddetto politicamente corretto) chi può permetterselo, per altri, anche volendo, subentrano problemi di tipo economico, strutturale (soprattutto dovuti all'indirizzo ideale (?) fornito dai contro-iniziati).

Possano dunque coloro i quali lo vogliano, ritenersi fortunati di appoggiare la missione del Bene, per le sue modalità fin qui esposte, poiché comunque, indipendentemente dal fatto che si abbia tanto o poco, tutto può dipendere dalla singola volontà d'ognuno, da ciò che il singolo può e soprattutto "vuol" vedere (in chiave Microcosmica), poiché se è anche vero, che in ciò può esservi l'influente opera dei sedicenti contro-iniziati, cominciano altresì a intravedersi dei veri e propri risvegli: è probabile che un certo male non sparisca del tutto (ad ogni livello), ma quantomeno verrà allentato, attenuato, e un miglior equilibrio andrà a crearsi.


Sul concetto in sé, su quello di Tradizione, di Micro e Macrocosmo – parte seconda di Manuele Migoni

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Sul sospetto dell’indirizzo politico (diretto o indiretto) dell’attuale Papa: il tema della reale distinzione.

Personalmente, a confronto di alcuni che, legittimamente o meno, in tal senso lanciano ipotesi tra le più variegate, non considererei questo Papa come Comunista, e neanche il suo opposto (nonostante, in questo, sia stato indagine di un suo discusso, più o meno certo, passato) per una ragione molto semplice: anche per il Papa e/o Vaticano, di questi tempi (o ultimi secoli) il problema credo sia dovuto più a una sorta di "istituzionale sopravvivenza", quasi, paradossalmente, di (o in) una lotta tra poveri, tra esso stesso (e al suo interno) e chi spesso ne risulta essere il suo inconsapevole nemico, poiché entrambi, in effetti, cercano di ritagliarsi, come prassi vigente, strumentalmente e "strumentalizzati", uno spazio nell'establishment, per l'establishment.

Sembrerà complessa metterla in questi termini, ma il passaggio da un dualismo materializzante mente/corpo, normalmente supportato o rivelato di un aspetto erroneo, alterato, o demoniaco (comunque si manifesti) e che ricade spesso, laddove non dovrebbe, in qualcosa di gravemente sessuale, o comunque di misticheggiante e/o sdoppiante (che poi grave quindi non dovrebbe essere, in fondo è un peccato equivalente a un nonsenso) proprio dalla sua accettazione e/o superamento, permette, nel singolo, di giungere a concretizzare il concetto di vera Trinità (poiché una non sopportazione o non adeguata metodologia di ciò, normalmente scadrebbe nell'intransigente legittimazione di una più serrata moralità, che continuerebbe a creare questo tipo di interferenze) purificando per così dire (ma non sono aspetti corrispondenti al termine puritanesimo) anima corpo sesso sentimenti e relazioni sociali, e distinguendo la propria natura da ciò che non è (al contrario quindi, e addirittura per moralità scritta o comunque lasciata intendere, di chi consideri questo accennato dualismo come un'insopportabile afflizione peccaminosa, di tipo omosessuale ad esempio, senza giungerne a una sua divina liberazione); certo se poi si sposa tale prassi divina e socialmente si adotta il motto "morte tua vita mia" si torna punto e a capo (che spesso è quel che succede, e in questi casi una “spicciola”, per così dire, redenzione, potrebbe risultare iniqua, essendo soprattutto una questione di mentalità); ed è pur chiaro che anche un utilizzo sfrontato, scorretto, eccessivo del sesso e del sentimento, non porti a molto, soprattutto quando, e sé da intendersi in termini di condivisione.

Detto questo, e per via di questi motivi, non credo questo Papa - per il fatto di aver sposato la causa internazionale dei diritti civili - possa esser additato di Comunista, né tanto meno, e moralmente, di Fascista; ma forse, e su ciò mi si può trovar d'accordo, al di là che anche in termini metafisici si debba, per se stessi, e per propria distinzione, accettare e tollerare, un troppo permissivismo in tema di accoglienza "numerica" di genti disagiate (?) provenienti da altri luoghi, quindi in termini di spazio formativo e/o quantità, potrebbe dare adito a ben altro tipo di problemi e conseguenze; e in ciò, per il Dio denaro/potere/sopravvivenza, potrebbero esserne tutti complici, amici/nemici, sebbene apparentemente in guerra.

Generazioni a confronto.

All'attenzione, in queste parole, sono quei modi, quegli atteggiamenti, facenti parte soprattutto quel mondo intellettuale, che crede di sposare cause solidali in aiuto al popolo, ma che in fondo, non fa altro che finirci contro o comunque, in un certo qual modo, comprometterlo.

A finirci contro perché sistematicamente proteso a sbagliare, per indirizzare un certo potere verso alcune discutibili élites (potrebbero esserci élites ed élites) divenendo esso stesso élite - talvolta alienante dalla sua stessa creazione popolare - e perché, al riguardo, diviene spesso, per sistematica reazione, fautore di movimenti politici estremi.

Si prenda ad esempio la causa sull'aborto: si vorrebbe che in ciò vi fosse libertà di scelta, che una donna sia libera di abortire, nella maggior parte dei casi da intendersi, come motivazione, soprattutto per una questione di quantità - materiale, di risorse, per futura progettazione, quindi come manchevolezza – per quanto questa stessa quantità spesso non sia proporzionata, ma bensì, per un motivo o per l'altro, ben accetta, quando si tratta dell'approdo illegale (illimitatamente numerico) di persone provenienti da luoghi, che non siano quindi la propria comunità nazionale (e per illegale si intendono quelle infiltrazioni di persone - che ne sono la maggioranza - che nulla hanno a che vedere con richiedenti asilo o rifugiati politici, o comunque non provenienti da reali scenari di guerra).

E così anche per il discorso relativo alla legalizzazione delle droghe (siano esse leggere o altro): qui in effetti basterebbe un controllo adeguato da parte di uno o di entrambi i genitori - seguendo linee di condotta tradizionali implicite a fattori culturali di reale cristianità e/o universalismo indoeuropeo - che un ragazzo, fin da adolescente, non credo, in proporzione, necessiti, ricorra, all'utilizzo di droghe, per cui non se ne vedrebbe il motivo di legalizzarle, dal momento che non ve ne sarebbe poi così un notevole consumo.

Il venditore, il trafficante di droga, in fondo non fa che servirsi del cosiddetto “popolaccio” (quello di pancia, per intenderci, ma talvolta come dargli torto) sotto tutti i profili: raffigurato in un singolo elemento, quello che istintivamente periferico, diventa attore circostanziale a confronto col suo interlocutore, per poi, almeno nelle sembianze più formali ed educative, essere tutt'altro in privato; quello che è di pancia su tutto: senso del gusto, del dovere, dell'estetica, del linguaggio, e che in fondo non è altro che il risultato degli sbagli, dei paradossi, non è altro che il riverbero inconsueto di quel mondo intellettuale sopracitato, che, come già detto, e d'altra parte, non fa altro che fomentare, in tutto ciò, delle estreme e considerevoli reazioni, soprattutto sotto il profilo politico-sociale.

Per cui il venditore di droga, a suo modo, a suo tempo, ma in questi casi sarebbe meglio definirlo Mafioso, non fa altro che adottare la cosiddetta legge del contrappasso, ovvero: laddove il popolo (inteso anche come famiglie) si è dimostrato e si dimostra illuso, illusorio, sobillatore, rivoltante, disobbediente, irregolare, “senza una propria direzione” (quando per giunta e soprattutto da inculcare) gli si ripaga il mal tolto con una forma accentuata di illegalità speculativa (quindi anche attraverso vendita di stupefacenti, traffico di prostituzione etc.) per giunta a sua volta formandone, in confronto (e spesso, di fatto, ottenendone metodologica approvazione) un'élite nell'élite (tra cui potrebbe quindi trovarsi, in quest'ultima, quel mondo intellettuale poc'anzi citato, in combutta - e talvolta sorprendentemente in accordo - con quell'altrettanto mondo politico reazionario da esso fomentato, che a sua volta, e per riflesso politico o comunanza di princìpi, potrebbe stringere oscuri accordi con quel mondo mafioso).

E sia chiaro che, non avendo personalmente figli, questi io non voglia insegnare un padre a farli, ma su quanto detto, di chiari esempi, si può star certi, non ne mancano, se ne hanno, eccome.

MMDCCLXX Ab Urbe Condita

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Svastica

L'anno nuovo si apre nel segno di Giano, dio squisitamente italico-romano preposto agli inizi, il cui duplice volto guarda al passato e al futuro rivelando un terzo volto proiettato sul presente, che saremmo noi. Il nome di Ianus allude alla porta (ianua) posta a guisa di passaggio tra il vecchio e il nuovo ma anche tra l'esterno e l'interno e la sua arcaicità ci comunica quanto la valenza da esso incarnata fosse celebrata dai nostri antichi Padri italici e romani.

Giano si pone al principio delle cose materiali e immateriali e apre il nuovo anno facendo da traghettatore che aiuta ad attraversare il guado dal passato al futuro, come un ponte che serve a metterci in comunicazione con il nuovo senza dimenticare il vecchio perché le nostre radici affondano nella Storia e da essa traggono quella linfa vitale necessaria ad intraprendere il cammino identitario. Senza passato non c'è futuro, ma non si deve dimenticare la dinamica del movimento che proprio Giano ci insegna, per evitare così di fossilizzarci, di impantanarci in una fase di stallo poco proficua senza osare per guardare dinnanzi a noi, al domani che ci attende, si spera, radioso, e che va affrontato con eroico piglio giorno dopo giorno.

Il nostro Capodanno civile (ma anche sacro) segue quello astronomico che abbiamo celebrato il 22 dicembre scorso, nel solstizio d'inverno la cui vera epifania si manifesta nel giorno di Natale (quello vero, ovviamente), festeggiato il 25; in quella data il sole, dopo la sua caduta nelle tenebre, risorge e lentamente riprende quel cammino che lo porterà a guadagnare terreno sulla notte, sull'oscurità, sino a raggiungere il suo massimo trionfo nel solstizio d'estate.

Giano è creatore e procreatore, padre degli dei, nostro e del mattino, inaugura l'anno nuovo denominando il primo mese tanto che nella religione italica arcaica ricopriva una funzione preminente, più importante di Saturno e di Giove stessi essendo egli l'iniziatore di tutte le cose; nel suo nome avevano inizio le cose materiali (naturali ed agresti, ma anche civili, ad esempio) e spirituali (cicli di rinnovamento che si ricongiungono poi all'ultimo giorno dell'anno sotto gli auspici di Saturno) tutelate dal suo sguardo bifronte rivolto sia verso ciò che è stato sia verso ciò che sarà, consegnandoci il presente che noi rappresentiamo ogni giorno della nostra vita terrena.

È proprio alla luce di tutti questi interessantissimi aspetti tramandatici dai culti tradizionali e dalla loro memoria difesa e conservata dai custodi della Tradizione (indirettamente, pure dalla Chiesa cattolica romana che si è appropriata degli antichi simboli riciclandoli in chiave cristiana), che il 29 dicembre scorso, con alcuni sodali, ho partecipato ad un suggestivo rituale, semplice e frugale, oserei dire archetipico, ma proprio per questo frutto della genuina spiritualità di colui che lo ha predisposto. Da questa celebrazione emerge la potenza del simbolo, perché noi abbiamo bisogno di simboli per poterci congiungere sacralmente al ricordo dei nostri Avi e della loro inestimabile cultura religiosa. Capiamoci: qui non si tratta di scimmiottare la liturgia cattolica (che, anzi, è quella che ha scopiazzato malamente i riti gentili degli Indoeuropei mescolandoli alle stramberie abramitiche) o di limitarsi alla pratica esteriore come fosse sterile esercizio narcisistico: la questione è molto più importante e profonda.

Se ci fermassimo al rito, alla liturgia, avremmo capito poco o nulla; noi dobbiamo fare tesoro dei simboli, dei gesti, delle parole per poter - mi si passi il termine - digerire al meglio e assimilare la valenza più intima dei culti tradizionali, che era quella di rinnovarsi mediante l'esercizio spirituale interiore, finalizzato a cambiare in meglio, affinando la nostra sensibilità spirituale e culturale. È fondamentale vivere queste occasioni come dono tradizionale dei Padri che ci invitano, mediante essi, ad entrare in comunione con loro per poi mettere in pratica, quotidianamente, gli insegnamenti eterni di sapienza gentile che oggi più che mai dobbiamo recuperare. Tutto questo non può venire dal cristianesimo, dal giudaismo, dall'islam, da altri culti stranieri o peggio ancora dall'ateismo che strizza l'occhio alla paccottiglia new age e wicca (forme di modernismo consumistico, di deviazione); può solo venire da quella sottile linea rossa di Sangue ariano che ci ricollega alle origini etno-culturali d'Italia e d'Europa ma non per giacere in una fase di stagnazione, bensì per affrontare al meglio le sfide di tutti i giorni che il futuro ci riserva.

Radunati attorno ad un falò inscritto in un cerchio di sassi, nella suggestiva cornice naturale di uno scorcio di Lario reso suggestivo dall'antica presenza in zona di genti gallo-romane devote a Cerere, i convenuti hanno celebrato la rinascita solstiziale del sole ma con lo sguardo di Giano rivolto al Capodanno, essendo agli sgoccioli del MMXVI. Il cerchio ha trovato il giusto equilibrio nella fondamentale presenza dei quattro elementi ossia acqua, fuoco, terra e aria, accompagnati dai doni offerti durante il rito tra cui il ruolo di protagonista tocca ovviamente al vino. Abbiamo bruciato il consueto vecchiume che volevamo lasciarci alle spalle per affrontare con la giusta serenità il domani, liberandoci da quei pesi che gravano sull'anima, anche per cercare così di raggiungere la giusta sinergia con le forze della natura circostanti, scacciando quanto di negativo potesse intromettersi. Il rituale si svolge in pieno spirito comunitario di solidarietà ed unione cameratesca, in armonia con la natura circostante e sotto un cielo invernale grigio che rende però magica l'atmosfera comense lacustre e prealpina, ed affascinante lo scenario che ci fa da sfondo.

Come ho ricordato poco sopra non ci si può fermare al rito e alla pratica esteriore, altrimenti il tutto rimane sterile per quanto sia attraente; si deve metabolizzare quanto il rito ci comunica anche per riuscire a leggere tra le righe e comprendere appieno il significato più intimo di questa frugale celebrazione, una celebrazione oserei dire davvero pagana ossia agreste, rustica, in linea con la semplicità perduta che i nostri Avi mettevano nel culto. E così facendo la vera potenza del simbolo non rimane sulla carta ma viene assunta da noi, illuminati dallo spirito della Tradizione che ci infonde sapienza, conoscenza, capacità introspettiva e anche la volontà di essere esempio per gli altri, a partire dai nostri cari e dalle persone a noi più vicine.

Credo infatti che la valenza più importante e bella di questi genuini momenti di condivisione stia proprio nel farsi comunità, nel ritrovarsi attorno ad un fuoco sacro immersi nella natura e riscoprirsi così parte di un territorio e di una cultura che hanno fortissimamente bisogno di noi e dei modelli positivi che dobbiamo incarnare, per non morire. Essere strumenti di un disegno cosmico latore di grandi ed elevati ideali implica grande forza di volontà e sacrificio, non è sicuramente da tutti e per tutti, ma dobbiamo comunque cercare nel nostro piccolo di brillare per squarciare il velo dell'omologazione ai tenebrosi dettami del conformismo borghese e mondialista e raddrizzare il tiro che la modernità ha preso almeno da settant'anni ad oggi.

Sono grato a chi mi ha permesso di prendere parte ad una cerimonia densa di simboli e di spunti per la riflessione, importanti se utili a migliorare sé stessi e l'ambiente circostante nel nome dell'Identità e della Tradizione che gli Avi ci hanno tramandato. Grazie al sacro consesso si riscopre una parte basilare della spiritualità locale e nazionale e si può anche cogliere come il cristianesimo cattolico abbia pesantemente assorbito (e riutilizzato) i fasti gentili per farsi strada nell'Europa romana; paradossalmente la Chiesa cattolica offre il destro per scavare nella sua liturgia cogliendo così le vere radici di molta parte (se non tutta) del calendario annuale da essa svolto. So che diversi, tra chi sta leggendo, potrebbero dirmi che a suo modo la Chiesa è tradizione iniziatica a fronte di una gentilità antica "interrotta"; personalmente, credo che la Tradizione vada recuperata possibilmente depurandola da ogni patina cristiana, che ne ha pervertito il senso, perché solo così possiamo gustare pienamente di quel calice colmo di delizia primigenia donata a noi dagli antichi progenitori arii.

E solo così possiamo inoltre divenire coerenti araldi del messaggio identitario e patriottico che deve essere corroborato dalla tutela delle vere radici d'Europa, che ovviamente non sono quelle con cui amano trastullarsi preti, rabbini e imam e tutti i vari reazionari di area cristiana, convinti di difendere la più intima essenza del nostro Continente biascicando formulette religiose scritte in libri estranei alla cultura indoeuropea.

Sperando abbiate trascorso una lieta fine d'anno - sebbene quello appena trascorso ci abbia riservato moltissime amarezze in termini di polis - concludo augurandovi un MMXVII (come il Natale scorso caduto, peraltro, di soledì!) all'insegna del rinnovamento comunque conscio del proprio passato, la cui migliore lettura ci viene fornita dall'antica datazione romana Ab Urbe Condita. Sta infatti nell'eterna romanitas la chiave della resurrezione spirituale e materiale, scandita dalla rinascita del sole, frutto di una decisa presa di coscienza identitaria che ci renda finalmente Italiani valenti e orgogliosi della propria inestimabile eredità latina, sotto l'egida di Giano che ci guida alla nuova avventura pronta a dipanarsi lungo il susseguirsi delle stagioni di questo MMDCCLXX AVC.

Ave Italia!

Una riflessione sull’occidente tra solstizio e anno nuovo – Umberto Bianchi

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Una riflessione sull’occidente tra solstizio e anno nuovo

Nel periodo di tempo compreso tra il 21 ed il 25 di Dicembre, il Sole, nel suo moto annuo lungo l’eclittica, viene a trovarsi alla sua minima declinazione nel punto più meridionale dell’orizzonte Est della Terra, che culmina a mezzogiorno alla sua altezza minima (a quell’ora, cioè, è allo Zenit del tropico del Capricorno) e manifesta la sua durata minima di luci.

Pertanto, dopo aver raggiunto il punto più meridionale della sua orbita e aver fatto registrare il giorno più corto dell’anno, riprende il suo cammino ascendente. Questo periodo coincide, con il Solstizio d’Inverno ed il Dies Natalis Solis Invicti, ovverosia la festa della rinascita del Sole e, pertanto, della vita e della speranza.

Abbiamo traccia di questa ricorrenza già a partire dall’epoca protostorica dei siti di Stonehenge e della Val Camonica. In epoca storica, nell’antico Egitto si festeggiava la nascita di Horus, figlio della dea Iside e di Osiride, nel contesto mesopotamico ricorreva invece la nascita di Tammuz ritratto tra le braccia della dea Ishtar, circondata da una corona di dodici stellene. L’India dei Veda festeggia invece la nascita del dio Krishna, mentre in Cina si ricorda Scing-Shin.Tra le popolazioni scandinave ad esser festeggiata, è la nascita di Freyr, figlio del padre degli dei, Odino, e di Freya. Nel contesto dell’America pre-colombiana, se in Messico nasceva il dio Quetzalcoath e l’azteco Huitzilopochtli, in Perù era festeggiata la nascita del dio solare Viracocha.

Il contesto della civiltà classica, vede nascere in questa stessa data Zeus/Giove, Bacco/Dioniso, Ercole e Adone. A Roma, la rinascita del Sole, veniva celebrata come Dies Natalis Solis Invicti, il giorno del Natale del Sole Invitto, con una particolare enfasi, dopo l’introduzione e la diffusione nella fase tarda dell’impero, del culto a carattere misterico del dio indo-iranico Mithra, di cui proprio il 25 dicembre, ricorreva la nascita. Lo stesso Cristo, infine, viene definito e rappresentato quale sole, circondato da raggi, proprio in virtù di quell’appropriazione di simboli e festività pagane, da parte della nascente fede cristiana.

Una festività che da millenni, come possiamo ben vedere, accomuna popoli, culture e tradizioni apparentemente differenti e che, in questo preciso momento storico, però, ci deve riportare ad una serie di riflessioni.

Mai, come quest’anno, difatti, le ricorrenze Solstiziali legate alle Festività del Natale, dell’Anno Nuovo e della stessa Epifania, dovrebbero farsi occasione per meditare sui disastri e le tragedie innescate dalle distorsioni di un Monoteismo assurto a paradigma di Pensiero Totalitario ed onnicomprensivo, soffocante di qualunque diversità, e perciò stesso castrante ed alienante la stessa anima di un mondo che, in quanto tale è sintesi ed espressione di complessità e molteplicità. Il capitalismo globalista con le sue politiche genocide e razziste contro i popoli del Medio Oriente, ha prodotto un mostro che si fa scudo della religiosità islamica e tutto attorno a sé distrugge.

Stupra, massacra, violenta, esseri umani ma anche, cosa di non poco conto, le vestigia del glorioso passato politeista mesopotamico, perché il mondo non può e non deve avere radici, origini, archetipi, rimandi a quell’infinito mistero che è la natura dell’Essere, fatto di un’infinità di sfumature e volti, al pari di un multicolorato caleidoscopio.

No. Tutto deve essere spietatamente conformato ad una Legge fatta di parole ripetute a memoria, fini a sé stesse. Una Legge chiusa a qualunque diversità e varietà e che, non per nulla, pretende di rinchiudere la bellezza femminile, luce e sole del mondo, dietro ad un velo nero e puzzolente. E’ lo stesso velo lugubre delle nostrane monache e che ci riporta agli antichi terrori ed orrori dell’Evo Medio e delle sue molteplici persecuzioni contro Catari, Templari, Bogomili, streghe e tanti troppi altri, al pari dei bei raccontini biblici sulle imprese sterminazioniste agli esordi della vicenda del “popolo eletto”, compiute proprio nel nome di quella conversione forzosa che, nell’antico e sicuramente più tollerante, mondo politeista, fu l’esclusivo appannaggio della (allora minoritaria) cultura monoteista.

L’orrore di un modello cieco e sordo di fronte alla bellezza del Mondo, il tentativo di omologare, ingrigire, snaturare qualunque cosa nel nome di una unica asfissiante onnipervasività, ci riporta giuocoforza all’idea di bellezza, a quell’immagine di armonia che trovò il proprio inveramento nei canoni della bellezza classica che poneva al proprio centro l’uomo, visto come misura ed armonia del mondo.

Un mondo di cui ognuno dei molteplici aspetti che ne costituivano la trama infinita, era divinizzato, esaltato, posto in rilievo. La materia era cosa sacra, non arida e vile. Alberi, fiumi, ruscelli, animali parlavano ed interagivano con l’uomo che, a sua volta, manteneva un rappporto continuo e vitale con l’intero Cosmos di cui era parte integrante e protagonista.

La realtà ed i suoi molteplici aspetti erano oggetto di una adorazione ed un rispetto tali che, in Roma antica furono oggetto di un culto talmente particolareggiato da portare alla nascita dell’idea di un così minuzioso attaccamento a quel Nomos/Diritto, che di Roma fece poi un faro indiscusso della civiltà mondiale. Roma che, al pari di altre città dell’epoca, si diceva fosse stata fondata da un figlio di Dei, quale Romolo, appunto, figlio di Marte e di Rea Silvia.

Atene fondata ed ispirata alla onnisciente sapienza guerriera della bella Athena/Minerva e così via… se le città, le “poleis” erano divine, sacre, altrettanto divine e sacre erano le leggi e lo stato che se ne faceva garante e che, pertanto, finiva con l’assumere quel ruolo primario di basale ethos e formazione dell’individuo.

Allo stesso tempo, la “religio” venendo a far parte dello “ius publicum”, non contastava con gli interessi della classe politica/della poleis, che qui costituiva il baricentro della vita dell’individuo.

L’Aldilà era luogo oscuro e lontano, da cui ogni tanto, per occasioni speciali, fuoruscivano le anime dei defunti per quanto mai rapide ricognizioni nel mondo dei vivi, o, all’interno di cui, a volte, eroi e personaggi semi divini, come nel caso di Ulisse ed Orfeo, potevano miracolosamente accedere per incontrare l’anima di un particolare defunto.

Lo Stato o “Polis” in quanto “ethos”, ricopre il ruolo di educatore del cives/cittadino, all’interno del quale la casta dei legislatori, (quale diretta filiazione dell’antica casta guerriero-nobiliare), mantiene un ruolo di diretta supremazia sulla casta sacerdotale, contrariamente a quanto, invece, generalmente accade nel Vicino Oriente Mediterraneo e non, in cui la casta sacerdotale mantiene una posizione di preminenza, che sovente si traduce in una assoluta supremazia, come nel caso delle civiltà egizia, mesopotamica (a seconda dei vari contesti) e indù (tanto per fare alcuni esempi…).

Nel caso della “ecclesia” cattolica, poi, questa impostazione si tradurrà, dall’Evo Medio in poi, in una vera e propria plurisecolare competizione con Stati ed Imperi per la detenzione di un potere esteso a livello globale.

Una lotta che, senza vincitori né vinti, spalancherà invece la strada, ad una Modernità impostata sulla predominanza a livello mondiale, dei ceti mercantili e, successivamente, di quelli detentori del potere finanziario.

Ecco, questa è la “lectio” che si dovrebbe, anzitutto, ricavare dal guardare alle religioni tradizionali ed al contesto greco romano, come in questo specifico caso.

Al tempo d’oggi, l’avere come punto di riferimento spirituale una sola o più entità divine, può avere ben poco senso, se non accompagnata ad una riflessione di ordine più generale, come quella testè condotta.

Il sostituire una ritualità ad un’altra rischia di divenire uno sterile esercizio di successione di gestualità e giaculatorie che, in certi casi, sa molto di slavata e confusionaria “New Age”, o, ancor peggio, di pseudo-occultismo da strapazzo, o, ancor peggio, di forme di piscosi che degenerano in deliri satanisti, che portano tutti, diritto diritto, al plurisecolare progetto globalista, volto ad ottenere la totale perdita di valori, significati e punti di riferimento superiori, sostituiti dalla assoluta priorità dell’ economia sulla Vita.

E’ una vecchia storia quella delle suggestioni paganeggianti, impiegate “ad usum delphini” come nel caso di quelle usate ed abusate dai vari Robespierre durante la Rivoluzione Francese e da altri suoi illustri predecessori illuministi, o da certi circoli e società di impostazione massonica che, proprio attraverso l’uso improprio di certe immagini, hanno buttato il fumo negli occhi dei vari gonzi del momento, riuscendo a perseguire con successo i loro scopi di segno opposto a quello che determinati simboli ed immagini archetipiche, invece, evocano.

La supremazia etica dello Stato-Comunità, visto quale educatore e (per usare un termine tratto dal gergo manageriale) “motivatore” del “cives”, scopo questo perseguito attraverso la mitizzazione di quello stesso Stato, le cui origini fondative sono direttamente fatte risalire a personaggi leggendari o addirittura alle divinità stesse.

L’idea di società ordinate secondo gerarchie non determinate da motivazioni prettamente economicistiche, è un qualcosa che contrasta in modo stridente con chi, invece, crede nella supremazia di una dimensione scientista, razionalista, Tecno-Economica e pertanto in un ordine politico imperniato su un livellamento egualitario, che finisce per tradursi in una forma totalizzante di omologazione e castrazione delle energie individuali, sottoposte al diktat delle oligarchie finanziarie.

E pertanto, il richiamo, al giorno d’oggi, a determinate immagini ed archetipi, acquista il valore di vera e propria provocazione/”pro-vocatio” nei rispetti di un ordine costituito i cui parametri di lettura della realtà, sono palesemente all’opposto di quelli a cui l’ “evocatio” di certi simboli richiama.

E qui si riaffaccia, in modo inaspettato ed inquietante, la sfida rappresentata da un’altra modalità di concepire ed agire sulla realtà nel suo complesso che, partendo da un criterio di circolare pensiero analogico, in un continuo rimando di immagini e concetti, anziché dall’utilizzo lineare delle griglie di pensiero razionale di matrice Enciclopedico-Illuminista, può arrivare alla modifica di quella medesima realtà, ponendo l’individuo in uno stretto rapporto di stretta connessione e di mutua interazione con l’Essere.

Possiamo parlare di “Idealismo magico”, di richiamo archetipico o di qualunque altra similare modalità imperniata su una modalità non razionale di inquadrare la realtà, restando palese la constatazione sull’insufficienza del modello occidentale, così come, al dì d’oggi, concepito nelle sue fondamenta etico-politiche.

Queste ultime vanno, di pari passo, affiancandosi a forme di religiosità individualizzate e standardizzate ad un incipiente vuoto di contenuti, che non siano i richiami ad un putrido e degenerescente solidarismo da quattro soldi o, di controparte, ad un letteralismo bigotto ed altrettanto svuotato da contenuti superiori.

Resta pertanto, forte, il richiamo ad un pensiero “altro” che, qui e là, facendo capolino tra le pieghe di un Occidente omologato e secolarizzato, ne rivela un lato inaspettato, lasciando aperta la porta a prospettive del tutto impreviste ed inusitate.

UMBERTO BIANCHI

Le donne fatali nella Grecia arcaica – Fabrizio Bandini

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La Grecia arcaica ci offre numerosi esempi di donne fatali, di femmine archetipali, potenti ed oscure.

D’altronde il Mediterraneo, era antica terra di popolazioni ginecocratiche, di adoratori della Dea, della Grande Madre, di amazzoni, di profetesse e maghe, e non poteva che essere terreno fertile, nel grande bacino dell’inconscio collettivo, per simili manifestazioni.

Le invasioni dei fieri popoli indoeuropei, guerrieri patriarcali, adoratori degli Dèi uranici, non avevano eliminato completamente il sostrato ginecocratico di quelle terre.

Sotto l’Olimpo, sotto le dure e aspre mura di Tirinto, di Micene e di Sparta si agitavano ancora i riti della Dea, le baccanti, le profetesse, gli oracoli.

Cherchez la femme, quindi.

La prima donna fatale che ci si presenta è Onfale, regina di Lidia, donna imperiosa e fascinosa, una vera regina matriarcale, che seppe dominare e legare a sé per alcuni anni nientemeno che Eracle, il grande eroe greco, figlio di Zeus e di Alcmena, della stirpe dei Re di Micene, destinato a trionfare in terra e ad essere divinizzato alla sua morte, come uno degli Dèi dell’Olimpo.

Neanche il grande guerriero Eracle, il più virile di tutti gli uomini, lo sterminatore di Amazzoni, riuscì a resistere davanti alla potenza di Onfale, donna ginecocratica e afroditica, con forti tratti amazzonici.

Comprato dalla lasciva e ambiziosa Regina di Lidia per pochi soldi Eracle ne divenne ben presto lo schiavo.

È la regina che lo sceglie e lo vuole suo, cosa da sottolineare, poiché richiama il principio delle civiltà ginecocratiche: il diritto della donna a scegliersi da sola il proprio uomo (1).

Come scrive Bachofen, nella sua celebre opera Das Mutterrecht, a proposito del mondo ginecocratico:

La donna si sceglie l’uomo sul quale è destinata a esercitare la sua sovranità nel matrimonio… La signoria della donna incomincia con la sua scelta autonoma. È la donna che corteggia, non l’uomo” (2).

Questo tratto eterico e ginecocratico d’altronde abbondava fra le ragazze lidie, come racconta anche Erodoto nelle sue Storie, e lo ritroviamo nella regina di Lidia, la soggiogatrice di Eracle, alla massima potenza.

Sedotto dalle arti femminili di Onfale l’eroe “aveva rinunciato alla pelle di leone e alla corona di pioppo e portava invece collane di pietre preziose, braccialetti d’oro, un turbante da donna, un manto purpureo e una cintura meonia. E che, così agghindato, sedeva tra lascive fanciulle ioniche, cardando la lana, oppure intento a filarla. Tremante come una foglia se la sua padrona lo sgridava, o lo puniva percuotendolo con la pantofolina dorata se per caso, con le dita maldestre, gli capitava di spezzare il fuso. O quando lei, per suo piacere lo costringeva a raccontare le sue passate avventure per divertirla. Ma a quanto pare Eracle non se ne vergognava. Ecco perché certi pittori ci mostrano l’eroe con una sopravveste gialla indosso, che si lascia pettinare dalle ancelle di Onfale mentre Onfale stessa, coperta dalla pelle del leone, regge la sua calva e il suo arco” (3).

Il principio maschile viene svilito, sottomesso e femminilizzato, in una completa inversione dei ruoli.

Vestito da donna l’eroe serve la Regina vestita da uomo, da guerriero, da eroe.

Non si può immaginare una resa peggiore.

Il principio maschile si perde nel femminile e viene da esso castrato, fisicamente, psicologicamente e spiritualmente.

Il nome stesso della Regina, Onfale, evoca tutto l’antico mondo matriarcale pre-indoeuropeo.

Esso richiama l’omphalos, l’ombelico della Terra, un oggetto cultuale in pietra che esisteva a Delfi, dedicato a Gea, la Madre Terra, la Dea sovrana e primigenia, e a Pafo, dedicato ad Afrodite, la bella e potente Dea dell’amore e della sessualità, come sottolinea giustamente la Minguzzi in un suo saggio (4).

La pratica di indossare vesti femminili, d’altronde, era normale per i sacerdoti delle grandi Dee.

Ne abbiamo moltissimi esempi nel bacino del Mediterraneo.

I sacerdoti di Artemide a Efeso e quelli di Astarte a Ieropoli indossavano abiti femminili come rinuncia alla virilità. Rinuncia che diventava totale durante i misteri di Rea Cibele, quando, i sacerdoti arrivavano addirittura alla castrazione fisica (5).

La Gimbutas scrive:

Ad Efeso, Artemide era associata all’ape come suo animale di culto e l’organizzazione del santuario in epoca classica si è ispirata all’analogia simbolica di un alveare, con sciami di sacerdotesse-api, melissai, ed essenifuchi, che erano sacerdoti eunuchi” (6).

Il Neumann ci ricorda invece che il sacrificio della virilità dei sacerdoti della Grande Madre in Siria, a Creta, e a Efeso, si esplicava non solo con l’indossare vestiti femminili, ma anche con la pratica della prostituzione maschile (7).

E Bachofen sottolinea a proposito il carattere amazzonico di Onfale, che “nella sua ginecocratica superbia rende schiavo l’uomo e lo degrada a femmina” (8).

Eracle, riuscirà poi a sottrarsi da tale umiliante schiavitù, slegandosi dal dominio della donna e superandola, riacquistando il suo spirito eroico ed olimpico, sino alla divinizzazione.

La sua storia con Onfale, in ogni caso, colpirà l’immaginazione di intere schiere di pensatori, letterati e pittori, in ogni tempo, divenendo il prototipo del dominio della donna sull’uomo.

Per gli scrittori classici la schiavitù di Eracle presso Onfale è un’allegoria che dimostra con quanta facilità un uomo forte può lasciarsi asservire da una donna ipocrita, lasciva e ambiziosa” (9) annota il Graves.

E da lì si giungerà sino al dipinto seicentesco di Michele Desubleo, Ercole e Onfale, bellissimo e potente, che raffigura Onfale con la pelle del leone nemeo e la clava, mentre Ercole stringe nella mano un fuso. 

Ma se Eracle, in tempi mitici ed eroici, nei ta arkhaiha, i cosiddetti tempi antichi, dove la storia è ancora confusa con il mito (10), riesce a sottrarsi al dominio della donna fatale, meno bene andrà ai suoi successori.

La seconda figura che ci presenta è Elena di Sparta, cantata in maniera imperitura da Omero nell’Iliade e da numerosi poeti in età arcaica.

Che una simile femme fatale sia spartana non stupisce più di tanto.

Difatti a Sparta e nel mondo miceneo, nonostante la predominanza patriarcale indoeuropea, la civiltà ginecocratica ancora viveva, con figure di donne forti e potenti (11).

Elena, figlia di Leda, nata da un doppio amplesso, divino ed umano, con Zeus, Re degli Dèi, e con Tindaro, Re di Sparta, sorella di Clitennestra, era bionda, dalla pelle candida, bellissima, di una bellezza da togliere il fiato.

Il suo nome d’altronde era anche quello della dea Luna spartana (12), cosa che la inquadra ancora meglio nel suo aspetto archetipale.

Elena è una vera e propria donna fatale, un vero e proprio archetipo di donna afroditica.

Se Afrodite è la dea dell’amore sensuale, Elena è l’incarnazione di quest’amore” scrive giustamente Bettany Hughes (13).

Donna desiderata come nessun altra, donna destinale.

La sua bellezza indescrivibile e terribilmente fascinosa, tale da sconvolgere le menti, fece le prime vittime sin dalla tenera età.

Teseo, il vecchio re di Atene, la rapì in età adolescenziale, colpito dalla sua incredibile avvenenza.

Liberata dai suoi fratelli, Castore e Polluce, i Dioscuri, tornò felicemente a Sparta, dove ben presto accorsero i migliori re achei e i più valenti guerrieri della Grecia.

E lì si sfidarono per la sua mano.

La vincerà Menelao, fratello del potente Agamennone, re di Micene.

Menelao ed Elena regneranno quindi a Sparta, come re e regina.

Ma la bellezza trascinante di Elena non lascerà affatto tranquillo il regno e colpirà ancora.

Una forza fatale e destinale.

La forza di Eros.

La terribile seduzione di Afrodite, in tutta la sua potenza.

Il principe troiano Paride, in visita a Sparta, vedendola se ne innamorerà perdutamente.

Fu colpito dal suo fascino terribile, delizioso e distruttivo nello stesso tempo.

Properzio così la descrive magnificamente nelle sue Elegie:

Si dice che lo stesso Paride si consunse vedendo nuda la Spartana, mentre si alzava dal talamo di Menelao (14).

L’incendio erotico che Elena gli procura lo consuma.

Properzio non potrebbe più essere più chiaro nel descrivere la forza dell’eros, dell’archetipo della donna afroditica.

Elena ricambiò l’amore del bel principe troiano, tradendo così suo marito, e fuggì con lui a Troia.

Il danno era fatto.

Elena chioma bella” (15), come la canta Omero nel IX° Libro dell’Iliade, se n’era andata con lo straniero.

Bachofen sottolinea come la regina di Sparta, donna lunare, infrange il matrimonio seguendo un preciso impulso afroditico, tipico del mondo matriarcale e ginecocratico.

Un mondo in cui la donna regnava, e l’eterismo, la prostituzione, i rapporti afroditici sregolati della femmina con più uomini erano esaltati, mentre il matrimonio, che legava la donna ad un solo uomo, era disprezzato (16).

Nel mondo patriarcale degli achei, però, un simile gesto non poteva che essere considerato vile e terribilmente offensivo.

La furia di Menelao, re di Sparta, marito tradito, era incontenibile.

Lo sdegno di tutti i re achei era terribile.

Mai si era visto un tale affronto.

Tradita l’ospitalità del re di Sparta, nottetempo portata via Elena, la regina più bella degli achei.

La furia guerriera e la sete di vendetta corse veloce da Sparta a Micene, da Tirinto ad Argo.

La Grecia fu un ribollire di urla e di preparativi di battaglia.

Era la guerra.

La terribile guerra fra achei e troiani che sarà cantata in maniera immortale da Omero nell’Iliade.

Il legame fra Afrodite e Ares, fra mania erotica e mania guerriera, descritto molte volte dagli antichi, è qui splendidamente rappresentato.

Elena, la donna fatale, la donna afroditica, porterà quindi alla guerra e alla rovina l’intera stirpe degli eroi di Esiodo.

Per lei andranno alla morte i migliori guerrieri achei e troiani: Achille, Aiace Telamonio, Ettore e tanti altri.

Nomi epici e leggendari, che fanno tremare ancora oggi.

Con la guerra di Troia (1250 a.C. circa) si chiuderà l’età del Bronzo e si apriranno le porte all’età del Ferro.

Sembra che il destino stesso l’abbia messa lì, in quel punto, in quegli anni, per chiudere un’intera età.

Mille navi achee si metteranno in mare per lei, alla guida di Agamennone, il potente re di Micene, fratello di Menelao, della feroce schiatta di Atreo.

La guerra, epica e sanguinosissima, durerà dieci anni.

Sotto le mura di Troia cadrà anche Pentesilea, la celebre regina delle Amazzoni, alleata dei troiani, vinta dal prode Achille, potente eroe solare.

Paride sarà ucciso da una freccia ed Elena rapidamente sposerà Deifobo, un altro dei figli di re Priamo.

Poi, alla fine Troia cadrà, espugnata con il famoso stratagemma del cavallo.

Ilio sarà data alle fiamme, distrutta completamente, le sue genti massacrate, le donne violentate e fatte schiave.

Re Priamo verrà ucciso, senza pietà.

Deifobo lo seguirà, il corpo fatto a pezzi.

Alcuni fonti dicono per mano di Menelao o di Odisseo, altre addirittura per mano di Elena stessa, alcune versioni invece riferiscono che Elena festeggiò solo la morte di Deifobo, di cui evidentemente non si era innamorata.

Il racconto narra che Elena, durante il terribile saccheggio, si nascose in un tempio, dove alla fine fu ritrovata dal furioso Menelao, ben deciso ad ucciderla.

Ma la sua bellezza, che sconvolge le menti, colpirà ancora una volta, e il re di Sparta, avvinto, se la riprenderà con sé.

Elena, regina e puttana, parafrasando il libro della Hughes, entrerà così nella storia, in maniera imperitura.

Ma il sangue versato a Troia non era ancora sufficiente.

Il grande re di Micene, Agamennone, tornò in trionfo alla sua città, con la gloria imperitura e il bottino di Troia.

Fra cui Cassandra, principessa troiana, figlia di Priamo, profetessa, che lo avvertì invano dell’orribile sorte che lo attendeva.

E qui entra in scena un’altra donna fatale, Clitennestra, sorella di Elena, regina di Micene.

La sua figura si staglia nel mito e nella storia greca in modo fosco e imperioso.

Una donna archetipale, afroditica e demetrica, nello stesso tempo, che ben presto si volge in maniera oscura.

Sposò in prime nozze Tantalo, re di Pisa, nel Peloponneso.

Questi venne poi ucciso da Agamennone, il potente re di Micene, che gli aveva mosso guerra.

Agamennone, colpito dal suo fascino, se la sposò e se la portò a Micene, come regina.

Dalla loro unione nacquero Elettra, Ifigenia, Crisotemi e Oreste.

Allo scoppio della guerra con Troia la dea Artemide pretese un sacrificio umano per lasciar partire l’immane flotta achea.

Agamennone acconsentì a sacrificare la figlia Ifigenia.

Questa scelta gli provocò l’imperituro rancore di Clitennestra, che ben presto si vendicò in maniera atroce.

Tradito il marito con il cugino Egisto, di cui si innamorò, la regina progettò con questi il suo omicidio.

Al suo ritorno trionfale a Micene il potente re acheo, il vincitore di Troia, venne così assassinato nella sua reggia, assieme alla povera Cassandra.

Eschilo ci descrive nel suo Agamennone la scena terribile, in pagine belle e immortali.

Il re, l’eroe, trasformato in vittima sacrificale nell’oscuro rito di vendetta di Clitennestra.

Come nelle feste arcaiche del Mediterraneo ginecocratico: la regina, labrys in pugno, che sacrificava il suo sposo, il suo re.

Tale orrido omicidio non poteva restare impunito.

Il sangue chiamava ancora il sangue, nella fosca tragedia della casa di Atreo.

Anni dopo il figlio Oreste vendicherà la morte del grande re acheo, uccidendo la madre.

Terribile crimine, per cui sarà perseguitato in seguito dalle Erinni, figure appartenenti del resto al mondo matriarcale, femminile e ctonio.

Come scrive Pavese le donne degli Atridi, Elena e Clitennestra, erano veramente donne fatalidonne destinali, donne che “…dopo un po’ inferociscono e smaniano, versano sangue e ne fanno versare” (17).

E gli Atridi, re guerrieri, avevano bisogno di quelle donne, come avevano bisogno “della vergine crudele. Di quella che passa sui monti(18), la dea Artemide.

Il loro fato si era compiuto.

Elena e Clitennestra.

I più grandi poeti di tutti i tempi le cantarono, avvinti dal loro torbido ed ineguagliabile fascino.

Il ritorno di Agamennone non fu fortunato.

Come molti nostoi degli eroi achei.

Indimenticabile è la fine di Aiace Oileo, re di Locri, valente guerriero, che dopo aver naufragato a Micono, nelle Cicladi, gridò empiamente che si sarebbe salvato anche a dispetto degli Dèi, peccando di hybris, e così Poisedone lo fece inabissare fra i gorghi del mare.

Il prode Odisseo, invece, si imbatté nelle sue lunghe pellegrinazioni verso Itaca in un’altra donna fatale: Circe.

La scena è descritta da Omero, nell’Odissea.

Circe ci appare come una donna affascinante, bellissima, potente maga e regina crudele.

Figlia del Sole e della ninfa Perseide, sorella di Eèta, re della Colchide, e di Pasifae, moglie di Minosse, si distinse ben presto per la crudeltà e la mancanza di scrupoli.

Trasformò Scilla, una bellissima ninfa, in un mostro, perché si era innamorata di Glauco, un giovane che amava anche lei.

Sposatasi con un principe lo avvelenò e ne governò i sudditi in maniera talmente dura, che alla fine la scacciarono.

Giunta all’isola Eèa vi si stabilì, in un splendido palazzo.

Qui approdò Odisseo con i suoi.

Una prima spedizione di guerrieri achei raggiunse il suo palazzo.

Circe riccioli belli, terribile dea della parola umana” (19), li accolse, e li trasformò perfidamente in animali.

In quest’atto si coglie non solo il suo aspetto di maga, ma anche il tratto arcaico della Grande Madre, la Signora degli animali, la Potnia Theron che regnava sul Mediterraneo da tempi antichi (20).

I caratteri della Potnia Theron sono relativi anche alla dea Artemide, naturalmente, dea vergine, dea cacciatrice e guerriera, Signora degli animali.

Circe quindi rivela anche tratti amazzonici, oltre che afroditici oscuri.

Odisseo l’affrontò in seguito, sconvolto nel cuore, davanti al suo terribile potere, e l’eroe riuscì a sfuggire alla fine toccata ai suoi compagni solamente grazie all’aiuto del dio Ermes.

Quindi fece in modo di costringere la maga a liberarli e a restituirgli le loro sembianze umane.

E poi giacque con lei nel suo talamo per lungo tempo.

Circe è davvero un archetipo femminile oscuro e inquietante, una maga crudele e terribile.

Solo un uomo virile come Odisseo, re, eroe e valente guerriero, riesce a fronteggiarla, grazie all’aiuto spirituale del dio Ermes.

Parente stretta di Circe è un’altra donna fatale famosa dell’antica Grecia.

Si tratta di Medea.

Figlia di Eète, re della Colchide, e nipote di Circe, dalla quale apprese le arti magiche.

Con Medea ci troviamo di fronte ad un archetipo oscuro, in cui il carattere afroditico si esprime nella sua valenza negativa e stregonesca, come in Circe, con in più dei tratti di madre terribile.

Maga crudele, espertissima nell’arte dei filtri incantati, si innamorò perdutamente di Giasone quando l’eroe arrivò in Colchide insieme agli Argonauti alla ricerca del Vello d’oro.

Lo aiutò quindi nell’impresa, arrivando ad uccidere il fratello Apsirto, spargendone i poveri resti dietro di sé dopo essersi imbarcata sulla nave Argo insieme a Giasone, divenuto suo sposo, in modo da favorire la loro fuga.

Dopo dieci anni Giasone decise però di abbandonare Medea per Glauce, figlia di Creonte, re di Corinto, di cui si era innamorato.

Medea si vendicò inviando un dono un mantello avvelenato alla giovane Creusa, che la uccise fra strazianti sofferenze.

Stessa sorte subì il re Creonte, che toccato il mantello, ne perì.

Ma l’atroce vendetta della maga della Colchide non si fermò qui.

Nella sua Medea Euripide ci racconta che ella uccise anche i figli avuti da Giasone e ne divorò le carni.

Delitto turpe e orrido.

Il manifestarsi dell’aspetto della madre terribile in tutta la sua furia.

La maggior parte degli storici greci del tempo di Euripide, in ogni caso, negano che i fatti si erano svolti in tale modo, e raccontano che i figli di Medea, che ella non riuscì a portare con sé nella sua fuga, furono invece uccisi dagli abitanti di Corinto per vendetta.

Fuggita ad Atene Medea sposò poi re Egeo e infine tornò nella Colchide, dove si riappacificò con il padre Eète.

Queste sono fra le figure principali delle donne fatali nella Grecia arcaica.

Archetipi fascinosi e distruttivi che ancora trasmettono la loro forza inquietante attraverso le pagine dell’epica e della tragedia greca.

La civiltà indoeuropea dei micenei e degli achei regnò ancora per qualche tempo in Grecia, poi decadde e venne soppiantata dall’invasione di altri indoeuropei, i dori.

Dopo un’età buia dalla nuova civiltà nacquero grandi stati, come Atene, Sparta e Tebe.

Esse dominarono a lungo il paese, poi in seguito a feroci guerre reciproche, come la tragica guerra del Peloponneso, il dominio sulla Grecia passò al re di Macedonia, Filippo II, e a suo figlio Alessandro Magno, che in pochi anni conquistò un impero vastissimo, dall’Egitto, alla Persia al fiume Indo.

La civiltà greca aveva raggiunto il suo apice.

Il grande impero di Alessandro Magno, l’eroe e il conquistatore solare, lasciò il posto ai regni ellenistici, una civiltà colta, raffinata e decadente che diede di nuovo forza alle donne ginecocratiche.

Il mondo ellenistico conobbe infatti una forte emancipazione delle donne, che riacquistarono in poco tempo spazi e potere.

Calcarono la scena parecchie figure di regine ginecocraticheautoritarie, ambiziose, fatali e spietate, come Olimpiade, regina di Macedonia, moglie di Filippo II e madre di Alessandro Magno, Arsinoe II Filadelfo, regina di Tracia e di Egitto, sposa di Lisimaco, di Tolomeo Cerauno, suo fratellastro, e di Tolomeo II, suo fratello, e Cleopatra VII Tea Filopatore, regina d’Egitto, amante di Cesare, il grande eroe romano, e di Marco Antonio (21).

Sono donne che comandano, che impongono di nuovo la ginecocrazia sul patriarcato, che piegano l’uomo ai loro piedi, che uccidono o fanno uccidere, senza pietà.

Sono donne capaci di grandi slanci, ma anche di crudeltà orribili.

Sono donne “agitate dalle passioni sino all’estremo” (22).

Saranno loro a regnare nell’ultima fase dell’ellenismo, prima che le legioni romane pongano fine a quella civiltà.

Tratto da “L’archetipo della femme fatale e la crisi del patriarcato”, Fabrizio Bandini, Midgard Editrice 2014

Note

(1) J.J. Bachofen, Il matriarcato, Einaudi, Torino 1988, Libro I, p. 225

(2) Ibid.

(3) R. Graves, I miti greci, Longanesi, Milano 1983, 485 s.

(4) E. Minguzzi, Femminilità e femminismo, Alkaest, Genova 1980, p. 77

(5) Ibid.

(6) M. Gimbutas, Le dee viventi, Medusa, Milano 2005., p. 220

(7) E. Neumann, Storia delle origini della coscienza, Astrolabio, Roma 1978, p. 71

(8) J.J. Bachofen, La saga di Tanaquilla, ne Il potere femminile, Mondadori, Milano 1992, p. 200

(9) R. Graves, I miti greci, ed. cit. p. 488

(10) Cfr. Ta arkhaia, tempora ignota, M. Doni, Introduzione a M. Gimbutas, Le dee viventi, ed. cit, p. 5 s.

(11) M. Gimbutas, Le dee viventi, ed. cit, p. 179

(12) Ibid., p. 591

(13) B. Hughes, Elena di TroiaDea, principessa, puttana, Il Saggiatore, Milano 2007, p. 177

(14) Properzio, Elegie, Rizzoli, Milano 1997, p. 181.

(15) Omero, Iliade, Libro IX°, 339, Einuadi, Torino 1995, p. 305

(16) J.J. Bachofen, Il matriarcato, ed. cit., Libro I, p. 310

(17) C. Pavese, I dialoghi con Leucò, Einaudi, Torino 1947, p. 128 s.

(18) Ibid. p. 130

(19) Omero, Odissea, Libro X°, 136, Einaudi, Torino 1998, p. 267

(20) Cfr. a proposito E. Neumann, Storia delle origini della coscienza, ed. cit., p. 73

(21) Cfr. a proposito D. Tudor, Donne celebri del mondo antico, Mursia, Milano 1985

(22) Ibid., p. 13

L’eredità culturale di Pietro Golia – ANDARE AVANTI PER LA TRADIZIONE VIVENTE – Stefano Arcella

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Al suo posto di combattimento

E’ morto così com’era vissuto, al suo posto di combattimento: nella sua casa editrice, fra i suoi libri e i suoi giornali, nel mentre preparava nuove iniziative culturali. E’ morto facendo ciò che amava compiere, ciò cui aveva dedicato realmente tutta la sua vita. Hanno trovato le bozze di un testo a fianco a lui, le bozze che stava leggendo. Chi è stato nel pomeriggio di mercoledì, alla sede della casa editrice, ha vissuto un momento tragico, ma anche l’esperienza di un mondo che si ritrova e che vive.

Il nostro incontro

Lo avevo incontrato lunedì sera, 30 gennaio, presso la libreria Controcorrente. Pietro mi aveva comunicato la data della “grande presentazione” del mio ultimo libro e la conferma della disponibilità della sala. L'appuntamento successivo era per giovedìì 2 febbraio per esaminare la bozza dell'invito e ragionarci insieme. Pietro interpretava il suo ruolo di editore in un modo peculiare; non lasciava nulla all'improvvisazione, curava con attenzione tutti i dettagli, dalla scelta del titolo dell'evento alle immagini, ai simboli, fino al cromatismo. E quest’attenzione era un iter condiviso, elaborato, maturato insieme all'autore del libro, in un rapporto sempre diretto. Ogni evento, ogni testo, ogni invito stampato si caricava di una forte impronta di consapevolezza, maturata nella comune riflessione, nella discussione costruttiva, talvolta vivace, ma sempre feconda.

Ci conoscevamo sin dal 1972, nella militanza politica giovanile, quando lui era segretario provinciale del Fronte della Gioventù, ed io ero il fiduciario d'istituto del nucleo FdG al liceo Genovesi. Ricordo bene che già allora Pietro si distingueva per un modo diverso, più maturo e consapevole, di concepire la politica giovanile, con uno spiccato senso critico e una capacità d'attenzione e di profondità nel leggere i fatti e i “segni” dell'epoca; era una capacità che non s'incontrava facilmente, in un momento storico molto difficile, in cui si agiva spesso sulla base di spinte emotive, pienamente comprensibili, ma non sempre supportate dalla lucidità intellettiva.

1975: nasce la Libreria

Quando poi, nel 1975, fu aperto Controcorrente, il centro di diffusione libraria, io fui presente nel momento in cui veniva montata l'insegna della libreria, quell'insegna che oggi è un vero e proprio cimelio storico. Avevo vent'anni e per me, che ero molto sensibile al momento culturale della dimensione politica, quello fu un evento importantissimo, come lo fu per tutto l'ambiente dell'area non-conforme e di “destra” in senso ampio. Erano gli anni in cui si teorizzavano gli organismi paralleli, l'attenzione all'impegno culturale e si cercava di trovare una via d'uscita costruttiva alla logica degli opposti estremismi in cui il sistema cercava d'intrappolarci.

Pietro aveva compreso che non si fa una seria politica – nel senso più alto della parola, come politèia – senza un adeguato retroterra culturale, che significa studio, pensiero, creatività intellettuale, tutti elementi che danno respiro, spessore e indicano le linee di vetta di una battaglia politico-culturale.

Dalla libreria alla Casa Editrice

Ci incontravamo periodicamente in libreria (sono un bibliofilo sin da ragazzo), soprattutto dalla metà degli anni Novanta, per la favorevole concomitanza di due fatti nuovi: la promozione assidua dell'attività editoriale per cui Controcorrente diventava sistematicamente casa editrice e, quasi in contemporanea, la mia nuova sede di lavoro, presso la Biblioteca Nazionale di Napoli, che rendeva più agevole e frequente la possibilità d'incontrarci. Pietro spesso veniva a trovarmi in biblioteca, anche per le informazioni bibliografiche che gli interessavano e per i testi che voleva consultare e sui quali chiedeva il mio aiuto.

La svolta: I Misteri del Sole.

La svolta avvenne nel 2000, quando tenni una conferenza all'Archeoclub di Napoli (ospitato presso il Goethe Institut) sui Misteri di Mithra in età imperiale romana. Pietro venne ad ascoltarmi e, terminata la mia  esposizione, mi trasse in disparte e mi disse: “Stefano, tu non puoi sciupare una tematica così vasta e che conosci così bene in una conferenza. Devi scriverne un libro, un libro pensato bene e fatto bene. Penso io a pubblicartelo”.

Nacque così un sodalizio culturale ed un'avventura che è stata al tempo stesso intellettuale, esistenziale, umana, amicale; non si trattava solo di un “lavoro” in senso tecnico. I Misteri del Sole (2002) erano e sono tuttora (e lo saranno ancora di più in seguito) una ricerca interiore ed il mio rapporto con Pietro era giocato sul registro di una comprensione intuitiva. Il titolo fu una mia idea che Pietro approvò compiaciuto. “Esatto!” mi disse, con quell'aria gagliarda che sprigionava energia, l’energia di una figura carismatica. I contenuti del libro erano il frutto di un mio lavoro decennale, iniziato alla fine degli anni '80. La veste grafica, le foto, il cromatismo, tutto ciò era lavoro di Pietro. Lui mi disse che quel libro avrebbe avuto un futuro ed un suo forte seguito. Il libro ha suscitato molti apprezzamenti e di quell'argomento ho parlato per molti anni, nelle mie conferenze.

Poi curai e introdussi l'opera di Julius Evola La Via della realizzazione di sé secondo i Misteri di Mithra (2007), trasformando un opuscolo di trenta pagine della vecchia edizione del 1982 in un libro di 170 pagine, con l'appendice sul Rituale Mithriaco, che egualmente introdussi sotto il profilo storico-culturale. Pietro apprezzava molto lo studio serio, approfondito, scrupoloso, ove il senso della Tradizione quale richiamo interiore e l'attenzione ai miti ed ai simboli si coniuga con il rigore scientifico. E ci furono poi le prefazioni e i saggi introduttivi ai libri di altri autori, le interviste pubblicate in testi collettanei. Tutte esperienze che hanno lasciato in me una traccia permanente e un vivo ricordo.

Promotore culturale

Nei numerosissimi colloqui privati che abbiamo avuto nel corso degli anni, posso testimoniare che Pietro era severo, giustamente esigente nei confronti di chi proponeva le bozze di un suo libro in modo superficiale, improvvisato, pressapochistico. So di libri che non sono stati mai pubblicati perché l'editore non era convinto della qualità del testo, perché non era soddisfatto dell'accuratezza della ricerca. So di bozze di libri inizialmente impresentabili che sono stati trasformati, facendo maturare gli autori, grazie alla supervisione di Pietro e di chi collaborava con lui a sovraintendere con grande impegno alla limatura dei contenuti.

Pietro era capace di seguire tutto con grande attenzione. Egli era, incarnava lo spirito militante nella battaglia culturale per la Cultura della Tradizione che per lui non è – adopero di proposito il tempo presente – una rievocazione nostalgica e sterile del passato ma riscoperta di valori da vivere e attualizzare oggi e da proiettare nel futuro.

La Tradizione per lui è Tradizione vivente.

Misteri Antichi e Pensiero Vivente

Nel 2014, gli presentai il testo del mio ultimo libro Misteri Antichi e Pensiero Vivente; il testo che presentavo all’editore era impegnativo, trattandosi di un ampio excursus sui culti misterici del mondo antico e sulla possibile attualizzazione del retaggio misterico in forme e con modalità adatte al mutamento antropologico del ricercatore spirituale moderno.

Pietro comprese al volo che il mio pensiero, partendo dalla lezione di Julius Evola, si era aperto a nuovi orizzonti ed io stavo percorrendo una nuova via di possibile realizzazione interiore e non solo di orizzonte speculativo.  Nell'ultimo capitolo mi richiamo, infatti, alla lezione di Massimo Scaligero ed anche a quella di Rudolf Steiner, di Giovanni Colazza, di Pio Filippani Ronconi.

So che il libro ha suscitato discussioni – com'è bene che sia – e so con certezza (essendomi stato riferito da più fonti e da lui personalmente) che Pietro spiegava a tutti che “Stefano va avanti, Stefano non si ferma” e invitava tutti a leggerlo. Ho detto non a caso “a leggerlo”; non era solo la sollecitazione all'acquisto, ma proprio a soffermarsi e a riflettere sui contenuti perché Pietro non era soltanto un editore, ma un vero promotore culturale che credeva in ciò che faceva.

Centralità marginali

In quel momento (esattamente un anno addietro, febbraio 2016) Pietro dimostrò tutta la sua apertura mentale e la sua perspicacia che peraltro aveva già dimostrato quando, tempo prima, aveva accolto la proposta di Luciano Arcella, di pubblicare un libro collettaneo sulla metropoli come fenomeno mondiale con le sue aree marginali e propose un titolo capace di far trasalire tutto l'ambiente tradizionalista: "Centralità marginali. Cinque saggi di antropologia urbana”.

Pietro lo lesse e comprese tutta l'importanza e l'attualità di quella tematica. Il libro usci nel 2010(coi contributi di Luciano Arcella, Stefano Arcella, Carlo Gambescia, William Gonzales, Salvatore Santangelo), riscuotendo molti apprezzamenti, anche presso ambienti diversi, come, ad esempio, quello dell’Associazione Nazioanle Sociologi ove fu presentato su iniziativa del critico d’arte Maurizio Vitiello (benemerito promotore di molte mie conferenze).

Il libro fu anche presentato anche alla Biblioteca del Ministero dei Beni Culturali a Roma, nel settembre del 2011, in Via del Collegio Romano, ove Pietro parlò insieme a Gianfranco De Turris. E nel contesto di quel libro, io diedi un mio contributo, con un saggio su Santa Maria Francesca, la Santa dei Quartieri Spagnoli, dal titolo: “Un culto della fecondità nei Quartieri Spagnoli di Napoli fra religiosità popolare e degrado sociale”.

L’editore comprese pienamente e condivise l’attenzione verso un culto popolare e femminile di cui indagavo le radici antiche, precristiane, nella prospettiva di una diffusione della coscienza delle nostre tradizioni e dei retaggi antichissimi, addirittura arcaici, da cui esse traggono origine. Era una strada per riscoprire e riaffermare la Tradizione come tradizione vivente, concretamente storicizzata, attuale e proiettata nel futuro.

Iniziative meritorie

E’ difficile riassumere in modo esaustivo un’attività così intensa e variegata. Ricordo che fu Controcorrente a organizzare la presentazione a Napoli (febbraio 2008), insieme all’avv. Valerio De Martino, dell’ultimo libro di Filippini Ronconi “Zarathustra e il Mazdeismo”, o le conferenze con Marco Tarchi, o quella sull’esoterismo nelle canzoni di Lucio Battisti e Mogol, con Marco Rossi (allievo di De Felice), solo per citarne alcune.

Fondamentale è stato l’apporto di Pietro - unitamente all’impegno, altrettanto importante, di Edoardo Vitale, direttore dell’importante e storica rivista L’Alfiere - del famoso convegno annuale di Gaeta sulla storia del Regno di  Napoli cui hanno partecipato studiosi, scrittori, giornalisti, artisti di varia formazione, e i convegni a Palazzo S. Teodoro a Napoli, sempre sullo stesso filone.

E’ tutto un mondo, di idee, valori, revisioni storiografiche, elaborazioni culturali, ma anche una comunità umana, fatta di legami, amicizie radicate, ricordi, emozioni, dibattiti, iniziative.

Solo ora, nel mentre scrivo, mi accorgo di come e quanto Pietro abbia dato un impulso importantissimo nel creare tutto un mondo.

E quindi occorre allargare la prospettiva, per avere una visione d’insieme sulle “linee di vetta” del suo pensiero e della sua opera.

 

La lezione di Pietro Golia

Al di là del mio rapporto con Pietro Golia, di un comune itinerario esistenziale e intellettuale che è ormai parte integrante del patrimonio culturale di una comunità e di tutto un mondo, giova soffermarsi sul senso complessivo della suo impegno

.

Controcorrente - e Pietro Golia che né è stato il promotore e animatore per oltre quaranta anni  - è la storia della Cultura della Tradizione, della cultura identitaria e non conformista di Napoli, del Meridione, dell’Italia.

Pietro ha avuto il grande e indiscutibile merito di pubblicare autori importanti, italiani e stranieri, da Julius Evola(ricordo gli Ultimi scritti con introduzione del compianto Gabriele Marzocco) a Pino Rauti, da Alain De Benoist ad Alexander Dugin, alla monumentale opera di Solgenitsin “Storia degli Ebrei in Russia”, fino al filosofo neo-marxista Costanzo Preve.

E poi la feconda letteratura, con numerosi Autori, di revisionismo storiografico sul Risorgimento, sul Regno delle Due Sicilie,  sulle insorgenze cattoliche e controrivoluzionarie del 1799, sul cardinale Ruffo, sul Sanfedismo, sul cosiddetto “Brigantaggio”dopo l’unità d’italia, del quale  ha rivalutato le motivazioni culturali e sociali.

Pietro aveva capito che un popolo inteso come comunità di destino, come senso del “noi” comunitario, può esistere solo a partire da una consapevolezza  della propria storia e delle proprie radici. In una parola: della sua Cultura, nel senso spengleriano della Kultur, della civiltà organica.

 E tale consapevolezza presuppone lo studio, la lettura, l’esercizio di un pensiero perspicace, dinamico, agile, penetrante. Un pensiero libero e spregiudicato, anticonformista. Un pensiero controcorrente, che non caso era il nome della sua casa editrice. La Kultur presuppone anche unità di pensiero e di stile di vita, valori incarnati, inverati e vissuti nel quotidiano, nelle azioni e nei fatti.

Per circa mezzo secolo Pietro - e la sua Controcorrente - è stato un punto di riferimento, di dibattito, di creatività, di elaborazione culturale e  di azione costruttiva,  nel solco della Cultura della Tradizione.

E il messaggio che ci lascia in eredità è quello di non fermarsi, di continuare la sua battaglia.

Nel mentre scrivo queste righe, mi risuonano nella mente e nel cuore le parole con le quali spesso mi salutava, al termine dei nostri colloqui, con quella sua Vis di trascinatore: “Stefano! Andiamo avanti, per andare più avanti ancora! ”

Ed io, scherzosamente, gli rispondevo: ”Purché andiamo avanti in vita, altrimenti sembra una cosa lugubre ….”.  E lui sorrideva.

E so, sento che, dal mondo superiore in cui ora si trova ora, sta vedendo questo scritto e  mi sta dicendo “Esatto!”, con quella sua aria gagliarda, unita a un sorriso di bonomìa partenopea.

  Stefano Arcella  

Vie della Tradizione – n° 170

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Il nuovo numero di Vie della Tradizione, la più celebre ed importante rivista del tradizionalismo italiano. Oltre gli ottimi saggi, recensioni a cura di Manlio Triggiani, di Luca Valentini, di Antonino Sala sulle nuove pubblicazioni di Giandomenico Casalino, Maria Fiammetta Iovine, Stefano Arcella, Gianfranco De Turris, Tommaso Romano.

Il Sentiero degli Ariya secondo Roberto Incardona e considerazioni sulla Tradizione Romana – Stefano Sogari

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(Intervento nell’ambito della manifestazione “Evola, tra Ascesi e Teurgia”, alla Libreria Ibis di Bologna, Febbraio 2016, nell’ambito della presentazione dello speciale di Vie della Tradizione)

Cari intervenienti in questo dibattito, tale voglio che sia concepito, siamo qui per ri-presentare una opera fondamentale del cammino dell’uomo o donna che si interfacciano nel Mondo della Tradizione, intesa in questo caso come ricerca spirituale nel solco delle fonti della propria identità profonda ed ancestrale. Il testo in esame fu già lanciato, oramai molti anni or sono, forse una generazione fa, in un impeto di attivismo e di coraggiosa ricerca spirituale e sapienziale non disgiunta dalla volontà eroica di riaffermare valori, principi, modalità di vita che non e esaurissero nella mera intellettualità e studio ma che fossero Vita e Azione nel mondo coevo. La Via al Sacro, la Via eroica, la Via degli Ariya e quindi la Via dei Nobili non solo di sangue ma di Spirito, l’Aristocrazia di sangue e di spirito di cui parlano i nostri illustri predecessori, coloro i quali riportarono a terra concetti metastorici di cui i popoli mai cessano, quanto meno nelle nicchie che ne rappresentino le forze migliori, di abbeverarsi, sempre nei periodi in cui essi siano lucidamente anelanti all’Origine del proprio Ethnos ed Ethos. Abbiamo ben nota la grande Teoria delle origini Arie della civiltà europea, origini confortate da autori come Dumezil giungendo al De Benoist, passando per l’irrinunciabile opera di Evola quando ci illustra in varie opere il significato profondo del termine “Ariya”, significato che trascende il puro dato etno-razziale, pur importante sul piano della genesi dei popoli e del relativi destini, per segnalare le qualità profonde di uno stato umano e di elevazione spirituale in tempi quali quelli che noi viviamo oggi, tempi diversi molto da quelli che lo stesso Evola visse nel suo contesto di vita. Tempi diversi ma vicini, se vogliamo, dato che alcuni semi di disgregazione allora identificabili ed analizzati dall’opera del Barone e dai suoi successori si sono poi inverati in maniera ben visibile e materialmente tangibile. Per questo un testo come quello di cui discettiamo e facciamo analisi e giusta autocritica, oggi, non poteva che essere più decisamente indicato per la missione che l’autore ed il suo sodalizio si erano proposti di soddisfare, a giusto compimento di vita presente e futura.

E noi? Cosa stiamo facendo oggi qui? Decisamente facciamo, a nostro modo e con spirito gioioso, eretico, curioso, guerriero la nostra parte del Tradere un messaggio e nel riportare un contenuto frutto di esperienze e di conoscenza ma anche di valutazioni dato che non siamo alieni dalle nostre vite e dato che ogni Idea si mette a terra plasmando, o venendo plasmata, dal nostro substrato saturnio e materiale, prima che si sia in grado di filtrare l’I-dea stessa in modo da trarne uno sviluppo che si faccia realtà tangibile. Penso che sia questo il fine ultimo dell’autore Roberto Incardona che sappiamo essere stato un fondatore della grande esperienza del Movimento Tradizionale Romano e che, tutt’ora vive la sua esperienza nel nome della Tradizione da ricercatore ed attualizzatore. Una domanda che l’autore ha posto a sé stesso, prima di porla ai lettori di allora e di oggi, in modo coerentemente diverso se analizziamo contenuti e premesse del saggio, è proprio questa: “noi chi siamo oggi? Dove viviamo oggi? Cosa possiamo fare oggi?”. Ma cari sodali e signori io interpreto e rilancio: “quali sono i nostri limiti, OGGI?”. Si, un soldato, anzi un guerriero come PFR nella nota intervista ci disse, non molti anni fa di ritenerci fortunati e di vivere con il giusto spirito l’epoca che giudichiamo grama e malefica:

Ora, è grande fortuna per noi trovarci in quello che gli Indiani chiamano il Kali-yuga, cioè l’epoca - yuga - della caligine - kali vuol dire l’oscuramento nella caligine totale. Perché? Perché noi dobbiamo attuare quel miracolo che i sapienti antichi non potevano attuare perché essi si trovavano in un mondo spirituale. Mentre noi ci troviamo immersi nel mondo più duramente materiale, più brutalmente, direi non soltanto subumano, ma subanimale. Quindi, noi abbiamo il compito che è il compito più arduo, che è il compito del moderno uomo di Occidente." (Pio Filippani Ronconi, in una ben nota intervista giornalistica a Stefano Arcella del 23 Dicembre 2010, Positano News).

Signori e sodali tutti, la chiave di tutto è qui e se non comprendiamo questo non comprendiamo il testo né nella accezione del messaggio originario e neppure nell’accezione del messaggio odierno alla luce delle giuste revisioni e ristrutturazioni della proposta che il nostro sodale Roberto, assieme al curatore Luca Valentini, ci stanno segnalando. Noi dobbiamo trasmutare noi stessi e la nostra materia bruta e infestata di pensieri larvali, chi più o chi meno, e limitazioni che i Fati ci hanno messo addosso come dei lucchetti, in occasioni di lotta e di Risveglio. Noi abbiamo delle possibilità me le dobbiamo coltivare e dobbiamo, in buona parte e salvo studi di un certo tipo, riscoprire ciò che è in nostro potere fare per tornare ad essere Ariya, dato che solo una pubblicistica di tipo para-razzista dozzinale può pensare che basti essere un uomo nato in una Matrice occidentale di razza caucasica per avere delle doti innate che lo rendano virtuoso, nobile, umano nel senso di “Vir” e non di mero Homo. L’argomento è complesso, difficile e molto strutturato e meriterebbe uno studio e dei convegni a parte ma non si sfugga al dato che senza un germoglio di ciò che alcuni di noi hanno dentro, germoglio che vivifichi tutti i lati del nostro essere anagrafico trascendendo su piani superiori e metaindividuali, nulla abbiamo in più di un qualsiasi “barbaro”, uso il termine in senso classico e antico non per adeguarmi a parametri odierno-borghesi estranei al nostro consesso.

Non per nulla fu lo stesso Pio Filippani Ronconi a definire dei consigli, nelle note conversazioni con l’Ass Fons Perennis, in merito all’essere “romani” oggi e quindi, di converso, ad essere Ariya in Italia, essendo noi Italiani con una missione storica nazionale ma soprattutto Universale. IL ritorno alla cura di sé, dei propri modi, della propria dinamicità sportiva e quindi piccoli e semplici accorgimenti come il coltivare anche il piacere di escursioni, camminate, marce quando non sport da combattimento ed arti marziali. Il piacere di riscoprire noi stessi sia nell’impegno fisico che nell’attività di meditazione, il meditare ed il contemplare: due concetti strettamente collegati seppur non meramente sovrapponibili ma ineludibili. Questo, se vogliamo, è il nocciolo del testo che ci illustra una Via di Realizzazione nella pratica, che è fisica quanto spirituale, delle discipline Yogiche e quindi nella riscoperta della Tradizione con un crisma di regolarità visibile solo in alcune pratiche tradizionali ancora operative e reperibili. Qui si consuma, forse, lo iato testuale con quella che fu la proposta del mondo tradizionalista in origine, nell’idea dell’autore e nelle analisi circostanziate di molti partecipanti a quelle esperienze: l’idea che un mondo storicamente determinato e, sicuramente, luminoso nel suo messaggio di Civiltà si possa recuperare e riattivare con mezzi di tipo cultuale e religioso ed in forma devozionale, secondo altri. L’autore con coraggio e determinazione oppone una revisione di quella proposta, confermando alcune analisi del curatore del testo che si sommano all’autore medesimo in una, sostanziale, presa di distanza da quella che fu la pretesa di riattivazione di un culto vero e proprio, basato su fonti e studi archeologici, finalizzato alla riattivazione della civiltà del ciclo romano passato. Siamo tutti consapevoli della difficoltà e della impossibilità a mettere una parola finale ad un dibattito simili, nella buona fede dei vari opponenti ma il testo, lo ripetiamo, va letto e meditato in quanto non viene da una fonte critica ma da un partecipante alla rinascita della Via Romana agli Dei.

Il testo, lo ripetiamo, è denso di riferimenti e di confronti in specie sul piano della analisi della eternità dei lasciti sapienziali delle opere vediche e delle Upanishad, come sappiamo bene essere eterno il messaggio eroico e sacrale di Arjuna nel suo dialogo con Krhsna. Ma non mancano avvertimenti a quella che fu la presa di coscienza di molti quando si resero conto, sostanzialmente, che la giustezza della Via Eroica proposta da Evola, per attualizzare il Simbolo Romano e la Pax Deorum non è appannaggio di uomini qualsiasi, pur degni o qualificati, ma missione di Risvegliati di cui, onestamente, mancano le tracce nei tempi odierni ed ultimi. Per questo l’autore del testo rivede alcune opzioni proposte sul piano della riattivazione della Religio per spostare l’ambito della Via al Divino nel solco della Via Ascetica, della Realizzazione attraverso strumenti che godano di crismi di regolarità tradizionale ed iniziatica che mancano, attualmente, ad esperimenti autoreferenziali con velleità autoiniziatiche. Proprio nella stesura di questo intervento mi sono venuti in mente due esempi relativi proprio alla Romanità storica.

Nel primo esempio abbiamo il caso dell’esperienza di “devotio”, non corrispondente alla ben nota  devozione moderna:  la devotio era il massimo esempio di realizzazione divina in terra, tramite una ascesi eroica che ricorda quella delle esperienze nipponiche in campo Bushido. Il noto cavaliere ed eroe Publio Decio Mure si sacrifica e ristabilisce un ordine sovrano tra Terra e Cieli; ordine che era stato violato o che si era deteriorato per questioni cicliche tanto dal causare il rischio di una rovina militare. E’ ben nota la vicenda del cavaliere romano  che, quando si aprì un abisso nel foro romano da cui emerse una voce richiedente ai Romani l’esperimento di un sacrificio di quanto più caro avessero, senza pensarci un momento si lanciò completamente armato, nella voragine che si rinchiuse immediatamente. Questa era la devotio, esperienza che si ripetette in varie occasioni, un sacrificio di sangue radente il suicidio, esperita dal Console o da un Alto Ufficiale, secondo cui il sangue versato avrebbe richiamato il patto sinallagmatico tra gli Dei e la Comunità. La stessa nascita di Roma ha origine nel sacrificio di Remo, a seguito di un duello dalle caratteristiche sacre; per questo l’autore del testo ricorda a tutti che ciò di cui si parla nelle opere di Evola quando si parla di Via o Ascesi Eroica non è un fattore ripetibile se non tramite azioni estreme e tipi umani più che differenziati e qualificati, alla luce di conoscenze e coscienze sovraumane oggi latitanti anche per cause di Forza Maggiore ma, in ogni caso, non riassumibili in esperienze meramente archeologiche o archeosofiche. Aggiungeremmo che l’autore, facendo riferimento a Guenòn non esclude la Tradizione in senso di ricollegamento ad un’esperienza storica definita ma la riconferma, al contrario, andando alle dottrine ancestrali dell’Origine, dell’Essenza, del Risveglio secondo quelli che non sono dettami fideistico-religiosi ma tecnico realizzativo (l’esperienza dello Yoga e del PranaYama dall’autore indicate come metodo e come riscoperta del Sé ).

Da un lato, occorre dirlo, alcuni richiamano questa necessità di andare “oltre” gli stigmi spazio-temporali e i crismi di regolarità iniziatica storicamente accertabile, ma chi fa questo ignora una semplice osservazione di Guenòn, sul piano metafisico: « Colui che non riesce a sfuggire al punto di vista della successione temporale è incapace della minima concezione d'ordine metafisico. »(René Guénon ne La Metafisica Orientale, ma si guardi anche “Tempo ed Eternità” di A.K. Coomaraswamy.). E cosa occorre per sfuggire al soggiacere del tempo e della sua inesorabile azione erosiva? Sicuramente il ricollegarsi con ciò che supera il dato dello sgretolamento spazio-temporale e la ricerca di ciò che è Eterno, A-temporale, invincibile in quanto ancora in fase operante e reperibile, ciò che ci riporta all’Origine ma che è vivo e fruttificante oggi. Differentemente si esce dall’ordine della Metafisica e si rimane nell’ordine della ripetizione manieristica, dell’Accademia, dell’Arcadia barocca, del compiacimento e della psicoterapia di gruppo, senza scendere in termini di tipo più severo usati dall’autore. Si concordi o meno il testo riparte dalle origini dell’esperimento di cui l’autore fu compartecipe per sancire delle correzioni di tiro notevoli e delle coraggiose revisioni metodologiche e concettuali, non partenti da analisi di mera opportunità teorica ma da concrete realizzazioni pratiche e da costatazioni severe. Fondamentalmente in questa analisi e nelle sue conclusioni, come anche nella introduzione alle discipline di tipo iniziatico che l’autore propone per riprendere un cammino nel mondo del Sacro in nome della Via di Realizzazione non si può omettere di capire che il nucleo di ogni proposta di ignificazione e di nobilitazione del soggetto, della persona che voglia uscire dall’anonimato e dalla mediocrità è la ripresa di semplici ma chiari aspetti di pratica e di dottrina quali la citata meditazione e le forme di alchimia spirituale che, sin dall’inizio, animarono interpreti attivi e consapevoli in tempi diversi dai nostri.

La stessa meditazione sul Sé e sul mondo e la contemplazione del Sole e di ciò che esso illumina non sono fughe dal reale ma immersioni nel reale, solo che ne costituiscono una più viva coscienza di pensiero e di azione che riportino dentro di Sé e non fuori da Sé il fuoco formatore di un’esperienza sacra e spiritualmente evolutiva. L’esempio è classico e semplice in quanto rimanda ad azioni di purificazione, che il testo descrive e sviluppa, e di implementazione della presenza di Sé nel Cosmo, quindi nel proprio Microcosmo per comprendere energeticamente il Macrocosmo in cui siamo immersi, non estranei ma in distonia costante dato lo stato iniziale da rettificare. Se analizziamo gli insegnamenti sacri delle Tradizioni operanti, quando non inquinate, avvelenate, depotenziate e corrotte o sgretolate da moralismi modernisti, questa è la prima e , forse, unica consegna: il Ritorno del Sé nell’Uno e la rettificazione dell’Io anagrafico in una reintegrazione che annulli il concetto dualista di Essere.

La Gnosi

Alla luce di tutto ciò non riteniamo possibile la riedificazione di una persona, di una comunità umana, di un’azione sovra-individuale senza la coscienza di essere noi stessi discepoli di una Scienza Sacra cui adire per iniziare un cammino non disgiunto da ogni forma attiva e concreta nel modo reale, financo un mondo fatto di battaglie materiali. La materia è tanta che non basta certo un convegno o dieci convegni, ma proviamo a pensare a quanto la nostra "passione" nell'ambito spirituale e filosofico ci spinge a combattere quanto, troppo spesso, a confonderci. Spesso e volentieri le passioni sono  l'aspetto negativo che nutrono la parte animica dell'uomo e tutto ciò che ci ostacola nella lucidità financo razionale con tutti i carichi di frustrazioni, aspetti materiali, ire funeste, legami egoici, estremismi autoreferenziali, aberrazioni animalesche. Marco Aurelio ci ha scritto pagine potentissime in merito indicando la vera Via del Guerriero, in un’epoca dove i Misteri si confondevano con le superstizioni, purtroppo, e quindi in un periodo in cui le migliori Menti della Romanità scelsero di ripartire dalla Virtù, dalle sapienze Storiche, quando non dalla coltivazione dei Misteri di cui oggi, purtroppo, abbiamo perso il filo. Cosa sappiamo di quel periodo e di quegli insegnamenti? Che un lavoro interiore ed esteriore possono portare ad una crescita spirituale non disgiunta dal “retto agire” di cui ci illustra i dettagli la parte del testo sull’Ottuplice Sentiero della Via Buddhista. Questo, parafrasando Seneca, per non dimenticarci chi siamo e quindi non uscire dal mondo ma, unicamente, per dominare il mondo vivendolo senza, però, appartenergli; non per nulla alcuni autori parlano della Vita come una sorta di scacchiera gestita da potenze superiori che giocano con noi, usandoci.

Se non giochiamo insieme a queste potenze la nostra parte, attivamente e con un processo di cognizione, noi pensiamo di essere liberi ma siamo, unicamente, pedine in preda a illusioni casuali o  capricci di forze di segno opposto. Per questo Seneca ci parla di distacco dalle passioni e dominio delle medesime ma sempre in un quadro di vita contemplativa e coltivata dalle Arti e dalla Sapienza come dalle pratiche virtuose, incluso quelle fisiche e marziali. Vivere ciò vuol dire vivere in modo sano il piacere e l’azione e perseguire anche un progetto di ascesi eroica senza che essa diventi alienazione o, appunto, volgare barbarie.  "il contemplativo non può contemplare senza essere contemporaneamente attivo, l'attivo, a sua volta, non può agire senza contemplare l'oggetto del suo agire, e il gaudente, che tutti giudichiamo male, non cerca un piacere inerte, cerca un piacere attivo e duraturo, che solo per via della razionalità può rendere tale, fissandolo dentro di sé in una continua contemplazione".(Seneca).

Il testo entra nello specifico di tecniche di meditazione e purificazione proprio per dare indicazioni sul lavoro di sublimazione delle passioni  le quali vanno ad essere ignificate dalle pratiche, dalla concentrazione, dal pensiero rettificato e quindi diventano passioni disintossicate che possono servire a fornire un carburante alla propria azione, non potendo essere privi di sentimenti passionali che ci diano “spinta ideale”; si pensi all’acqua che tempera il ferro incandescente nel lavoro del Fabbro, una vera sublimazione di solido verso il gassoso. IN tal modo l’azione, inastata come una baionetta sulla canna di un fucile, eleva l’animo rendendolo acuminato e tagliente. In tal modo sarà possibile l’elevazione spirituale, in un quadro umano dominato non da passioni sgangherate ma da un animus razionale (non manchi mai lo specchio della Ragione su ciò che si riflette nel proprio vivere) e tranquillo. Nondimeno si pensi alla conoscenza metarazionale non come una sorta di uscita dalla Norma-lità ma come ad un Superamento e Implementazione di capacità umane e razionali: un “quid pluris” che non può sostituire il basamento umano e animico che si istruisce e si apparecchia all’azione di superamento del proprio Sé .  L’infraumano non passerà mai al Sovraumano se non transitando presso il primo strumento che ci è stato dato a disposizione per lavorare: la nostra Umanità, il nostro corpo e la nostra coscienza saturnie, tramite le doti mercuriali di pensiero e riflessi. Solo allora si potrà adire ad una attività di ricerca del proprio stato di Ariya, solo allora la mistica contemplazione non si perderà nei meandri del Misticismo, solo allora la sublimazione non si muterà in gassificazione della coscienza ma in elevazione di sentimenti puliti e corretti. IN questo caso avremo un uomo che si comporta come un  VIR...un virtuoso, che si basi sull'ETICA, che sia di esempio e che illumini una strada per altri. Tornando al testo, da cui non vogliamo uscire di traccia, l’autore non ci porta mai fuori da un assunto e cioè che la la verità metafisica è eterna e che quindi, andando ad un altro punto di discussione molto dibattuto nel mondo tradizionalista, per ardire a delle vette di conoscenza di quella dimensione bisogna, necessariamente, fidarsi dei lasciti di coloro i quali hanno saputo travalicare i limiti della conoscenza umana e razionale. E’ molto probabile, usando questo termine non si fa del relativismo ma ci si prova ad immedesimare in un ricercatore del Sacro che inizi dei percorsi in umiltà, che differenti epoche abbiano lasciato lasciti comuni ed un cordone dorato con il mondo della Metafisica e della Sapienza.

Ovviamente sono cambiate e cambiano, dinamicamente, le forme esteriori tramite mezzi contingenti coevi ed adatti alle realtà ed alle frequenze dei Messaggi e dei Messaggeri che la Divinità, l’Uno e quindi il mondo dell’Essere Universale ha sempre inviato agli uomini per accordare la sua Norma alla norma degli uomini che ne ricercavano gli scampoli.  Sono, infatti, venute meno alcune condizioni particolari, altre sono ancora possibili, altre si debbono costruire ma è chiaro, come da corpo del testo che la mera ripetizione di pratiche e spezzoni di epoche passate non possono garantire un’Ascesi o una Iniziazione se non a costo di Vie definite “brevi” o “brevissime” assolutamente indicate per singoli individui e non per scuole, accademie, forme sacrali e persone “normali”. Una Via è tale in quanto percorribile, altrimenti si parla di altro cui noi non neghiamo l’esistenza ma di cui non concepiamo la diffusione al di fuori di personalità ben specifiche o di contesti sperimentali di cui ci si prende tutte le responsabilità del caso.

Questo assunto ci permette di capire come mai esistono molteplici forme  ma anche molti legami comuni nella dottrina, in epoche e popoli diversi tra di loro, per questo percepiamo la sostanziale unità dell’Essere e ricordo dell’Essenza ma anche la possibilità di analizzare molteplici stati di manifestazione e vie di approccio. Per questo il testo ed il sodalizio umano che in esso vi si riconoscono, pur in assenza di dogmatismo, non ritengono impossibile la conoscenza metafisica, e la dottrina di realizzazione, oggi ed in questo mondo; solamente che, in pratica ed in termini di fatto, si ritiene che tale pratica e afflato sapienziale e spirituale (al di là dei gradi di conoscenza e di cognizione spirituale che si vogliano raggiungere) si debbano poggiare sull’analisi impietosa del mondo delle attuali condizioni , alcuni le chiamano “contingenze”, ove si viva. Per cui diventa impossibile pensare che le condizioni odierne siano simili, magari ovviate da qualsivoglia forma di teoria o pratica, alle condizioni di epoche totalmente diverse dal mondo di oggi.

Noi oggi, Italiani in un mondo occidentale moderno ma anche Italiani nell’Italia di oggi, non possiamo prescindere dalla impietosa analisi dell’ambiente in cui viviamo e quindi possiamo riferirci solo a ciò che abbia una, qui ritorniamo alla tesi del testo nella sua accezione recente, assenza di qualsiasi appoggio fornito dall’ambiente, verificata linearità iniziatica e tradizionale secondo le proprie qualificazioni e tendenze ed anche secondo i dati che i Fati pongono sulla strada del ricercatore.  Questo, ovviamente, se parliamo di temi legati all’iniziazione su cui non ci soffermiamo in questo specifico intervento ma tratteggiando un argomento che sarà trattato da altri autori e relatori in questa ed altri eventi collegati. Iniziazione deriva da Inizio come Tradizione deriva da Tradere ( a volte anche Tradire ma si andrebbe all’analisi di ciò che Nietzsche teorizzò e praticò in vita fino alle estreme conseguenze ma con luminosa chiarezza), al contempo senza chi definisca un “inizio” e chi ne abbia ben chiare le chiavi si può solo propiziare un ritorno aureo di un Eroe, di un Nuovo Iniziatore che dia la ripartenza all’epopea di una civiltà specifica e di una missione storica che noi non consideriamo conclusa ma di cui conserviamo, attualmente, solo alcuni elementi in attesa di una nuovo impulso dal mondo celeste. Questo perché :“Per l'uomo della Tradizione, rivolgersi verso il passato e non verso l'Alto significherebbe voler bere allo stagno, potendo invece bere alla fonte."(Gruppo dei Dioscuri, fascicolo Rivoluzione Tradizionale e Sovversione). Quindi non si parli di mera attesa messianica ma di propiziazione, nelle forme opportune che ci sono date, di un Nuovo Inizio sul piano politico ma, consapevolmente, cercando di essere degni di questa missione re-iniziando il nostro microcosmo per ripropiziare la Milizia che dobbiamo incarnare per riattivare l’Imperium interiore.

Concludiamo questa relazione di presentazione del testo con una piccola citazione che ci permettiamo di meditare, lasciando ad ognuno le sue conclusioni:

"Anche la religione romana conosceva l'esistenza di un DIo Supremo non manifestato e che pertanto non poteva essere nè pregato, nè tanto meno raffigurato e neppure nominato in alcun modo: tale consapevolezza era ovviamente e giustamente dei soli grandi sacerdoti che lo chiamavano "il Dio Sconosciuto" ed è chiaro quanto tale formulazione esprima.".

(O. de' Rampazi, ESSERE UOMO, p. 113, Edizioni Settimo Sigillo)

   

Ipazia di Alessandria, martire gentile – Giuseppe Barbera

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Chi era Ipazia di Alessandria? E' questa la domanda alla quale vuole rispondere il presente articolo. Ultimamente questa donna del passato (fine IV - primi V sec. e.v.) è stata strumentalizzata dalla politica di sinistra come martire del femminismo e dell'ateismo scientifico sfrenato. Ma Ipazia non era una donna che rifiutava di mettere il velo, come riportano alcuni siti internet male informati che non sanno che all'epoca in Egitto ancora non esisteva l'Islam (come in nessun altro luogo del mondo) e che, in epoca romana, le donne già indossavano il bikini come mostrano i mosaici di piazza Armerina. Neppure era una scienziata alla maniera di Margherita Hack. Ipazia era una insegnate del Serapeo di Alessandria: ciò implica moltissime cose che qui spiegheremo. Né era vergine perché rifiutava di essere sottomessa ad un mondo maschilista: ella era una sacerdotessa vergine del tempio terapeutico e come tale praticava lo studio della medicina sacra e dell’astronomia per identificare i migliori momenti per le operazioni sacerdotali, proprio come si faceva nel resto dei santuari di tutto il mondo. Santuari che si mantenevano con le rette degli studenti, particolarmente verso la fine del mondo antico, quando oramai lo stato (cristianizzato) non sosteneva più le accademie ed i templi.

Innanzitutto spieghiamo perché le scuole scientifiche, di istruzione accademica e superiore, nel mondo antico si conservassero in prossimità di Santuari. Non a caso Aristotele fondò la sua scuola nel santuario di Apollo Liceo, non a caso nell’antico Egitto le scuole scientifiche si trovavano all’interno dei santuari.

I maestri delle accademie[1] spesso erano filosofi, termine che non implica semplicemente di essere dei pensatori, come intendiamo in epoca contemporanea: quasi sempre i filosofi erano sacerdoti o uomini iniziati a culti misterici, i quali tramite la sacralità scientifica dei culti pre-cristiani (che tutto erano tranne che forme di superstizione, a differenza delle attuali religioni abramitiche) indagavano la natura delle cose in cerca della Verità Assoluta. La qualità scientifica dei culti antichi della nostra stirpe (quelli greco-romani, italici e mediterranei) viene confermata dalle più evolute teorie scientifiche attuali che altro non fanno che ricalcare le conclusioni della Teogonia di Esiodo e di quelle espresse da Ermete Trismegisto nel Corpus Hermeticum[2]. Lo scienziato dell’epoca antica, per avere una visione oggettiva delle cose e non influenzata dalle proprie fantasie, aveva spesso intrapreso un percorso spirituale per l’abbattimento dell’ego a favore di una visione lucida, razionale e coscienziosa: Pitagora, maestro pontificatore della Magna Grecia, fondò le scienze matematiche organizzate ed i suoi discepoli spirituali erano tutti grandi iniziati e matematici, sia uomini che donne. I discepoli di Socrate, quali Platone, Alcibiade e altri, erano iniziati ai misteri Eleusini: nota l’accusa di parodia dei medesimi fatta ad Alcibiade per averli replicati in casa sua. Macrobio era iniziato ai misteri mitraici ecc. ecc.

Aristotele crea la sua scuola nel tempio di Apollo Liceo perché sia un luogo di luce che abbatte l’ignoranza selvaggia così come il dio caccia e abbatte il lupo.

Le scuole mediche erano inserite in santuari terapeutici prevalentemente dedicati a divinità come Esculapio, Salus, Serapide ecc.

Dunque vi era una profonda connessione tra il sapere scientifico, la religiosità greco-romana e quella ellenistica (il Serapeo di Alessandria venne eretto in epoca ellenistica): questo perché la religiosità classica non aveva dogmi[3] ma si adattava alle scoperte e innovazioni scientifiche. Le religioni abramitiche[4], che invece vivevano di dogmi e menzogne, distrussero tutto ciò che esisteva di buono e sano per diffondere il loro odio travestito da amore: è di San Cirillo di Alessandria la richiesta di “distruzione della sapienza pagana”, infatti questa dimostrava le falsità di una religione nuova che nulla aveva a che fare con le religioni precedenti: quindi il problema non è che le religioni spesso si rivolgono contro la sapienza e le donne, come scrivono alcuni strumentalizzatori politicamente schierati, la verità è che le religioni abramitiche si sono sempre scagliate contro il paganesimo perché aveva una valenza scientifica: infatti Ipazia, Bruno[5], le accusate streghe del medioevo, i sacerdoti della tarda antichità e tanti altri non vennero perseguitati ed uccisi dai cristiani perché liberi pensatori, ma perché apologeti del paganesimo che è panteista.

Agli oppositori di tale verità ricordiamo che Ipazia era figlia di Teone, rettore del Santuario: il quale era un altissimo titolo sacerdotale e non un appellativo laico scientifico.

Il fatto stesso che Lei insegnasse nel santuario del padre implica che praticava tale culto, del resto tutti i neoplatonici (ed Ipazia era una neoplatonica) erano praticanti gentili (gentili è un appellativo per indicare quelli che oggi chiamiamo pagani, si dice gentili perché praticavano il culto delle “gentes” greco-romane) impegnati nella rivalutazione della Tradizione contro le accuse infamanti dei cristiani che volevano creare confusione con le loro menzogne, tra le tante:

  • che la cometa era segno della venuta di Cristo figlio di Dio (non è così, la cometa passa alla morte di Cesare e viene interpretata dal Senato come presagio della divinizzazione di Cesare, infatti viene scolpita nel timpano del tempio a lui dedicato nel foro e coniata nelle monete da Augusto per sottolineare che Lui era figlio di un dio e quindi un degno imperatore);
  • che Cristo era venuto tra gli uomini per insegnare l’Amore ed il perdono e ne era il primo a parlarne al mondo (se fosse stato così i cristiani non avrebbero perseguitato con odio i pagani, non si sarebbero odiati tra loro con continue lotte intestine, non avrebbero operato per l’abbattimento dell’impero romano; inoltre è Romolo che porta l’Amore tra gli uomini fondando una città che sia riflesso dell’Amor, ovvero Roma, la quale identifica nella costruzione del diritto e nella diffusione della giustizia e nella tutela delle differenti etnie l’Amore per le diverse società umane; inoltre Roma si popola con l’asilo di Romolo, il quale PERDONA le colpe dei crimini purché ci si impegni nella costruzione di una società giusta e corretta);
  • che Cristo era un personaggio storico e non inventato da Paolo (invece prima dell’80 e.v., data dell’evangelizzazione di Paolo, nessuno ha mai menzionato l’esistenza né di Cristo né dei cristiani, tanto più nel De Bello Giudaico di Giuseppe Flavio, dove sono menzionate tutte le sette operanti in Giudea al 70 e.v., anche quelle con soli tre seguaci, non compare l’esistenza di nessun Cristo e neppure un cristiano e tutti i documenti contenenti i censimenti degli abitanti dell’impero vennero scientificamente distrutti per cancellare le prove della non esistenza del Cristo, ecco perché bruciavano qualunque biblioteca e qualunque archivio storico).

Aggiungiamo che Lei era a capo della scuola alessandrina, ed il fatto che le donne nel paganesimo potevano avere ruoli importanti, mentre il cristianesimo le voleva completamente mute e sottomesse al suo sistema, poteva creare un allontanamento di parecchie devote, pertanto la sua figura era considerata scomodissima.

La scelta della verginità e di non sposarsi non era dovuta al fatto che una donna sposata, in epoca antica, non potesse studiate: Teano, moglie di Pitagora, era sposata e studiava. Semplicemente nei culti  terapeutici ( e quello di Serapide era un santuario terapeutico) si poteva scegliere di praticare la castità quando si accedeva al sacerdozio per incanalare le energie creatrici della vita (quelle erotiche dell’amore che i cristiani hanno demonizzato definendole peccaminose per poter attuare i loro mali all’umanità) ed anziché consumarle nell’atto creativo accumularle per trasformarle in energie terapeutiche in grado di agire su mali incurabili. Una taumaturga dunque, cosa che i cristiani ritenevano malvagia, infatti scriveva il vescovo di Nikiu: “una pagana chiamata Ipazia, che si dedicò completamente alla magia, agli astrolabi e agli strumenti di musica”, dove il termine magia è utilizzato in senso dispregiativo. Poiché ella curava mali inguaribili era considerata una donna dalle doti miracolose, cosa che metteva in crisi la menzogna cristiana che voleva che il miracolo fosse un elemento esclusivo del cristianesimo e per questo il Vescovo Cirillo (fatto Santo dai vertici malvagi di quella setta[6]) ne ordinò l’eliminazione. Sempre il vescovo di Nikiu, per metterla in cattiva luce e screditare le sue opere di bene, affinchè tutti credessero solamente alle menzogne cristiane, scriveva: “e che ingannò molte persone con stratagemmi satanici”. Ma del resto in ogni santuario terapeutico del mediterraneo avvenivano miracoli, prova storica ne sono i numerosi ex voto rinvenuti presso di essi, ad esempio quelli al tempio di Esculapio sull’isola Tiberina; motivo per il quale il cristianesimo demonizzò il paganesimo, appoggiò uomini politicamente in secondo piano (ad esempio Costantino) perché prendessero il potere con violenza ed attuassero poi la distruzione dei templi e la persecuzione legalizzata dei santi sacerdoti detentori di Verità.

Sono questi fatti storici ai quali non possiamo esimerci, i quali sono attestati dalle fonti ma che vengono tralasciati dagli atei e dai materialisti che non conoscono la scientificità del paganesimo perché, nonostante il loro distacco dal cristianesimo, hanno comunque conservato l’influenza culturale di questa pseudo religione che sempre ha messo in cattiva luce le religioni sane.

E’ dunque Ipazia una martire della Tradizione classica, una martire gentile, vittima della violenza cristiana in antico ed oggi della strumentalizzazione faziosa degli atei e delle femministe, a loro volta tutti vittime inconsapevoli di chi, per governare il mondo, ha creato odio, dissapori, lotte contrasti di genere tra maschio e femmina e tra scienza e sacro. Ma Ipazia era una donna d’enormi virtù che stimava grandi uomini come il padre, Platone ed altri e   che univa scienza e sacro come ogni pagano antico.

Dott. Giuseppe Barbera Archeologo e presidente Associazione Tradizionale Pietas.   NOTE [1] Corrispettivo delle nostre università. [2] A tal riguardo suggeriamo la lettura del numero monografico di Pietas “L’Ermete e la Monade”. Per ordinarlo scrivere a info@tradizioneromana.org [3] I dogmi sono tipici di chi mente, il quale pone delle asserzioni assurde come verità assolute per dar forza ad un apparato ideologico che in una investigazione onesta crollerebbe. [4] Sarebbero ebraismo, cristianesimo ed islam, le quali  si comportano come religioni detentrici di sapere assoluto, ma che tali non sono perché la Verità non necessita di violenza per affermarsi, essendosi queste religioni affermatesi con violenza non sono veritiere. Roma interveniva con forza solamente dietro un “casus belli”, ovvero dopo un’azione  ingiusta nei suoi confronti, ma solo per portare giustizia. Il culto di Bellona era finalizzato a scongiurare le guerre e veniva intensificato nelle trattative pre-belliche per il raggiungimento di una soluzione senza guerra, la quale, purtroppo, di frequente è servita. Ma almeno dalle azioni belliche romane risultavano poi delle società intelligenti, che sviluppavano sapere e benessere sociale, ed avvenivano sempre nel rispetto di azioni eticamente corrette, mentre i crimini della Roma cristianizzata hanno precipitato il mondo nel buio mentale del medioevo. Questo è un dato di fatto. [5] Non si dimentichi che Giordano Bruno, Tommaso Campanella ed altri abbracciarono le idee neoplatoniche e pagane e volevano fonderle con l’etica cristiana, ma ovviamente ciò era impossibile perché i vertici cristiani non praticavano l’amore ma la fame di potere assoluto. [6] Alla quale, quando aderiscono dei buoni, quei vertici malvagi li maltrattano e li umiliano e ne riconoscono doti di santità solamente dietro sollevazioni popolari. Palesi i casi di Francesco d’Assisi o del buon Padre Pio.

La sacralità della vita sotto attacco relativista

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Da tempo ormai le tematiche legate alla bioetica vengono prepotentemente alla ribalta, interrogandoci sul rapporto tra scienza e biologia e vita umana (o anche animale) in termini di etica (o di morale). I casi di cronaca ci portano a conoscenza di vicende dolorosissime ma anche di vicende che irritano e che fanno da cartina di tornasole sulla situazione italiana in materia di etica applicata alla medicina, rivelando grandissima superficialità o immonde pulsioni anarco-individualiste che mandano in frantumi l'unità e il benessere di una comunità. È bene distinguere sempre, tanto per cominciare, l'etica dalla morale, poiché la prima assume un valore alto e nobile direttamente legato all'ethos di un popolo e di una nazione (e che affonda le proprie radici, spesso, nel fertile humus dell'antichità indogermanica e gentile) mentre la seconda trasuda l'untuosa, e patetica, retorica pretesca che sgorga copiosamente dagli ascari del Vaticano.

Stiamo parlando di argomenti che si intersecano, inevitabilmente, con la squallida farsa dei "diritti civili" (la cui comparsa ha sacrificato la bontà dei diritti sociali, accantonati per dare la stura alle follie del liberalismo) dove tutto ciò che è surrogato e parodia della famiglia tradizionale, e prima ancora naturale, pretende con perversa arroganza di venire equiparato alla salutare normalità dei nuclei fondati su padre (uomo) e madre (donna) con prole biologica, o adottata, che garantiscono il benessere dei figli e della società e irrobustiscono, qualora ovviamente indigeni, la demografia italiana ed europea, sempre più purtroppo ai minimi storici.

La colpa di tutto questo degrado spirituale, e quindi materiale, è da attribuirsi al relativismo, alla perdita di punti di riferimento e saggi maestri di vita, al fuggifuggi generale scatenato dall'individualismo anarcoide che si fonda su egoismo ed indifferenza sia verso gli altri che verso la vera evoluzione di sé stessi, dal mero capriccio infantile alla crescita per davvero civile del singolo all'interno della sua comunità di appartenenza. Oggi non si vuole sentire parlare, nella maniera più assoluta (si pensi ai nostri giovani), di dio (inteso come *deiwos ariano, luce e spiritualità), di famiglia e tanto meno di patria, perché ritenuti vecchiume di cui sbarazzarsi per poter sentirsi liberi di fare "quel che più ci pare e piace", senza alcun vincolo etico (ma nemmeno morale), etnico, civico.

Come ho avuto modo di esprimere nei precedenti articoli, non ho minimamente la visuale cattolica, circa la bioetica, e pur essendo contrario ad aborti ed eutanasie indiscriminati, rischiando così il caos anarchico, valuto caso per caso optando per la bontà dell'aborto laddove serva a preservare la salute materna, prevenire nascite di infelici e stroncare il frutto di stupri (magari allogeni) - assumendo così un'utilità non solo individuale ma anche comunitaria - e per l'eutanasia laddove serva ad alleviare sofferenze irreversibili, del malato e della famiglia, sgravare lo stato, e quindi tutti noi, da spese praticamente inutili, ed impedire assurdi accanimenti terapeutici che violano la stessa concezione della vita in senso biblico, essendo l'arroganza umana che prende il posto del corso naturale delle cose.

Sono invece nettamente contrario a tutto ciò che può definirsi delirio di onnipotenza da laboratorio, laddove cioè l'uomo - per quanto brillante, geniale e preparato possa essere - vuole prendere il posto della divinità, ma prima di tutto della natura, giocando al padreterno in camice e mascherina e, fondamentalmente, per alimentare le casse delle multinazionali farmaceutiche e dello stesso sistema globalista che pretende di ficcare ovunque il suo adunco naso per lucrare, monetizzare e controllare in nome di un universalismo malato che finisce per asfaltare ogni ideale e valore più elevato. La pretesa di piegare persino l'etica e la vita umana medesima al capriccio relativista è una distruttiva follia fomentata dall'affarismo e dall'orrenda esigenza, del mondialismo, di liquidare ogni ostacolo lungo il proprio sradicatore cammino.

La manipolazione genetica, le staminali, la clonazione, la "vita" in laboratorio, la maternità surrogata, l'inseminazione artificiale/fecondazione assistita, l'utero in affitto, la "vita" in provetta, e tutto il resto della macelleria genetica consumato sulla vita in fieri, gli embrioni, ma anche su ciò che porta la vita ed è dunque a suo modo sacro, come il seme maschile e l'ovulo femminile, rappresenta una sconcia manifestazione dell'arroganza umana, che vorrebbe prendere il posto di tutto ciò che, non solo è etica, ma è pure natura, normalità e di conseguenza tradizione. Accanto a queste esecrande pratiche trovano dunque spazio i sedicenti "diritti civili", null'altro che aberrazioni postmoderne tese a colpire società e famiglia, e nazione, per accelerare la demolizione completa di identità e tradizione, ovviamente d'Europa. Mettere sullo stesso piano coppie omosessuali ed eterosessuali e addirittura pensare di affidare degli innocenti, dei bambini, a queste coppie omosessuali diventa a mio avviso un infame attentato alla salutare normalità del focolare domestico, perché ogni bambino esistente sulla crosta terreste necessità di padre e madre, che sono uomo e donna, maschio e femmina, e non di persone disturbate che scambiano egoistici capricci per "amore".

Un figlio non è un bambolotto, un giocattolo di cui disporre a proprio piacimento (arrivando persino a credere di poterselo comprare coi propri sozzi quattrini), è un dono che se arriva bene, altrimenti si deve andare avanti comunque, al limite adottando qualche povero orfano europeo. Ogni forzatura umana assume i perversi tratti del mondialismo, che non sono altro che quelli della peggior feccia partorita dal grande capitale, a cui gli stessi "diritti civili" arcobalenati appartengono. Si cestinano i diritti sociali per crearne di nuovi (e inutili) buoni solo per bisbetiche minoranze, ricche e borghesi, il che è ampiamente auspicato dalla finanziocrazia globale che non di uomini ma di burattini animati da bassi appetiti ha tremendamente bisogno, per affermare appieno il proprio demoniaco dominio.

La dignità dell'essere umano, a partire dal primo stadio della sua formazione (siamo stati tutti embrioni, ricordatelo agli abortisti), va sempre tutelata, il che significa che spesso l'eutanasia è necessaria per evitare accanimenti terapeutici, e state certi che le pratiche da laboratorio suddette, così come le tragicomiche farse arcobalenate, la dignità umana l'hanno in totale non cale perché al primo posto si trovano le inique mire del capitalismo, del liberismo e della marcescente "morale" democratica volta ad arricchire il sistema a scapito del benessere comunitario. Chi spalleggia l'aborto indiscriminato, il suicidio assistito (cosa ben diversa dall'eutanasia, a mio avviso, perché nel primo caso si rischia di arrivare a situazioni demenziali e molto pericolose), la manipolazione genetica e la "vita" creata in laboratorio (come se la vita potesse sul serio essere ridotta ad un freddo automatismo ficcato in provetta...) così come la nefanda propaganda dei "diritti civili" non fa altro che prostituirsi ai deliri capitalistici dell'alta finanza globale, fintamente filantropiche.

Dare la vita e tutelarne la dignità è un atto d'amore e l'amore non asseconda mai i pericolosi capricci del singolo perché ha a cuore il bene della comunità, della famiglia e dell'individuo che si realizza non a scapito dei propri simili ma portando frutto per sé e il proprio ambito etno-culturale, in maniera assertiva. L'amore porta frutto, è fecondo, e preserva una comunità nazionale perché ne è il patriottico motore, ed è per questo che, personalmente, non vedo alcuna forma di amore o comunque di sentimento e valore positivo nella bioetica in chiave relativista, così come non ne vedo nelle pagliacciate variopinte di chi scende in piazza per reclamare "diritti" che non gli appartengono e che vengono invece strappati (o ridicolizzati) - in nome della daneistocrazia - ai loro legittimi detentori.

Il relativismo inquina, rovina e distrugge quanto di più puro, bello e genuino, naturale, abbiamo e, calpestando così la sacralità della vita e i diritti sociali si inventa la loro, dannosissima, caricatura: i surrogati da laboratorio, l'etica piegata ai voleri del pensiero unico globalizzante e i diritti civili. Odio spacciato per amore, odio per ciò che è naturale, tradizionale e normale, cioè sano e forte e che reca con sé buon frutto.

Ave Italia!

Lo sviluppo della vita e dell’uomo nella Tradizione Vedica – Riccardo Tennenini

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Lo studio dei testi di B.G.Tilak ci informano che la corretta definizione di Manusha yuga è “età umane”: dobbiamo allora determinare la durata esatta di queste età. La connessione tra Manusha yuga e la “prima alba” ci permette di determinare esattamente la lunghezza e la durata delle “età umane”, in quanto queste età iniziano con la prima alba dell'anno e terminano con l'ultima, avama, alba dell'anno. In altre parole, Manusha yuga indica nel complesso, l'intero periodo di tempo compreso tra la prima (Satya yuga) e l'ultima alba (Kali yuga) dell'anno, mentre un singolo yuga significa una più corta divisione di questo periodo. Per tale comprensione è sufficiente osservare la successione dei dieci Avatar di Viṣṇu, interpretando la “mitologia vishuista” usando lo stesso modus operandi di Tilak, quando ha studiato il Rig-veda, decodificandolo con la mitologia comparata per capire meglio ogni cultura e l'umanità in generale. Nella Tradizione Vedica vengono raccontate le diverse apparizioni di Viṣṇu in varie epoche. Possiamo benissimo intuire che le epoche citate facciano tutte riferimento allo sviluppo dell'uomo sulla terra e la vita dall'epoca paleozoica ad oggi.

Dal primo al quarto Avatar ci troviamo nel primo circolo, il Satya yuga o età aurea, dove Viṣṇu si manifesta per la prima volta con le sembianze di Matsya, un pesce che possiamo paragonare ai proto-anfibi che hanno vissuto prevalentemente in acqua: ciò può essere riferito al primo stadio della vita. Esempi di tale genere sono i pesci preistorici. Il secondo è Kurma con le sembianze di una tartaruga che rappresenta la fase successiva: gli anfibi. Il terzo è Varaha con le sembianze di un cinghiale, simbolo della vita sulla terra ferma. Il quarto è Narasimbha (l' uomo – leone), ossia la prima comparsa dell'uomo sulla terra e il suo sviluppo chiudendo questa prima età.

Dal quinto al settimo Avatar ci troviamo nel secondo ciclo, il Treta yuga o età eroica post-aurea che inizia con Vamana rappresentato con sembianze umane di un nano, stando a simboleggiare l'homo erectus che non è ancora completo. Parashurama è il sesto, l'abitante della foresta che rappresenta l'homo sapiens, dove vediamo lo sviluppo fisico completo dell'uomo. Rama il settimo e ultimo di questa età identificato con arco e frecce che rappresenta l'homo sapiens sapiens.

L'ottavo Avatar è Balaram o Krishna, l'unico presente nel terza età del Dvapra yuga che si trova a cavallo tra lo sviluppo culturale dell'umanità e la fine del XXXII secolo a.C. Gli ultimi due Avatar li troviamo nell'ultimo ciclo, il Kali yuga o età oscura iniziata nel 3102 a.c non ancora conclusa. Il nono è il Buddha, l'Illuminato, simboleggia la realizzazione ed il risveglio spirituale dell'uomo. Il decimo e l'ultimo è Kalki, che rappresenta l'uomo moderno che si autodistrugge con le sue stesse mani: le sue prerogative sono causa dell’estinzione dell’umanità, ma allo stesso tempo la finale liberazione dell'uomo e il ritrovamento della propria natura divina.

Riccardo Tennenini (riccardotennenini.wordpress.com)

La costituzione energetica dell’uomo nella medicina egizia – Viviana Donato

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Nel papiro di Ebers è presente il cosiddetto “Trattato dei Vasi”, uno scritto che, a differenza di ciò che sostiene la moderna egittologia, traducendo “vasi” per vene ed arterie che partono dal cuore, descrive il percorso energetico dei meridiani, quei “sottili” canali in cui scorre l’energia che ci sostiene. Nel suddetto papiro, infatti, leggiamo: “Quanto all’uomo, vi sono in lui dodici Mo verso il suo cuore.” (Ebers, 102-1) E questi, in stretto rapporto con il cuore, non sono altro che i dodici meridiani principali, chiamati dagli Indù “Nadis”. La “Chandogya Upanishad” (ottava lettura, sruta 1 e 2), ci dice in proposito: “Le vene sottili (nadi) che escono dal cuore consistono in una sostanza sottile…” E più in là: ”Come una via maestra tra due villaggi va dall’uno all’altro, ugualmente i raggi del Sole vanno ai due mondi, quelli di qui in basso e quelli di là in alto. Dal Sole che è là, in alto questi raggi fluiscono in queste vene, in esse insinuandosi, da queste vene essi fluiscono, insinuandosi nel Sole.” Inoltre, nel papiro di Berlino 163b vi è, analogamente a quanto asserito dalla medicina tradizionale cinese, la descrizione dei 22 Mo che percorrono il capo e che “portano Aria al suo cuore ed Aria a tutte le parti del corpo”.

In egizio, il termine “vaso” è composto dai geroglifici mo e si legge MO. In questa parola, troviamo il fallo, che indica un canale energetico attraverso cui scorre l’energia generativa; una spirale, simbolo delle energie cosmiche che si individualizzano; ed infine il simbolo del percorso del Sole, inerente alla manifestazione tangibile. Riassumendo, i Mo venivano definiti come dei canali in cui si immette l’energia cosmica per creare un individualità, per creare la Vita.

Sempre nel papiro di Ebers, leggiamo: “Inizio del segreto del medico. Conoscenza della marcia del cuore. Conoscenza del cuore. Vi sono dei Mo in lui per tutte le membra. In qualsiasi posto ogni medico, ogni sacerdote di Sekmet, ogni mago, mette le sue dita sulla nuca, sulle mani, sul posto dell’Ib, sulle due braccia, sui due piedi, egli trova il cuore, poiché i suoi Mo sono in tutte le membra, cioè egli parla di Mo di tutte le membra.” (Ebers, 99,1-5)

Per quanto riguarda il cuore, vi erano due termini per definirlo. Il primo è Ibcuore bilittero formato dalla piumapiuma (I), lo strumento per scrivere, attraverso cui si mette per terra il proprio contenuto mentale e dalla gamba (B). Così possiamo dare all’Ib il significato di forze provenienti dall’alto che discendono e si mettono in cammino. Quindi Ib indica il cuore che “versa in terra“ ciò che proviene dai piani superiori, assumendo così un significato metafisico, spirituale, quale ricettacolo dell’atman. Il secondo termine è Haty hatycomposto dall’avantreno del leone, e dal percorso del Sole. Viene tradotto come “colui che è avanti e che individualizza”, e, rispetto ad Ib, indica propriamente il cuore fisico ma anche le sue funzioni energetiche, quale ricettacolo del prana.

Dalla Medicina Tradizionale Cinese, sappiamo che vi sono tre energie principali che sorreggono il nostro corpo: l’ energia Yong, suddivisa in Yin e Yang, positivo e negativo, che circola in profondità negli organi per poi riaffiorare a livello dei meridiani sulla pelle; l’Energia Ancestrale, che regola e sostiene l’energia Yong, e di cui ce ne viene fornita una determinata quantità al momento della nascita; ed infine l’energia Oè che è tendineo – muscolare, e che riguarda anche la respirazione.

In Egitto ritroviamo gli stessi concetti, pur espressi in modo differente. Riguardo l’Energia Ancestrale, veniva indicata dal geroglificonu (NU) il simbolo delle Acque, dell’energia, accompagnato dai tre vasi e dal simbolo del Cielo, ovvero l’energia che prende forma, che si fissa dei limiti ben precisi, indicati dai tre vasi.

Questa Energia Ancestrale entra nel corpo attraverso la linea dei reni, si dirige verso l’ano e qui si divide in due rami: il Vaso Governatore (Tu Mo), che regola il potenziale positivo, percorre l’asse mediano posteriore del corpo, gira intorno al capo e termina all’interno del labbro superiore; ed il vaso Concezione (Jenn Mo), che invece regola il potenziale negativo, percorre l’asse mediano ventrale e termina all’interno del labbro inferiore. Secondo la Medicina Egizia, questi due Mo possono propagare la malattia attraverso tutto il corpo, per questo motivo gli Egizi agirono a livello terapeutico preferenzialmente proprio sul punto di biforcazione di queste due energie a livello dell’ano, mediante l’uso di particolari preparazioni tipo “supposte”, lavaggi o clisteri contenenti i medicamenti appropriati, come si può leggere nelle molte ricette del papiro di Chester-Beatty, in modo che attraverso il Tu Mo ed il Jenn Mo raggiungessero l’organo ammalato.

IsNef

Accanto a queste pratiche, figurava anche la cosiddetta “digitopressione” sui meridiani, di cui erano esperti i sacerdoti di Sekmet, la Dea a testa di leone (il leone, analogo al cuore, il luogo di “nascita” dei Mo).

Un’altra tecnica in uso presso gli egizi, era quella definita “moksa” dai cinesi, che consisteva nel porre delle tavolette d’argilla o di lievito di birra riscaldate, o anche dei coni o piastrine di erbe, lungo determinati punti dei meridiani, al fine di stimolarne l’energia, per risolvere una data malattia.

Per quanto riguarda l’energia Oè, che nasce dal meridiano dei polmoni, possiamo rintracciare questo concetto nella figura della dea Neith, colei che presiede alla trama e all’ordito, intrecciando le due polarità, Yin e Yang, per creare un “tessuto”: “Quindi il corpo nella sua totalità è assimilato ad un tessuto e questa Funzione del tessere rende corporale e fissa lo Spirito in noi per mezzo della respirazione, e tramite essa, si può compiere la tessitura di ciò che anima (Aria) con ciò che è animato (Sangue)” (Angelini A., rivista Kemi Hathor, 1988)

La nostra Tradizione occidentale, che come sappiamo deriva da quella egizia, assimila i dodici Mo principali ai dodici segni dello Zodiaco. Lo Zodiaco, nell’Antico Egitto, è chiaramente illustrato nel famoso “Libro delle Porte”, scolpito in numerosi monumenti, ma di cui esistono solo quattro versioni complete: nel sarcofago di Seti I, nella tomba di Ramses VI, nel corridoio dell’Osireion di Abido e nella tomba di Pedemenotep. E’ perciò possibile fare un parallelo tra queste “Porte” e le caratteristiche dei rispettivi meridiani. Ogni Porta possiede un nome e due Guardiani, che ne riassumono le caratteristiche. Vediamo, in breve, queste corrispondenze.

Prima Porta: questa prima sezione corrisponde al segno dell’Ariete, dove troviamo il domicilio diurno di Marte e l’esaltazione del Sole. La Porta inizia con la dicitura “il Guardiano dei monti”, e vi è la raffigurazione di Amon-Ra sulla Barca Solare. Amon-Ra, il dio a testa d’ariete, rappresenta Dio che entra in azione, tramite un movimento, una vibrazione, il Verbo. Il Mo relativo è il Maestro del cuore, il Pericardio. La frase iniziale “il Guardiano dei monti, dei luoghi elevati”, richiama la funzione del suddetto Mo di “Ministro (Marte) deputato alla difesa dell’Imperatore (Sole)”, come lo definiscono i cinesi, dato che le energie perverse che possono turbare il cuore vengono deviate verso il suo ministro, il pericardio.

Ptimaporta

Seconda Porta: il nome della Porta è “Quella con fiamme violente”, richiamando così alla mente il Mo del Triplice Riscaldatore, il “San Jiao” dei cinesi, nel cui ideogramma si trova il radicale del fuoco ed un uccello senza la coda, sottoposto all’azione delle fiamme. Il Mo è analogo al segno del Toro. Il Triplice Riscaldatore, mediante questo “calore” coordina tutte le attività dell’organismo, presiede alla circolazione energetica del Qi, assicura la circolazione dei liquidi (Venere e Luna si trovano rispettivamente in domicilio e in esaltazione nel segno e sono legate all’elemento Acqua) e la loro eliminazione (attraverso il segno di fronte, lo Scorpione/Vescica), rinforza e protegge l’organizzazione del sistema nutritivo.

Terza Porta: è una porta di movimento, infatti i suoi due Guardiani si chiamano “Terremoto” e “Scuotimento di terra”, in accordo con le caratteristiche di instabilità e, appunto, di movimento del Neter che regge il relativo segno, i Gemelli, domicilio di Mercurio. In questa Porta Ra dice: “Guardatemi o dei! Si levino per me quelli che sono nei loro sepolcri! Alzatevi, o dei, io ho ordinato per voi la vostra esistenza.” Il dottor Angelini, nel suo “Manuale di Astrologia Egizia”, a proposito di ciò, afferma: ”Si preannuncia, in questo passo, l’animazione dell’individuo per mezzo dell’insufflazione dell’”Anemos”, del “Soffio”.” (Angelini A., 1992, p 68) Ed infatti, Gemelli regge i Polmoni. I cinesi chiamano il rispettivo Mo “Maestro dei Soffi”, poiché regola la propagazione dei soffi Yin e Yang attraverso l’organismo, fino alla pelle ed ai peli.

Quarta Porta: vi compare Horus, che di fronte a quattro gruppi di uomini, simbolizzanti le quattro razze umane, dice “Grande Acqua!”, e più in avanti: “Per voi sono le lacrime del mio Occhio glorioso (di Ra) nel vostro nome di uomini!”. Secondo la credenza egizia, l’umanità, nasce proprio dalle lacrime di Ra, e con il nome di “Hamamit” rappresenta l’Anima collettiva della stessa. Tutto questo richiama il segno relativo, il Cancro, domicilio della Luna ed esaltazione di Giove. Il segno è preposto allo Stomaco e al duodeno. I cinesi chiamano lo stomaco “il mare dei cinque Zàng e dei sei Fu (organi interni), il mare dei liquidi e dei cereali, il mare dei soffi”, richiamando l’aspetto del Cancro di “Acque Madri”, inoltre è il fondamentale produttore e fornitore d’energia.

Quinta Porta: il suo nome è “Maestro dell’ Elevazione”, richiamando le funzioni spirituali del Cuore/Ib che abbiamo già visto. I suoi due guardiani si chiamano “Vero Cuore” e “Cuore Misterioso”, infatti questa Porta è il segno del Leone, domicilio del Sole, preposto al Cuore. Il relativo Mo, per i cinesi è “l’imperatore nascosto al centro del suo palazzo” che governa al fine di mantenere l’equilibrio tra le varie funzioni dell’organismo, colui che alloggia gli spiriti Shen, provenienti dal Cielo, governa il sangue ed i vasi sanguigni, la traspirazione, controlla la parola e la sua apertura si trova sulla lingua. Gli egizi, a tal proposito affermavano che “la lingua ripete ciò che il cuore ha pensato”; il saggio Amenenope, autore di uno dei cosiddetti “libri sapienziali”, un papiro risalente probabilmente al 1320 a.C., in uno dei suoi proverbi afferma: “Porgi le orecchie e ascolta quanto si dice; applica il tuo cuore, al fine di comprendere! (…) Non separare il cuore dalla lingua.(Kaster J., La saggezza dell’antico Egitto, 1998, Newton&Compton, Roma- p. 147).

Sesta Porta: in questa Porta troviamo Osiride che, dinnanzi a degli uomini chini sui primi germogli che spuntano dalla terra, dice: “Essi lavorano sul grano, abbracciano il grano divino” E’ il segno della Vergine, preposto all’Intestino Tenue, il cui corrispondente Mo è per i cinesi la via verso cui sono indirizzate le materie nutritive provenienti dal “granaio” dello stomaco. L’intestino tenue rielabora il nutrimento, separando “il puro dall’impuro”.

Settima Porta: il suo nome è “La Brillante”, con i suoi due Guardiani, “Colui che ha bisogno” e “Il cieco”, indicando con quest’ultima parola come nel segno della Bilancia, domicilio di Venere ed esaltazione di Saturno, il Sole comincia ad andare in declinazione nord ed il periodo di insolazione diminuisce. La Bilancia regge i Reni, ed in questa Porta vi sono delle dee che portano un serpente, con sotto la dicitura: “Esse portano il duplice serpente…”, richiamando il “duplice magnetismo”, la doppia natura, di Acqua e di Fuoco, che i cinesi attribuiscono ai reni. Questi, governando ciò che sta in profondità, sostengono ogni aspetto della vita in modo fermo e duraturo, tesaurizzano i soffi e tutto ciò che serve al mantenimento ed alla strutturazione della vita.

Ottava Porta: il suo nome è “Ardore”, infatti è il segno dello Scorpione, domicilio notturno di Marte, legato ad una profonda intuitività ma anche ad una sentimentalità inconscia. In questa Porta, Ra dice a coloro che riescono a padroneggiare questa loro sentimentalità inconscia: “O voi che nuotate, vi sia respiro per le vostre narici. Voi che avete il dominio sulle vostre acque, siate contenti della vostra freschezza, voi vi muovete verso le acque primeve. Il vostro movimento è lungo il fiume, le vostre anime sono sopra la terra. Essi sono contenti di respirare e non periranno.” Questo, come il nome del Guardiano di tale Porta, “L’inondazione”, ci rimanda al relativo Mo, Vescica, che trasforma, rielabora, ed infine elimina i liquidi corporei e, come affermano i cinesi, mantiene costante la relazione fra la “terraferma e i corsi d’acqua”, evitando la “comparsa di secchezza” o il “verificarsi di inondazioni”.

Nona Porta: è il segno del Sagittario, domicilio di Giove, che regge il Fegato. La Porta si chiama “Grande di onore”, ed il suo Guardiano “Colui che supporta la terra”, ci rimanda al corrispondente Mo che, secondo la Medicina Tradizionale Cinese, ha l’ideogramma di uno scudo conficcato nella terra, pronto a difendere e a proteggere, come il compito che il relativo organo svolge nel nostro corpo.

Decima Porta: il suo nome è “La Sacra”, e vi è raffigurata la faccia di Ra sulla Barca Solare. La faccia si traduce per “sopra, colui che è sopra”, infatti questa Porta è il segno del Capricorno, domicilio di Saturno ed esaltazione di Marte, che occupa la parte più alta dello Zodiaco. Il relativo Mo è Vescica Biliare, che è annoverata, oltre che fra i dodici meridiani principali, anche fra gli otto detti “straordinari” o “curiosi”. Il nome del guardiano di questa Porta è “L’Esecutore”, e sappiamo che il Mo di Vescica Biliare, secondo la Medicina Tradizionale Cinese, è quello che influenza il comportamento degli altri organi e visceri, poiché essi lo “consultano” per la sua capacità di emettere giudizi corretti ed equi, e quindi, in un certo senso, gli spetta “l’ultima parola”. Tra l’altro questo Mo regge la capacità di prendere decisioni, inoltre controlla i muscoli ed accumula e secerne la bile.

Undicesima Porta: è la Porta delle influenze cosmiche, il segno dell’Acquario, retto da Saturno e Mercurio. Vi troviamo rappresentate 8 dee con una stella sul capo, sedute sulle spire di serpenti arrotolati, indicando delle forze magnetiche che dopo esser state elaborate, vengono inviate in terra, come il rispettivo Mo, Milza/Pancreas, che ha il compito di lavorare le essenze, elaborarle, per poi distribuirle all’intero organismo.

Dodicesima Porta: è il segno dei Pesci, domicilio di Giove ed esaltazione di Venere, che chiude il circuito Zodiacale. Il nome dei suoi due Guardiani, “Il fuggitivo” e “Quello dell’alba”, richiama l’idea di qualcosa che “esce”, “che viene spinto fuori”, come anche la rappresentazione della dea Nut con le braccia che escono dall’acqua. Infatti, il relativo Mo, Grosso Intestino, è preposto all’espulsione degli scarti, dopo aver operato un recupero dei liquidi.

SEGNI

ORGANI

M

Ariete

Sangue, pericardio.

MC

Toro

Gola, corde vocali, laringe.

TR

Gemelli

Polmoni, sistema nervoso periferico, timo.

P

Cancro

Cervello, midollo spinale, stomaco, duodeno.

St

Leone

Cuore, arterie, vista.

C

Vergine

Intestino tenue, peritoneo.

IT

Bilancia

Reni, tubuli renali.

R

Scorpione

Vescica, organi genitali femminili, ano.

V

Sagittario

Fegato, organi genitali maschili, ipotalamo.

F

Capricorno

Cervelletto, corpo calloso, cistifellea, milza.

VB

Acquario

Pancreas, sistema linfatico, vene.

MP

Pesci

S. N. simpatico e parasimpatico.

GI

Passiamo adesso ad analizzare i corpi sottili dell’uomo, secondo quanto ci è stato tramandato dagli antichi egizi. La casta sacerdotale egizia, postulò l’esistenza di più corpi, analogamente a quanto asserito dalla tradizione indù.

CORPO

NOME EGIZIO

NOME INDU’

Corpo fisico

Xat

Stubla Bhuta

Corpo energetico

Ka / Kaibit

Linga Sharira

Anima sensitiva inferiore

Ba

Kama Sharira

Anima sensitiva superiore

Ib

Kama Sharira

Mentale Inferiore

Khu

Rupa Manas

Mentale Superiore

Sekem

Arupa Manas

Il Nome- L’Unità Cosmica

Ren

Buddhi

L’involucro spirituale che circonda la scintilla divina; la Coscienza Universale

Sah

Atma

Questo elenco si trova nei “Testi delle Piramidi”, in particolare nel corridoio della piramide di Unas ed in quella di Pepi I a Saqqara.

Xat è il corpo fisico, quello che gli indù chiamano Stubla Bhuta. Esso è semplicemente il “contenitore” dei corpi superiori.

Il Ka è il corpo energetico, il cui geroglifico, come abbiamo visto, sono le braccia protese verso l’alto. Bernard, a tal proposito, nel suo “La science occulte egyptienne”, ci dice: “Le mani alzate mimano il passo magnetico; è attraverso le mani che si capta e si distribuisce il magnetismo umano”. (Bernard J.L., p 5) Ed infatti, presso gli indù, questo corpo viene chiamato anche Pranamayakosha, ossia il veicolo del Prana. Il Ka viene anche detto il “doppio” dell’uomo, poiché ne riproduce fedelmente le fattezze. Ma il Ka, secondo la metafisica egizia, è anche il corpo indistruttibile, il “Corpo di Gloria” che ogni uomo si costruisce in vita, e che permane dopo la morte, quale frutto delle esperienze fatte nelle varie incarnazioni: “Se il Ka è il Principio della Forma che dà forma alla sostanza per fare la Materia, esso diventa il punto d’appoggio di tutta la manifestazione; è il Ka che attraverso questo “divenire” delle modificazioni multiple, dalle forme più basse giunge alla realizzazione del corpo indistruttibile.” (Angelini A., 1992). Quindi il Ka è qualcosa di più del corpo eterico propriamente detto. Quest’ultimo gli egizi lo indicarono con il termine Kaibit, l’ombra. Nel suo geroglifico troviamo anche la rappresentazione di tre api (bit=ape): “Ora l’ape è una tessitrice di cellule. Kaibit è dunque l’ape organica, tessitrice delle cellule, che assicura a nostra insaputa il funzionamento organico” (Bernard J.L., p 26). Ciò si avvicina maggiormente al concetto di corpo eterico, la cui funzione è quella di mantenere e “restaurare” il corpo fisico.

Per quanto riguarda il corpo astrale (il Kama Sharira indù), gli egizi ne distinguevano una parte superiore (l’ IB) ed una inferiore (il BA).

Il Ba è l’Anima sensitiva (o astrale inferiore), raffigurata sottoforma di un uccello con testa umana, “l’Uccello-Anima”.

Il Ba rappresenta lo Spirito animatore, esso porta il fluido vitale e la sua caratteristica è la volatilità, la non fissità, per questo ha bisogno di un supporto, offertogli dal Ka. “Il Ka, il Fisso alchimico, purgato attraverso l’azione di Acth, il Fuoco, il Solfo alchimico, diverrà Corpo di Gloria, o Legno di Vita e rimarrà unito al suo Ba, come supporto eterno, immortale, tal quale, analogicamente, un corpo fisico che mantiene la continuità di coscienza sia in questo mondo che nell’altro.” (Angelini A., 1992).

L’Ib, come già detto, è uno dei termini usati per designare il cuore, in senso metafisico, che, appunto, “versa in terra” ciò che proviene dai piani superiori, rappresentando così l’Anima sensitiva superiore (o astrale superiore).

Khu è il corpo mentale inferiore. Esso è la sede del pensiero, il campo in cui nascono l’immaginazione e la memoria. Inoltre vi risiedono facoltà come l’intuizione e laconcentrazione. Anche la meditazione si svolge su questo piano.

Sekem, l’Intelligenza superiore, è il Manas superiore della filosofia indù. Esso rappresenta la parte inferiore dello spirito che trasmette gli ordini della ragione al centro volitivo dell’Anemos.

Ren, è il Nome, l’Individualità, ed è magistralmente rappresentato dal geroglifico formato dalla bocca che parla, emettendo un suono, una vibrazione, indicato dalla superficie delle acque. Esso rappresenta quindi la vibrazione propria di ogni individuo.

Infine abbiamo Sah, l’involucro spirituale che circonda la scintilla divina che sta per incarnarsi, o corpo spirituale, e che rappresenta la vera parte immortale dell’uomo.

Bibliografia

– Angelini A., Manuale di Astrologia Egizia, 1992, Kemi, Milano

– AA. VV., Rivista Kemi Hathor, Riza/Kemi, Milano

AA.VV. Medicina Classica Cinese, 2012, Bellavite, Missaglia (LC)

Bernard J.L., La science occulte egyptienne, 1990, Henri Veyrier/Lib. l’Avenue, Parigi

Ringraziamo l'Autrice per la collaborazione

AQUILA IN AURO TERRIBILIS ∼ Tradizione ghibellina e tradizionalismi guelfi – (3^ parte) – Piero Fenili

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Francesco Giuseppe fu una delle figure più ripugnanti dell'epoca... Ezra Pound

 

Lo studio della sovversione guelfa nell'Italia centrale, risoltosi, sul piano storico, nell'illegittimo potere temporale del Papato, po­tere che il grande dantista Gabriele Rossetti definì "vecchia cancre­na giusto all'ombelico", ci conduce ad esaminare in breve i riflessi che quel sovvertimento ebbe nel Settentrione, spostando oltralpe il baricentro del c.d. Sacro Romano Impero ed assoggettando l'Italia del Nord ad inammissibili ingerenze straniere, durate fino agli inizi del nostro secolo.

Il vizio guelfo d'origine del c.d. Sacro Romano Impero, sotto il profilo storico, è a tutti noto, tanto che in questa sede basta farvi soltanto cenno. L'incoronazione ad imperatore di Carlo Magno, av­venuta nel giorno di Natale dell'anno 800 ad opera del papa Leone III pose, per il modo in cui venne effettuata, un'assurda ipoteca guelfa su quell'impero, facendone un organismo "cattolico" finché si vuole, ma certamente assai poco o null'affatto "romano". Il papa, infatti, non aveva alcuna legittimazione a conferire la potestà' impe­riale romana, essendo unicamente il capo di una religione di origi­ne palestinese, divenuta lecita in Roma soltanto in virtù di un editto imperiale.

Ma, in questa ricerca dedicata allo studio dei tradizionalismi guelfi, più che le vicende storiche del c.d. Sacro Romano Impero, che pur conobbe generosi quanto in definitiva inutili tentativi di rettificazione del suo vizio di origine (ad opera di Sovrani della sta­tura di un Ottone III di Sassonia e, soprattutto, di un Federico II di Svevia), ci interessa specialmente considerare quelle formulazioni dottrinali che si propongono di fondare idealmente e tradizional­mente la ragion d'essere di quell'impero cattolico. Tra esse, in Ita­lia, occupa una posizione di spicco l'opera di Attilio Mordini, per la vastità dell'impianto culturale e per la profondità dell'impegno mo­rale che l'autore vi profuse, tanto che non vi è praticamente oggi presso di noi alcun cultore del c.d. Sacro Romano Impero, dal pun­to di vista "tradizionale", che ad essa non faccia riferimento.

È necessario pertanto che ci occupiamo dei numerosi errori di prospettiva contenuti in detta opera, esaminandola dal punto di vi­sta della metafisica imperiale classica, unico fondamento di ogni le­gittimo ed autentico ghibellinismo.

Occorre quindi premettere, per comprendere la natura e i limi­ti della visione del Mordini, che egli si pose da una prospettiva reli­giosa e confessionale, quindi strettamente confinata nel dominio dell' exoterismo, laddove l'idea imperiale possiede una indiscutibile radice esoterica, presupponendo la dottrina della Unità trascenden­te delle Tradizioni. Piaccia o non piaccia, questa fu la dottrina effet­tiva dell'Impero classico, che adottò appunto il simbolo solare, evo­cando l'Astro diurno, che i vari popoli dell'Impero illumina e riscal­da in egual misura, prescindendo dalla diversità dei relativi culti religiosi.

La dottrina imperiale classica dell'Unità trascendente delle Tradizioni venne enunciata con grande chiarezza dall'Imperatore e Pontefice (Archiereus) Giuliano, che così si espresse, in polemica con l'esclusivismo monoteista della tradizione giudaico-cristiana: "Guardate invece, di nuovo, le dottrine che han corso presso di noi. Dicono i nostri che il Creatore è comun padre e re di tutti, ma che, pel rimanente, ha distribuito le nazioni a Dei nazionali e cittadini, ciascuno dei quali governa la propria parte conformemente alla sua natura" ((Augusto Rostagni, Giuliano l'Apostata - Saggio critico con le operette politiche e satiriche tra­dotte e commentate, Torino, 1920, p. 309.)). Conseguenza di tale impostazione è che alla tradizione giudaico-cristiana non compete alcun particolare privilegio nei confronti delle altre tradizioni. Così infatti ironizza Giuliano: "Mo­sè dice che il Creatore del mondo ha eletto il popolo ebreo, veglia esclusivamente su di esso, di esso si preoccupa, ad esso rivolge tut­ta intera la sua attenzione. Quanto agli altri popoli, come e da quali Dei siano governati, di ciò Mosè non fa nessuna questione: troppo, forse, gli sembra che anche essi godano il sole e la luna"... "E alla fine mandò a loro [agli Ebrei] anche Gesú. A noi nessun profeta, nes­sun crisma, nessun maestro, nessun messo di questa sua tardiva be­nevolenza, che doveva un giorno estendersi anche a noi! Egli lascia per miriadi, o, se volete, anche solo per migliaia di anni, in una tale ignoranza, schiavi, come voi dite, degli idoli, tutti i popoli dall'Oriente all'Occidente, dal Settentrione al Mezzogiorno, ad ec­cezione di una piccola schiatta stabilitasi da neanche due mila anni in un solo angolo della Palestina" ((Ibid., pp. 306 e 308.)).

La concezione del Mordini è diametralmente opposta a queste prospettive della metafisica imperiale classica, ciò che lo pone au­tomaticamente al di fuori del vero ghibellinismo, che in quella metafisica ha le sue radici ed il suo fondamento. Ecco come il Mordini espone la sua concezione rigidamente cattolico-confessionale, che privilegia la tradizione ebraica nei confronti delle altre: « Israele è dunque popolo di Dio, perchè la sua storia è mito vissuto prima di tutto in senso letterale. Per gli altri popoli della terra continua, e continuerà fino all'avvento del Cristianesimo, la distinzione tra mi­to e storia, tra l'espressione mitica della verità metafisica nella pa­rola e nel simbolo, da un lato, e l'accadere dei fatti, dall'altro; tra l'arte e la scienza. Qualche volta, come ad esempio con la guerra e la distruzione di Troia, anche per i gentili il mito e la storia coinci­dono; ma si tratta solo di brevi incontri tra il senso letterale del mi­to e la realtà, si tratta solo di momenti in cui la verità metafisica e la concretezza dei fatti si congiungono quali meravigliosi pegni nel­la promessa della Redenzione finale.

Per Israele, invece, tale coincidenza tra il senso letterale del mi­to e la concretezza della storia è continua e perenne, dalla vocazio­ne di Abramo da Ur fino all'elezione dei Dodici, dalla manifestazio­ne del Roveto ardente del Sinai alla Trasfigurazione del Tabor; in altre parole, da Abramo all'Incarnazione di quel Cristo che è prima ancora che Abramo fosse. Per Israele la stessa vita si fa arte nell'as­sunzione del mito; è la vita che dovrà scorrere nelle vene del Cristo, è la stessa vita che dovrà pulsare in quel sangue che sarà prezzo di Redenzione nel mondo e riscatterà le genti e i popoli dalla morte del peccato alla vita eterna » (Attilio Mordini, Il mito primordiale del Cristianesimo quale fonte perenne di metafisica, Milano, 1976, pp. 15.16. Sorprende come, con siffatte premesse filoebraiche (che peraltro sono le stesse dell'ortodossia cattolica), vi sia chi tra i mordiniani e tra i cattolici tradizionalisti in gene­re, faccia ostentazione di un certo antisemitismo).

Prendiamo atto che, secondo la visione riaffermata dal Mordi­ni, al nostro "latin sangue gentile" fu riservato di avere una storia sacra soltanto a "momenti", laddove per gli ebrei ciò avvenne pe­rennemente e di continuo.

Orbene, noi ribadiamo la nostra distanza da una simile visione, che privilegia la tradizione ebraica nei confronti di quella classica in genere e italica in particolare, visione che tuttavia coincide con il punto di vista religioso cattolico, al quale Mordini aderì secondo quella che fu una sua insindacabile scelta. Però, da un punto di vi­sta rigorosamente "imperiale" e quindi autenticamente ghibellino, non possiamo esimerci dal fare due osservazioni nei confronti della concezione del Mordini:

  1. essa, rispecchiando il punto di vista exoterico di una partico­lare religione, il cattolicesimo, appartiene all'ambito del tradizio­nalismo, il quale sta alla Tradizione nello stesso rapporto in cui la parte sta al Tutto;
  2. inoltre, in quanto privilegia la tradizione ebraica nei con­fronti di quella classica, non è in alcun modo legittimata a fornire enunciazioni o argomentazioni intorno all'essenza dell'Imperium, che affonda le sue radici nella Tradizione Classica, alla quale inte­ramente appartiene ((L'Imperium è una Realtà precristiana. L'Impero di Augusto (così come quello di Traia­no, Adriano, Giuliano, ecc.) non poteva discendere da Cristo per il semplice motivo che si trattava di un'Autorità sacrale non cristiana. Questa ovvia constatazione basta a mostrare i limiti della concezione imperiale (e quindi ghibellina) esposta nel numero speciale della rivista EXCALI­BUR, I Fati dell'Impero (Roma, 1979). Detta pubblicazione si propone di racchiudere in nove "scarni principi" la visione del mondo ghibellina, ma la lettura del primo di essi è sufficiente a denotare che si è al di fuori di ogni autentica prospettiva esoterica inerente alla metafisica impe­riale classica. Esso infatti enuncia che "La funzione imperiale e quella sacerdotale sono comple­mentari. La funzione di entrambi gli Ordini promana dall'identica Persona divina, perciò il Papa è il Vicario di Cristo Sacerdote e l'Imperatore Vicario di Cristo Re" (p. VI). Come si vede, tale con­cezione è applicabile soltanto al c.d. Sacro Romano Impero e non certamente all'antico Impe­rium romano. Per noi il vero Imperium è quest'ultimo, mentre per il Mordini, come vedremo, è l'Impero Cattolico.)).

Del resto, lo stesso Mordini mostra di avere in vista un'altra co­sa, quando parla d'Impero, che non l'Imperium dei Romani. Infatti, sfuggendogli la dottrina esoterica dell'Unità trascendente delle Tradizioni, scambia per sincretismo la Sintesi pantheonica imperia­le romana, della quale non coglie l'essenza superreligiosa e vera­mente universale, cadendo così nell'errore tipico di ogni tradiziona­lismo religioso. Ecco come egli enuncia il suo errore: « E Roma, centro del mondo, raccoglieva nel suo Pantheon i simulacri di tutte le divinità straniere, tutti gli dei di quei popoli che al suo Impero si andavano man mano ordinando. Ma non si trattava ancora di vera unità, non si trattava della sintesi vera e cattolica, bensì di sincreti­smo » (Attilio Mordini, Il Tempio del Cristianesimo - Per una retorica della storia, Torino, 1963, 37). In tal modo, per il Mordini, « L'Impero dei Cesari, Impero del sincretismo, non fu dunque il vero Impero Romano, ma solo anelito di sintesi, di vera unità e di vero Impero. Il vero Impero Ro­mano è quello di Carlo Magno, fondato sulla Verità di Pietro che, nelle catacombe, nel Latium, ha operato l'incontro del Verbo incar­nato con la Tradizione precristiana » (Ibid.Attilio Mordini, Il Tempio del Cristianesimo - Per una retorica della storia, Torino, 1963, 37). Questo significa parlare chiaro e sarà quindi bene tener presente, per evitare confusioni ter­minologiche che vanno a tutto vantaggio della parte guelfa, che ogni qualvolta i mordiniani parlano di "vero" Impero Romano si ri­feriscono a quello di Carlo Magno, nato da una usurpazione papale, quello che si potrebbe, con buona ragione, definire ironicamente come l'impero delle guardie svizzere (Che altro pensare di un Impero che tranne qualche sporadica, onorevole eccezione, non ha mai osato, pur dicendosi "Romano", rivendicare la sua naturale Sede, Roma?).

Dunque, per il Mordini, il vero Impero romano è quello fondato sulla verità di Pietro, che nelle catacombe ha unito il Verbo incar­nato alla Tradizione precristiana. Egli ritiene che: « Qualcosa di nuovo è accaduto nelle catacombe; non soltanto ora si battezzano individui romani e incirconcisi, ma si battezza Roma e il mondo ariano nelle più antiche tradizioni, solo che Roma riconosca nei suoi miti i segni del Cristo che doveva venire, del Dio ignoto che si fa finalmente riconoscere Salvatore e vittorioso ». (Attilio Mordini, Il Tempio del Cristianesimo, ecc., 30). Conveniamo con il Mordini che nelle catacombe è avvenuto qualcosa di impor­tante, soltanto che dubitiamo che ciò sia stato un fatto positivo, al di là di quelli che possono essere i benefici connessi con un messag­gio di redenzione, in un dominio soltanto religioso ed exoterico. In­fatti, nelle catacombe, non solo si verificò, come dice il Mordini, il battesimo di Roma e del mondo ariano nelle sue più antiche tradi­zioni, cioè, in altre parole, l'innesto di una tradizione semitica su di una tradizione indoeuropea, ma qualcosa di ben più grave e radica­le, cioè la sostituzione della Storia sacra di un ceppo di popoli non semitici, quello italico, con la Storia sacra di genti semitiche. Da al­lora, infatti, la Storia sacra degli Italici non sarà più quella dei Latini, dei Tirreni, dei Liguri, dei Siculi e degli altri popoli dell'Eneide, libro sacro della Tradizione italica, scritto dall'Iniziato Virgilio, ben­sì quella che narra le vicende degli Israeliti, dei Moabiti, degli Idu­mei, dei Madianiti e delle altre genti dell'Antico Testamento.

Francamente, non è questa una cosa che ci riempie di giubilo. Nella concezione cattolica del Mordini, invece, il trapianto assume una connotazione positiva: « Il seme è gettato nella catacomba, e il frutto ne sarà la Chiesa come istituzione organica e gerarchica, co­me corpo mistico risorto, come Tempio di cui Cristo sarà al tempo stesso costruttore e pietra angolare » (Ibid). Prendiamo atto, dunque, che, per il Mordini, il Tempio non è altro che la Chiesa che emerge dalle catacombe. Per il vero ghibellinismo, invece, il Tempio è solo quello che accoglie tradizioni diverse intorno all'Unità trascenden­te dell'Assoluto, Tempio di cui si ha un'immagine visibile nel Pan­theon di Roma ed un'eco medioevale nel mito del Prete Gianni, per­sonaggio sicuramente ben distinto e diverso dal papa del cattolice­simo.

Del resto, che nella visione mordiniana l'Impero si riduca ad es­sere una mera estrinsecazione della Chiesa, è lo stesso Mordini a dircelo. Mentre nella originaria concezione imperiale classica, che si mantenne perfino nel cristiano Impero Romano d'Oriente, la Chiesa ebbe esistenza nel più vasto ambito dell'Impero, nella visio­ne del Mordini esso sussiste in seno alla Chiesa, di fronte alla quale sfuma e si dilegua la sua legittima, autonoma ed originaria fisiono­mia: « Si è scritto molto sulle relazioni tra stato e Chiesa nel medioe­vo ad opera di autori moderni, ma non si è ancora compreso a suffi­cienza che nell'ordinamento medievale non v'era dualità tra stato e Chiesa come se si fosse trattato di due enti diversi. In realtà non esi­steva lo stato; v'era solo la Chiesa, unico gregge sotto un solo pasto­re ma con due diverse autorità e due diverse gerarchie, la gerarchia del clero e la gerarchia civile. Era appunto l'ordinamento civile a chiamarsi Impero; ma Imperium significa solo comando, autorità; una virtù dunque, non una vera e propria società quale è la Chiesa, vale a dire tutta l'organizzazione spirituale, civile e materiale della Cristianità cattolica » ((Ibid., p. 87.)). In proposito ci limitiamo ad osservare che, storicamente, quanto affermato dal Mordini può anche essersi verificato in ordine alle vicende del c.d. Sacro Romano Impero (e nemmeno sempre). Ma, lungi dal vedervi, come fà il Mordini, l'es­senza dell'Imperium, noi ve ne scorgiamo soltanto la parodia. Si tratta in 'definitiva della ben nota concezione guelfa che finisce, in ultima istanza, con il subordinare (direttamente o indirettamente) l'Impero alla Chiesa e quindi al capo supremo di quest'ultima, il pa­pa. Questa visione guelfa non è priva di risvolti territoriali. Infatti, coerentemente con la premessa, il Mordini così può concludere: « E se Roma era la sede dei Papi, era al tempo stesso la vera capitale dell'Impero » ((Ibid.)). Infatti, nella prospettiva guelfa, essendo il Papa, in ultima istanza, il capo dell'Impero (in quanto capo della Chiesa), è sufficiente che egli abbia sede in Roma, perchè tale sede divenga automaticamente anche la sede dell'Impero. Questo spiega perchè i guelfi non siano stati minimamente turbati dal fatto che le corti e le cancellerie del c.d. Sacro Romano Impero abbiano avuto sede dap­pertutto (ad Aquisgrana, a Madrid, a Vienna) fuorché a Roma. A lo­ro bastò ed avanzò che fosse il Papa, capo di tutto, a risiedere a Ro­ma. Questo errore è possibile, tra l'altro, perchè la prospettiva guel­fa ignora o tace che esiste una precisa liturgia imperiale e che tale precisa liturgia presuppone l'esistenza di un Palatium, all'interno del quale essa si svolge (come avvenne a Costantinopoli per l'Impe­ro Romano d'Oriente) e che un Impero sedicente romano che non ha il suo Palatium in Roma (come deve avvenire per motivi di geogra­fia sacra tradizionale) usurpa il nome romano e dell'Impero Roma­no è una semplice caricatura!

Il mancato riconoscimento, da parte del Mordini, della dignità autonoma, originaria ed irrinunciabile dell'Impero, non gli permet­te di cogliere il "segreto" della politica ghibellina degli Staufen, di­retta ad affermare l' Imperium quale potestà che non ammette limi­ti politici o territoriali di sorta. ((E' noto ad esempio, che Federico II si propose di rivendicare la massima autonomia dell'Impero nei confronti della Chiesa. Su tal punto cfr. A. De Stefano, L'idea imperiale di Federi­co II, Parma, 1978, cap. III, passim.)). E, nella scia di questa incom­prensione, egli giunge perfino a giustificare, sia pure come dura ne­cessità, la politica filo-angioina del papato, che costituì certamente la più grave e prevaricante ribellione guelfa all'Autorità imperiale: « Fu duramente necessario per il Papato chiedere l'aiuto del Re di Francia contro la casa di Svevia; e con tale appello ha inizio quel compito di difesa del Santo Seggio cui la Francia adempirà ripetutamente nel corso della storia fino ai nostri tempi » (Attilio Mordini, Il Tempio del Cristianesimo, p. 94). Fino a che, completiamo noi, ad un Vittorio Emanuele II riuscì di compiere ciò che i guelfi avevano impedito a Federico, Manfredi e Corradino. Ma su questo punto ritorneremo tra poco.

Prima infatti di giungere al punto della incomprensione, che il Mordini condivide con il resto della pubblicistica guelfa, del pro­cesso di unificazione dell'Italia attuato nel secolo scorso, vale ac­cennare ad altri due punti di vista, che il Mordini con detta pubbli­cistica ha in comune.

Innanzitutto, nel Mordini non v'è parola di un possibile autono­mo perpetuarsi della Tradizione Classica dopo l'avvento del Cristia­nesimo. Per lui, si è visto, l'assemblea dei Numi riuniti nel Pan­theon romano è soltanto sincretismo: « E della sintesi cattolica, quel sincretismo era soltanto la falsa copia demoniaca; falsa copia di cui il Verbo si serve come di uno strumento a preparare le nazio­ni all'Incarnazione del Figlio; falsa copia che l'avvento della vera ef­fige, della vera sintesi del Cristo, dovrà gettarsi come superflua, co­me loglio nel fuoco » (Ibid., p. 37). A ciò non si può che rispondere che con le serene e ferme parole del platonico pagano Giorgio Gemisto Pleto­ne, vissuto quattordici secoli dopo l'Incarnazione, il quale affermò, intorno agli Dei, "innanzitutto che esistono" ((Giorgio Gemisto Pletone, Riassunto delle dottrine di Zoroastro e di Platone, riportato ne "Il Ghibellino", nn. 2-3, p. 22) e quindi non sono sicuramente svaniti nel nulla con l'avvento del cristianesimo. Per quanto riguarda poi il significato dell'Incarnazione sul piano gene­rale, ci limitiamo a riferire la valutazione che ne dà il Mordini in un inquietante passo, nel quale espone le sue riflessioni al riguardo. Dapprima vi è una premessa di vago sapore antroposofico, nella quale il Mordini afferma che « Dopo l'Incarnazione, invece, assi­stiamo all'affermazione di civiltà atee e materialistiche e ciò che prima era regolato da forze misteriose, forse dagli angeli, oggi è la­sciato alla responsabilità dell'uomo che, da servo, è stato chiamato ad esser figlio di Dio e quindi ad essere libero » ((Attilio Mordini, Il Tempio del Cristianesimo, , p. 22.)) (davvero non riusciamo a capire come Pitagora e Buddha, vissuti prima di Cristo, possano essere considerati dei servi!). Il Mordini prosegue dunque nel suo ragionamento circa le cause dell'avvento del materialismo e del progresso tecnico (omettiamo di trascrivere i passi, per esigenze di spazio, rinviando il lettore al testo del Mordini) e giunge quin­di a questa allarmante conclusione: « Questo materialismo è stato possibile- solamente dopo che il Verbo s'è fatto toccare da mani umane; ma soprattutto è stato possibile quando popoli interi si so­no inginocchiati, per secoli, davanti alle Specie materiali del pane e del vino quale materiale presenza della Sua carne e del Suo sangue sulla terra » (Ibid., p. 23). Lasciamo al Mordini la responsabilità di tali affer­mazioni, che peraltro ci interessano marginalmente, interessandoci più da vicino quanto egli dice a proposito della Tradizione sapien­ziale classica. A riguardo occorre constatare ancora una volta la sua incomprensione, che lo conduce a non cogliere l'essenza vera, esoterica e classica, del Rinascimento.

Già la sua premessa ci appare fallace: « Così da una Grecia de­vota al suo Olimpo, alla sua assemblea di esseri divini ordinata at­torno al Padre Giove, da una Grecia solare, muove il pensiero di Ari­stotele, la sintesi più grandiosa che il mondo classico abbia mai espressa » (Ibid., p. 75). Questa affermazione non corrisponde a verità, per­chè la Tradizione sapienziale ellenica, tramandatasi più tardi a Co­stantinopoli in piena continuità linguistica e culturale, ha conside­rato, per bocca dei suoi ultimi esponenti, da Proclo a Psello ed a Pletone, che nella "sintesi più grandiosa" concorrono sia Platone che Aristotele, essendo comunque il primo, e non il secondo, in posi­zione di preminenza. E non è neppur vero, come afferma il Mordini, che « Senza l'Incarnazione di Cristo l'aristotelismo sarebbe finito sugli ultimi resti dell'Impero romano antico, mentre nell'Incarna­zione del Verbo trova il suo vero significato e la sua forma ideale. Nel dogma cristiano, e solo in quello, può conciliarsi col platoni­smo » (Ibid., p. 76). A parte il fatto che Aristotele ebbe fortuna e si perpetuò anche in ambiente islamico, e quindi al di fuori del mondo cristia­no, non si vede perché la filosofia aristotelica, che possiede in sé stessa la sua forma ideale e che ancor oggi si può studiare intelli­gentemente e con profitto al di fuori di qualsiasi riferimento al cri­stianesimo, debba attribuire a quest'ultimo le ragioni della sua so­pravvivenza! Altrettanto gratuito è poi affermare, con perentoria sicumera, che solo nel dogma cristiano l'aristotelismo può conci­liarsi col platonismo. Una siffatta conciliazione, al contrario, era già avvenuta ad opera degli ultimi filosofi pagani prima e dei filoso­fi arabi poi, quindi in contesti culturali assolutamente non cristia­ni. Ma il Mordini prosegue nelle sue affermazioni errate: « Il lievito del Vangelo, dopo aver nutrito il platonismo di vita eterna sino a farne traccia a pensatori come Agostino e Dionigi Aeropagita, ecco volgersi a fecondare l'architettura metafisica e logica di Aristote­le » ((Ibid.)). Non è affatto vero, invece, che il Vangelo abbia nutrito il platonismo di vita eterna, tanto è vero che, alle soglie del Rinasci­mento, si incontra, con Pletone, una forma raffinata e coerente di platonismo pagano, che costituisce altresì la dottrina di una orga­nizzazione esoterica facente capo a Pletone stesso. Infine, ci tedia dover ripetere che l'architettura metafisica e logica di Aristotele non ha avuto bisogno di alcuna fecondazione artificiale cristiana per essere vitale e duratura. Si è che al Mordini, chiuso negli sche­mi di una dogmatica confessionale, è sfuggito il carattere superreli­gioso di philosophia perennis che compete al platonismo-aristoteli­smo, con il secondo in posizione gerarchicamente subordinata al primo. E, parimenti, in linea con l'avversione guelfa per il Rinasci­mento, al Mordini dispiace la fortuna di Platone presso gli uomini di cultura del Rinascimento: « Troppi cristiani, fra gli uomini di cultura, sin dal XV secolo avevano preferito chiamarsi tra loro fra­telli in Platone anzichè fratelli in Cristo; e in quelle pose classicheg­gianti veniva conculcata la viva e profonda verità di una più che millenaria tradizione cristiana » ((Ibid., p. 115.)). Se il Mordini avesse colto l'es­senza esoterica, superreligiosa e superconfessionale del platoni­smo, non avrebbe dovuto rammaricarsi che i migliori spiriti del Ri­nascimento avessero preferito percorrere l'aristocratica via della conoscenza platonica anzichè la democratica via della salvezza cri­stiana. Naturalmente l'alto livello metafisico del Rinascimento de­cadde con la Controriforma, la quale, come ricorda proprio il Mor­dini, riportò "in auge Aristotele" (Ibid., p. 107. Sulla reale grandezza ed importanza di Platone dal punto di vista metafi­sico e tradizionale, rimandiamo alla III parte dell'articolo di ULTOR, che apparirà sul prossimo numero de Il Ghibellino), cioé una forma di conoscenza notoriamente inferiore al platonismo.

Ritenuto dunque che per il Mordini la Tradizione Classica si è estinta e che l'anima classica del Rinascimento rappresentò un fenomeno negativo, non rimane che da attendersi, in sostanziale con­formità alle costanti del pensiero guelfo, un analogo giudizio sfavo­revole nei confronti del Risorgimento. Ed infatti così è.

Vi sono alcuni punti di partenza errati che traggono il Mordini in inganno in ordine alla giusta valutazione del Risorgimento. Egli infatti parte dalla falsa premessa che il moto di unificazione e di in­dipendenza di Italia fosse dovuto ad una esasperazione del naziona­lismo italiano, secondo l'ottica di Metternich: « Quando la nazione veniva sopravalutata nel particolarismo nazionalistico era morbo­sa remora, e andava schernita come espressione geografica. Espres­sione geografica avrebbe dovuto chiamarsi, in tal caso, non solo l'Italia, ma la stessa Austria; ed è ben per questo che subito presentì insostenibile la situazione di un Impero, non più cattolico, non più universale, ma austriaco » (Ibid., p. 159).

Vi sono nella impostazione del guelfo Metternich, ripresa dal Mordini, alcuni gravissimi stravolgimenti della realtà. Innanzitutto l'Impero asburgico non fu mai soltanto cattolico ed universale, ma soprattutto tedesco. Esso, infatti, in epoca risorgimentale, era il di­scendente diretto di quell'Impero che già alcuni secoli prima, all'epoca di Massimiliano I, aveva assunto il titolo di Sacrum Impe­rium Romanum Nationis Teutonicae (Heiliges Rómisches Reich Teuscher Nation), ovvero, in italiano, Sacro Romano Impero della Nazione Tedesca. Esso, come annota uno storico serio ed avveduto quale il Bryce, "scendeva così a divenire una potenza puramente te­desca" (Giacomo Bryce, Il Sacro Romano Impero, Milano, 1907, p. 441.). Come si vede, il nazionalismo, con buona pace di Mordi­ni e di Metternich, non l'hanno inventato i patrioti italiani del seco­lo scorso. Si può star certi che non vi sarebbe stato bisogno né del Risorgimento né del nazionalismo italiano, se fosse esistito un Sa­crum Romanum Imperium Nationis Italicae (Sacro Romano Impe­ro della Nazione Italiana), con Capitale in Roma, naturalmente! Del resto, che nell'Impero asburgico, pur con tutti i suoi pregi di buona amministrazione e di paternalismo verso i vari popoli che lo compo­nevano, la posizione egemone fosse assicurata all'elemento tede­sco, direttamente rappresentato dalla Casa d'Austria, è provato dal­la posizione di privilegio riservata alla lingua tedesca, fatto questo chiaramente rivelatore, di quale fosse l'elemento dominante (si pen­si ad esempio alla funzione del latino nell'Impero d'Occidente, a quella del greco nell'Impero Romano d'Oriente, e dell'inglese nell'Impero Britannico). Si comprende, quindi, come il Metternich, Francesco Giuseppe, ecc. fossero tanto avversi al sorgere di un na­zionalismo italiano. Esso rappresentava infatti la minaccia più di­retta e temibile per il nazionalismo austriaco, occultato dietro il preteso supernazionalismo dell'Impero asburgico. Esattamente, pertanto, i nostri antenati si resero conto che dietro l'imponente aquila asburgica si nascondeva l'austriaca gallina, da essi giusta­mente dileggiata, e tale si rivelò infatti quando i nostri soldati le strapparono le penne dell'aquila, delle quali pomposamente si am­mantava!

E dobbiamo altresì respingere al mittente, essendo null'altro che un vituperio guelfo, l'indicazione dell'Italia, da parte del Met­ternich, quale espressione geografica. Il Mordini si sforza di stempe­rare l'oltraggio, dicendo che tale locuzione, in analoghe condizioni, sarebbe stata applicabile anche all'Austria. Non siamo d'accordo. A parte il fatto che, guarda caso, il Metternich la adoperò nei confron­ti dell'Italia, e soltanto dell'Italia, noi diciamo forte e chiaro che l'Italia non può mai essere una semplice espressione geografica, perché essa è una terra sacra, la Suturnia Tellus, come avrebbe do­vuto sapere il Metternich, se si fosse preso la briga di farsi spiegare, da qualche professore dell'Impero (se ne avesse trovato qualcuno all'altezza) il significato tradizionale dell'Italia in Virgilio ed in Dante.

Vero è che anche il Mordini ammette che l'Italia andava unifi­cata: « Gli Asburgo non si erano mai mostrati avversi alla unità d'Italia, ed auspicavano di buon grado la federazione dei principati della penisola, che permetteva di attuare il programma tracciato dal Metternich al congresso di Lubiana del '21 » ((Ibid., p. 166.)).

Ma tale "federazione", lo diciamo senza mezzi termini, sarebbe stata soltanto una caricatura dell'Unità ed una beffa all'Indipenden­za. Infatti l'Italia sarebbe rimasta sottoposta alla pesante influenza dell'Austria, alla quale avrebbe poi 'continuato direttamente ad ap­partenere il Regno Lombardo-Veneto. Inoltre, la "federazione" avrebbe compreso tra i "legittimi" Principi anche il papa, chejegit­timo non era affatto, essendo il potere temporale dei papi, come più-volte si è visto, una vera usurpazione, anticamente radicata sul falso truffaldino della c.d. donazione di Costantino, "donazione" che il Mordini considera vera quantomeno nella sostanza, ((Ibid,, p. 91. Un polemista avversario (v. l'articolo di Ottone su Il Rogo - Bollettino-Notiziario Trimestrale, Supplemento ad "Excalibur", N. 2/1979, p. 7) ha espletato un goffo tentati­vo di difesa dell'affermazione del Mordini: « Mordini... si limita a riconoscere l'esistenza di un da­to di fatto che precede di secoli il falso documento, per cui la "donatio" è "vera nella sostanza", cioé nell'effettivo potere esercitato dai Ponterfici su di un territorio... '. Il che equivale a dire che se un tale, proprietario(!) di un ettaro di terreno, si confeziona un documento falso dal quale ri­sulta proprietario di cento ettari (cioé dell'Impero di Occidente!), il documento deve ritenersi ve­ro nella sostanza, perché comunque è proprietario di un ettaro. Strane idee sul diritto di proprie­tà!)) ponendosi così in perfetta antitesi con Dante Alighieri, il quale, non avendo a disposizione elementi per dichiararla falsa nella forma (il falso ven­ne dimostrato solo qualche secolo dopo dal dotto umanista Lorenzo Valla), la contestò almeno nella sostanza (Monarchia, III, 10).

Con queste premesse guelfe si comprende come al Mordini non sia piaciuta la presa di Roma da parte dell'Esercito Italiano, la qua­le invece rappresentò un atto di somma giustizia ghibellina e v'è da rammaricarsi soltanto che sia avvenuto solo nel secolo scorso, po­nendo comunque fine, per quanto tardi, a una usurpazione plurise­colare. Infatti il Mordini così si esprime al riguardo: « È così che i bersaglieri italiani possono agevolmente impadronirsi della capita­le del mondo per farne una delle tante capitali di stato » ((Ibid, p, 171.)). Al che, per amore di giustizia e di verità, ci corre l'obbligo di rispondere e precisare: 1) che Roma non era la capitale del mondo, bensì soltan­to del mondo cattolico (non solo il mondo induista e quello islami­co, bensì anche quello cristiano-ortodosso e cristiano-anglicano, per limitarci ad alcuni esempi, hanno diverse "capitali"); 2) che Ro­ma rimase "capitale" del mondo cattolico anche dopo la breccia; 3) che se Roma, dopo la breccia, cessò di essere capitale di qualcosa, finì soltanto di esserlo di un ridicolo statarello clericale male am­ministrato ed oggetto di ludibrio da parte di tutta Europa (proprio come sta diventando oggi l'Italia, dopo un trentennio di governo da parte della democristianeria).

E con questo possiamo chiudere circa le idee del Mordini, an­che per evidenti ragioni di spazio. Prima di concludere l'argomento del tradizionalismo guelfo relativamente al Settentrione d'Italia, e passare prossimamente ad esaminare quello relativo al Mezzogior­no, resta da dire qualcosa circa un curioso fenomeno di "Asburgo-mania" ((In tal modo tale moda viene definita da Quirino Principe in un articolo, così intitolato, che fa parte di un servizio dedicato all'argomento dalla rivista "Il Settimanale", nr. 48 del 28-11­ In tale corrente si collocano il libro Amore mio uccidi Garibaldi, di Isabella Bossi Fedrigot­ti (Milano, 1980), in cui il protagonista, dal tedeschissimo nome di Fedrigo Bossi Fedrigotti, nel ri­ferire alla moglie la notizia della (presunta) vittoria austriaca contro gli Italiani a Custoza, scrive alla moglie: "Che austriaco felice sono, stasera, mia Leopoldina" (p. 68); ed il libro di Carolus L. Cergoly, Il complesso dell'Imperatore, Milano, 1979, nel quale l'autore riprende il vieto argomen­to della pretesa "supernazionalità" dell'Impero asburgico e poi, di fronte al fatto che il tedesco fosse la lingua egemone, cerca di addolcire la pillola scrivendo che trattavasi, in Italia, di "un austro-italiano con cadenze e ritmi propri dell'austro-italiano" (p. 192). Ma sempre "tedesco" era, e noi la lingua di Dante siamo educati a non posporla o mescolarla ad alcun linguaggio barbarico, per quanto possa essersi evoluto!)) verificatosi di recente in Italia, quale "moda" favorita dalle suggestioni scaturite da torbidi abboccamenti finanziari di ambienti lombardi e bavaresi. Nel flusso di tale "moda" si colloca, in posizione di spicco, il libro di Franz Herre, Francesco Giuseppe (Franz Herre, Francesco Giuseppe, Milano, 1980.)), libro che cola livore nei confronti degli Italiani. In esso si leg­ge, ad esempio che Custoza fu "lo storico campo di battaglia sul quale gli italiani sembravano aver fatto un abbonamento alle scon­fitte" (p. 210). Orbene, in riferimento alla battaglia della terza guer­ra d'Indipendenza (24-6-1866), più che di una sconfitta, ci sembra si sia trattato di inesperienza e disorganizzazione da parte del neona­to esercito unitario italiano, dato che, nello scontro, gli Italiani eb­bero 714 morti e gli Austriaci 1170. Comunque, è vero che nei con­fronti dell'Italia l'Impero austro-ungarico non fece alcun abbona­mento alla sconfitta: esso l'acquistò tutta in una volta, nella prima guerra mondiale, e cessò di esistere. Apprendiamo inoltre, dal libro di Herre, che l'imperatore Francesco Giuseppe chiamava il Re d'Italia Vittorio Emanuele II "ladro di terre e borsaiolo" (p. 175). Poichè non siamo disposti a tollerare, senza reagire, alcuna offesa, neppure se ci giunge postuma, al grande Re ghibellino d'Italia, oltre al poco lusinghiero parere su Francesco Giuseppe del grande Ezra Pound, riportato sotto il titolo, ((L'espressione di Pound si trova nel libro Jefferson and/or Mussolini, Liveright, New York, 1970, p. 83, e suona testualmente: "Franz Josef was one fo the most schifoso figures of the ..".)) trascriviamo, quale risposta alle oscure manovre guelfe dirette ad "angelicare" Francesco Giuseppe e con lui l'aquila asburgica, le sonanti terzine dedicate da Gabriele d'Annunzio all'argomento:

"...Ma uno più d'ogni altro si costerna.

Egli è l'angelicato impiccatore,

l'Angelo della forca sempiterna.

Mantova fosca, spalti di Belfiore,

fosse di Lombardia, curva Trieste,

si vide mai miracolo maggiore?

La schifiltà dell'Aquila a due teste,

che rivomisce, come l'avvoltoio,

le carni dei cadaveri indigeste..." ((La poesia di Gabriele d'Annunzio è riportata in La patria nella vita e nell'opera di Ga­briele d'Annunzio, di Paride De Bella, Quaderni di "Ricerche", Roma, 1975, p. 21.)).

Che i contenuti antitaliani del libro dello Herre non abbiano in Italia suscitato soltanto, come dovevano, una beffarda curiosità, ma spesso, come sembra, un sospiroso consenso, si spiega solo con il non trascurabile numero di servi che vivono presso di noi da quando i Romani ne importarono in quantità.

Se ci occupiamo su questa rivista di una moda, quale l' "Asbur­gomania", apparentemente innocua o comunque facilmente ironiz­zabile, ciò si deve al fatto che tale moda è andata incontro al lavorio antitaliano ripreso da alcuni ambienti filotedeschi e nostalgici dell'Impero asburgico, presenti nel Friuli-Venezia e nel Trentino-Alto Adige, gruppi che di recente hanno rialzato la testa, approfit­tando dello sconquasso in cui il guelfismo al potere ha gettato l'Ita­lia ((La "Asburgomania" spinge talvolta il suo zelo fino al culto di elementi di contorno, quali le brache di cuoio (Lederhosen) e le stelle alpine. A proposito del costume con le brache di cuoio ricordiamo di aver visto una volta la parata militare (military tattoo) al Castello di Edim­burgo, in Scozia. Edimburgo è gemellata con Monaco di Baviera e pertanto sfilavano alternate le bande scozzesi e bavaresi (quest'ultime con le immancabili brache di cuoio). Ricordando la pate­tica impressione che queste provocavano di fronte al lento, solenne, marziale e quasi romano in­cedere degli Scozzesi, non comprendiamo che cosa trovino i guelfi nel costume con le brache di cuoio, che li faccia in tal modo sdilinquire. Riguardo poi alle stelle alpine, poiché questa è una ri­vista siciliana, ci sia consentito di riportare quanto scrive uno storico militare serio e certamente non sciovinista come Piero Pieri in Italia nella prima guerra mondiale, Torino, 1965, p. 173, circa un importante fatto d'armi che coinvolse la divisione austriaca Edelweiss (stella alpina) nel no­vembre 1917: "il 26 i Siciliani della brigata Aosta respingevano gloriosamente l'attacco della divi­sione Edelweiss al Col della Berretta". Questo valga per coloro che hanno o fingono di avere la memoria corta!)).

Ci vogliamo dunque prendere il divertissement di rispondere a costoro, riportando il "Decalogo dei tricolori del Brennero", detta­to da F.T. Marinetti all'Associazione denominata "La Guardia al Brennero". Anche se molte delle idee strampalate del futurista Ma­rinetti sono assai lontane dal nostro ghibellinismo, occorre dargli atto che egli ebbe sempre altissimi l'idea e l'orgoglio della Patria italica, come traspare del resto chiaramente dal suo paradossale "decalogo".

Lo trascriviamo pertanto integralmente, quale ironica risposta a tutti gli austriacanti, anche se siamo purtroppo consapevoli che, dopo un cinquantennio di guelfismo (iniziatosi con it Concordato del 1929 e tuttora perdurante), l'Italia e gli Italiani sono decaduti ri­spetto a quelli che it Marinetti aveva in vista nel lontano 1926:

1 - Divinita dell'Italia. 2 - I Romani antichi hanno superato tutti i popoli della terra: l'ita­liano oggi e insuperabile. 3 - Il Brennero non è un punto di arrivo, ma un punto di partenza. 4 - L'ultimo degli italiani vale almeno mille forestieri. 5 - La lingua italiana è la pift bella del Mondo. 6 - I prodotti italiani sono i migliori del Mondo. 7 - I paesaggi italiani sono i più belli del Mondo. Per comprendere la bellezza di un paesaggio italiano occorrono occhi italiani, cioe occhi geniali. 8 - L'Italia ha tutti i diritti poiché mantiene e manterrà it monopo­lio del genio creatore. 9 - Tutto cio cheè stato inventato e stato inventato da Italiani. 10 - Perciò ogni forestiero deve entrare in Italia religiosamente ((Il "decalogo" marinettiano e riportato da Enzo Benedetto in Futurismo cento x cento, Roma, 1975, p. 59.)). Gherardo Donoratico (3-continua)   [caption id="attachment_20351" align="aligncenter" width="300" class="center center "]Il grande Re ghibellino Vittorio Emanuele II di Savoia, effigiato con in capo la Corona di Ferro, emblema del Regnum Italicum. Il grande Re ghibellino Vittorio Emanuele
II di Savoia, effigiato con in capo la Corona
di Ferro, emblema del Regnum Italicum.[/caption]   Pubblichiamo col consenso dell'autore e con l'aiuto dell'amico Massimo Chiapparini Sacchini le quattro parti del presente saggio uscito per la storica rivista Il Ghibellino (1979 - 1983).  
Questa terza parte era compresa nel NUMERO 4-5-6 (dicembre 1981 e.v.)
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